Recensione dell’ammiraglio Sebastiano Antonio Ponzio a “REDENTA ED UNA CADUTI. REDUCI E DECORATI DI BURGIO”

Cpertina definitiva

REDENTA ED UNA
di Antonino SALA

Si è appena commemorato il secolo dalla solenne tumulazione del Milite Ignoto presso l’Altare della Patria, al Vittoriano, evento promosso dal Parlamento del Regno d’Italia dopo la conclusione della Grande Guerra, nel corso della quale persero la vita circa 650mila militari italiani e oltre un milione rimasero feriti ed invalidi. Con l’approvazione della legge 11 agosto 1921, n.1075, il Parlamento del Regno d’Italia dispose infatti “per la sepoltura in Roma, sull’Altare della Patria, della salma di un soldato ignoto caduto in guerra”, al fine di onorare i sacrifici e gli eroismi di tutta la collettività nazionale simboleggiati nella salma di un semplice soldato, assolutamente sconosciuto, e non di un condottiero vittorioso, di un soldato che nella fornace della guerra aveva perso non solo la vita ma anche la sua identità di uomo.
All’Ignoto combattente tumulato all’Altare della Patria fu conferita contestualmente la medaglia d’oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria”
Nel quadro di queste celebrazioni, 3185 Comuni d’Italia hanno deciso di conferire la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto. Più di duecento amministrazioni comunali hanno scelto inoltre di intitolare al Milite ignoto, Medaglia d’Oro al valor Militare, una via, una piazza o un altro spazio cittadino. Lo hanno fatto nell’ambito del “Progetto Milite Ignoto, Cittadino d’Italia”, promosso dal Gruppo delle Medaglie d’Oro al Valor Militare d’Italia in collaborazione con l’ANCI e il Consiglio Nazionale Permanente delle Associazioni d’Arma (ASSOARMA). Tra le adesioni spiccano quelle di ben 18 capoluoghi di Regione e di una novantina di capoluoghi di provincia, oltre a numerosi piccoli centri di ogni angolo del Paese.
Fra i comuni che hanno aderito all’iniziativa vi è il Comune di Burgio in Provincia di Agrigento che nel corso della storia unitaria ha pagato la sua quota di vite umane sacrificate per la Patria e che oltre a concedere la cittadinanza onoraria al milite ignoto ha inteso altresì patrocinare una pubblicazione per censire ed onorare i caduti e i dispersi della città tramandandone la memoria alle nuove generazioni. Interprete di tale lodevole iniziativa è il Prof. Ing. Antonino Sala di antica famiglia burgitana, docente negli Istituti Superiori, appassionato cultore di storia e tradizioni della sua terra nonché saggista ed autore di numerose pubblicazioni di carattere politico, filosofico e letterario. Dal 2019 ricopre l’incarico di responsabile del Baliato dei Familiari dell’Ordine Teutonico di Sicilia.
Il titolo scelto per la pubblicazione dal Prof. Sala, “Redenta ed Una” con sottotitolo “Caduti. Reduci e Decorati di Burgio”, richiama l’armistizio di Villa Giusti del 3 Novembre 1918 che pose fine alla Grande Guerra; le parole “Italia redenta ed una per valore dei suoi soldati – 3 novembre 1918” campeggiano su un fazzoletto commemorativo che venne distribuito a tutti i combattenti e da costoro conservato gelosamente a ricordo della loro partecipazione.
Nel volume l’Autore non ha limitato la sua ricerca ai soli reduci, caduti e decorati della Grande Guerra ma ha voluto, giustamente, includere tutti i combattenti originari del paese che hanno preso parte alle varie guerre che hanno impegnato l’Italia, dalla guerra di Libia (1911) alla guerra partigiana (1943-5), del resto il Milite Ignoto simboleggia tutti i caduti, ignoti o non, di qualsiasi Forza armata sacrificatisi in tutte le guerre ed operazioni militari alle quali l’Italia ha partecipato dalla sua nascita nel 1861.
Il Prof. Sala non si limita a rievocare le vicende dei caduti e dei reduci della Grande Guerra ma con una acuta e pregevole attività di ricerca condotta presso l’Ufficio Storico dello SME ne inquadra anche dal profilo storico ed operativo l’Unità di appartenenza (Brigata, Reggimento, Divisione etc.) dando così una panoramica delle circostanze e dei luoghi nei quali il militare operò. Contestualizzare il reparto e il teatro operativo è senz’altro una apprezzabile ed originale iniziativa che impreziosisce il volume e ne stimola la lettura. Troviamo ad esempio un caduto del 141° reggimento della Brigata Catanzaro, unità prima falcidiata sull’Hermada dagli austriaci e quindi, ingiustamente accusata dal Cadorna di ammutinamento, sottoposta a decimazione. Troviamo un altro caduto appartenente al 78° Rgt. Fanteria della Brigata Toscana, Reggimento che meritò il nome di “Lupi di Toscana” per l’impeto e il valore dimostrato.
L’Autore ha inteso accomunare tutti i combattenti di Burgio prescindendo dai condizionamenti ideologici: troviamo infatti una medaglia d’argento della Guerra in Africa Orientale concessa al S.Ten. Guarisco comandante di plotone di un reggimento indigeno, vi è un militare martire infoibato a Trieste dai partigiani titini e un combattente delle formazioni partigiane, sopravvissuto alla guerra.
L’opera si conclude con una accurata, interessante e sicuramente imparziale analisi critica della controversa figura di Vittorio Emanuele III, il Re soldato; l’Italia sotto questo sovrano, che ha regnato per quasi dieci lustri, ha attraversato lunghi periodi di guerra: dalla impresa di Libia alla Grande Guerra, dalla guerra di Spagna alla guerra d’Etiopia, alla Seconda guerra mondiale. Personaggio controverso al quale la storia forse non ha reso completa giustizia e il cui nome resta purtroppo legato alle infami leggi razziali e alla “fuga” a Brindisi al momento dell’Armistizio dell’8 settembre 1943. La serena, documentata ricostruzione critica del Prof. Sala ne mette appunto in risalto le luci e le ombre di questo sovrano sgombrando il campo dai giudizi sommari e strumentali.
La fatica editoriale di Antonino Sala, unitamente alla sensibilità dell’Amministrazione Comunale di Burgio, è sicuramente una preziosa testimonianza del suo attaccamento alla storia, alle tradizioni e ai valori condivisi del suo paese natale, un riferimento per le nuove generazioni che nelle pagine del libro possono ritrovare notizie biografiche dei propri ascendenti dei quali magari si era persa la memoria, un esempio che andrebbe imitato in altre città della nostra Sicilia che contribuì alla Grande Guerra con oltre 50.000 vittime e cioè con il 10% dei mobilitati tra il 1915 e il 1918, oltre ai tanti che continuarono a morire anche dopo l’Armistizio in seguito alla ferite riportate al fronte e ai moltissimi, troppi, che sopravvissero invalidi.

(Amm. Sebastiano Antonio Ponzio)

Recensione della scrittrice prof. Maria Patrizia Allotta a “L’Ordine Teutonico. Una Patria Spirituale. 830 anni al servizio di Cristo” Ed. del Baliato di Santa Maria degli Alemanni Sicilia

OTTO SECOLI SOTTO IL SEGNO DELLA CROCE DI CRISTO
SPIRITUALITÀ E PATRIA SECONDO LA FEDE DI ANTONINO SALA

Cristo non ritenne mai
un tetto tanto misero da
impedirgli di entrare con gioia,
mai un uomo tanto insignificante
da non voler collocare
la sua dimora nel suo cuore.

SØREN KIERKEGAARD

Nasce per sorte, forse per destino, sicuramente per fortuna il testo dal titolo L’ordine teutonico.
Una patria spirituale. 830 anni al servizio di Cristo, curato da Antonino Sala e stampato, a Novembre
del 2021, da 4Graph.it.
Per fortuna, si diceva, proprio perché il testo oltre a contemplare preziosi apporti di emblematici studiosi presenti alla conferenza voluta dal Baliato di Santa Maria degli Alemanni-Sicilia – causa pandemia avvenuta in modalità live il 19 Febbraio 2021 – raccoglie anche altri contributi indispensabili sia per la corretta ricostruzione della storia dell’antico Ordine Teutonico, sia per la necessaria identificazione dei “familiares” capaci quest’ultimi di tramandare, nell’arco del tempo, la memoria teutonica nonostante il trascorrere di 830 anni.
All’interno del testo si festeggia, quindi, l’essere in atto di quell’Ordine che proprio nella nostra isola ha sperimentato fama e fortuna grazie al primo insediamento dei cavalieri in Sicilia avvenuto, nel 1197, per volontà dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico VI, presso il monastero cistercense della Magione di Palermo denominato, successivamente, Santa Trinità dei Teutonici.
Una vera celebrazione, dunque, fatta d’immagini fotografiche storiche e testimonianze letterarie creative che unite insieme danno vita a un mosaico capace di evidenziare – in tempi oscuri e inquietanti come quelli che stiamo vivendo quando i dubbi conquistano il cuore e lo smarrimento prende lo spirito – come l’essere “cavalieri di Cristo” possa rappresentare la via salvifica, lo pneuma ascetico, l’orizzonte metafisico per la liberazione dell’anima e il raggiungimento dell’Assoluto.
L’attento curatore – appartenente ad antica famiglia di Burgio, Balivo di Santa Maria degli Alemanni, cavaliere dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro e del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, ingegnere, professore di fisica, storico, saggista e autore di diverse pubblicazioni tra cui ricordiamo Da Burgio all’Isonzo. Cento anni di Gloria. 1915-2015 (Avalon editore, 2015), Dal colle San Nicolò riflessioni di un Cavaliere di Cristo in diaspora (Avalon editore 2016), L’Ordine Teutonico in Sicilia 1197 – 2019 (Fondazione Thule Cultura, 2019), Redenta ed Una. Caduti, reduci e decorati di Burgio (Comune di Burgio, 2021), Il Solco della Libertà (Fondazione Thule Cultura, 2021) e, inoltre, coautore di La Beata Maria Cristina di Savoia Regina delle Due Sicilie (1812-1836) Regalità e Santità (ISSPE, 2013) e delle Memorie di personaggi e famiglie storiche di Burgio (Fondazione Thule Cultura) – attraverso un’architettura semplice ma di effetto, organizza un tappeto musivo dove le testimonianze si alternano con le riflessioni mentre le documentazioni si intrecciano alle meditazioni dando origine, così, ad un esaustivo quadro che altro non vuole se non confermare l’infinita ascesa della sacralità del sacro e l’eterna assunzione della tradizione che, se vera ed autentica, resiste e va oltre ogni prova interiore, ogni caduta esistenziale, ogni crollo universale.
I testi, dunque – al di là del comune linguaggio troppo spesso banale e artefatto tendente a schiavizzare specie le giovani generazioni e oltre gli idiomi ormai desacralizzati a volte volgari se non addirittura violenti atti a massificare anche le più nobili virtù – attraverso un linguaggio armonioso, semplice e decoroso elevano ogni lettore all’immaginario, al simbolico, al metafisico.
Così la verità di una storia diventa Mistero, mentre la realtà di un Ordine si fa Fede.
Storia e realtà evidenziate da Carmelo Montagna (architetto, docente, storico dell’Arte e saggista) il quale, con zelo, tratta I teutonici e la Gurfa. Indizi, tracce epigrafiche e ierofanie negli ipogei di Alia; da Pier Felice degli Uberti (Presidente dell’International Commission for Orders of Chivalry; della Confédération Internationale de Généalogie et d’Héraldique; dell’Istituto Araldico Genealogico
Italiano) capace, in poche pagine ma puntualmente, di raccontare la Storia ed attualità dell’Ordine dei frati della casa di Santa Maria in Gerusalemme, facendo riferimento alle “vicende storiche”, alla “decadenza e alla scissione”, alla “soppressione napoleonica” e alla “riforma del 1929” ma, soprattutto, ai “fini” e alla “struttura dell’OT”, ai “Cavalieri d’Onore e la loro nobiltà”, all’ “abito e le insegne”; e, ancora, da Marco Giammona (storico e saggista, docente di Italiano, Storia e Geografia, Presidente dell’Associazione Culturale SiciliAntica) che accentra il suo interesse sul Casale teutonico di Risalaimi promuovendo una disamina attenta che si muove tra storia e arte considerata, quest’ultima, espressione creativa dell’uomo capace di rispecchiare l’estro dell’Assoluto; e, infine, da Mario Liberato (storico, giornalista e saggista, Segretario Generale della Federazione Nazionale dei Giornalisti di Turismo Italia) il quale punta il suo interesse sui Monti Sicani roccaforte dei cavalieri Teutonici e come quest’ultimi “si prodigarono in nome della fede a fondare in molte località case suffraganee ed ospizi, acquistando a fini caritatevoli per lo svolgimento dei loro culti beni in Geraci, Polizzi, Corleone, Sciacca, e sino in Messina, Paternò, Avola e Noto, in ciascuno dei quali luoghi avevano un Chiesa, sede di un Precettore”, e di come “la loro attività religiosa si estrinsecava principalmente nel sostentamento delle anime sia dal punto di vista religioso ma anche per quello ospedaliero”.
Ma anche Mistero e Fede, si diceva, dettate dall’iniziale saluto gentile del Gran Maestro dell’Ordine Teutonico Frank Bayard; da Clodomiro Tavani FamOT (avvocato, Commendatore di Santa Venera al pozzo) il quale oltre a evidenziare L’impegno e la solidarietà della Commenda di Santa Venera al pozzo, sottolinea l’importanza della preghiera specie “all’Altissimo in questo momento particolare perché ci sollevi e ci liberi da questa pandemia che ci affligge”; da Guglielmo de’ Giovanni Centelles FamOT (R. Bajul FamOT ad Tiberim, Accademico Pontificio di Belle Arti e Lettere, professore, presso il Dipartimento di Scienze umanistiche, di Storia del Mediterraneo all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa) che manifesta la valenza del motto programmatico dei familiares dell’Ordine Teutonico: Sponde subvenire parati; e, ancora, da Marcello Pacifico FamOT (docente di Storia medievale e di Storia delle Chiese e del Cristianesimo presso l’Università Pegaso e dottore di ricerca in Storia medievale presso l’Università di Palermo e en histoire et archéologie des mondes médiévaux presso l’Université de Paris-X Nanterre) che celebra l’alto esempio del Grande Maestro Ermanno di Salza e le crociate (1217-1230); da Antonio Sebastiano Ponzio FamOT (cancielliere della Commedia di S. Venera al Pozzo, storico e saggista) il quale racconta del Servo di Dio Pier Paolo Rigler OT, riformatore e rinnovatore dell’Ordine; da Tommaso Romano (revisore dei conti del Baliato di Santa Maria degli Alemanni, professore di Filosofia, scrittore, critico ed editore) il quale ricorda come “contemplare la regalità di Cristo non è un fatto formale per l’Ordine teutonico e, invece, aspirazione, sforzo costante di affinamento interiore e Imitatio Christi che rende liberi nella verità e nelle difficoltà per conseguirla. É il non aver paura del dirsi cristiani, in epoca di secolarizzazioni e di desacralizzazione, e autentica aristocrazia che è la distinzione dal male, dalla massificazione, dal disordine interiore ed esteriore (…) è una scelta esistenziale e religiosa al contempo, sia per chi ne fa parte come consacrato, sia per chi, attraverso la dottrina e la storia mirabile, ne riconosce interiorizzandoli, i fondanti valori non transitori che possono agire con una sorta di metanoia, di cambiamento di stato, capaci di essere esempio per una rievangelizzazione necessaria, per una nuova Milizia Dei”; da Kristjan Toomaspoeg (Professore associato presso il dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo dell’Università del Salento) che approfondisce ancora una volta la tematica relativa ai Familiari dell’Ordine Teutonico in Sicilia; e, infine, da Mons. Gaetano Tulipano FamOT (assistente Spirituale del Baliato di Sicilia, professore di Teologia dogmatica, teologo e scrittore, Parroco di San Antonio Abbate arcidiocesi di Palermo) che entusiasticamente delinea le Linee di spiritualità per i familiari dell’Ordine Teutonico, facendo anche riferimento sia alla con-fraternita teutonica di Gerusalemme “i cui membri, in obbedienza al comando di Gesù, furono uniti nella carità vicendevole amandosi gli uni con gli altri come Gesù li aveva amati”, sia alla cura dell’infermo precisando come “l’infirmitàs era un concetto più largo della malattia”, infatti “l’infermità includeva qualsiasi tipo di fragilità o di debolezza sia fisica e sia spirituale per cui, nel Medioevo deboli, fragili erano gli stranieri, i viaggiatori, i mendicanti, gli esiliati, i pellegrini, il povero, l’indigente, colui che non aveva la possibilità di mantenersi, gli ammalati, i bambini, gli orfani, gli anziani e le vedove”.
Un mosaico insolito, un tappeto musivo raro, un quadro inconsueto, dunque, quello che ci regala Antonino Sala il quale, ancora una volta, si conferma straordinario curatore di opere che se da un lato testimoniano la sua passione per la storia e le tradizioni, dall’altro affermano il suo amore incondizionato per l’Infinito, il Sublime, il Divino. Per un compleanno d’eccezione una festa straordinaria, fatta di messaggi e Insegnamento, parole e Verbo, simboli e Segni, il tutto racchiuso in una visione di totalizzante Bellezza e assoluta Verità.
Così, nell’opera di Antonino Sala il passato s’incontra con il futuro in nome di quella Presenza e di quel Ritorno che tutti trepidamente attendiamo come vera parusia.

Nella vostra opera per il Regno di Cristo sapete di avere l’obbligo di agire tenendo presente il fattore umano e sociale della particolarità della vostra origine, infatti, dovete essere coloro i quali aiutano l’uomo strada facendo sotto il segno della croce di Cristo. San Giovanni Paolo II

Maria Patrizia Allotta

“Redenta ed Una. Caduti, reduci e decorati di Burgio” di Antonino Sala con la prefazione del prof. Andrea Ungari

Cpertina definitivaIn occasione della cittadinanza onoraria conferita dal Comune di Burgio al Milite Ignoto, esce con il patrocinio dello stesso comune, questo mio volume che racchiude tutti i caduti, i reduci e i decorati delle guerre italiane (Libia, IV Guerra d’Indipendenza – I Guerra Mondiale, II Guerra Mondiale, Repubblica Sociale Italiana – Guerra civile, Resistenza – II Risorgimento – Guerra di Liberazione) nati a Burgio, con la prefazione dell’autorevole prof. Andrea Ungari che di seguito pubblico e che ringrazio per la sua disponibilità e sensibilità verso quest’opera.

Il libro sarà presentato il 4 novembre a Burgio presso la sala convegni dell’ex casello ferroviario alle 17.30, e donato a tutte le famiglie dei caduti e a coloro che vogliono comunque onorare i propri concittadini morti per la Patria.

Prima però ricorderemo il sacrificio dei nostri familiari presso il monumento ai Caduti in Piazza Nassirya insieme alle autorità alle 15.30.

Un ringraziamento al Sindaco dott. Franco Matinella e alla sua amministrazione, per avere voluto così onorare i martiri dei vari conflitti.

PREFAZIONE di ANDREA UNGARI

Le ricorrenze sono sempre molto importanti, soprattutto quando esse consentono di ricordare e di celebrare eventi che hanno avuto un ruolo significativo per una comunità nazionale. In occasione delle ricorrenze, infatti, non si ha solo la possibilità di commemorare e, quindi, di dare il giusto riconoscimento ai protagonisti di certi avvenimenti, ma anche di ricostruire quel quel legame tra il passato e il presente di una nazione che consente di cementare l’identità nazionale di un popolo attorno a date simboliche.
E’ appena il caso di ricordare, qui, le molte celebrazioni che si sono svolte in Italia in occasione del Centenario della Grande Guerra che hanno prodotto eventi, convegni, pubblicazioni con lo scopo di lumeggiare, sotto angolazioni diverse, il conflitto mondiale.
Anche il 2021 si configura come un anno di ricorrenze, strettamente legate agli eventi del ’15-’18, ossia quelle riguardanti la traslazione della salma del Soldato ignoto dalla Basilica di Aquileia all’Altare della Patria a Roma avvenuta nell’ottobre-novembre 1921. Emblema dell’olocausto di molti giovani per conseguire la vittoria finale nella Grande Guerra e per assicurare all’Italia i suoi confini naturali, le celebrazioni intorno al Milite Ignoto rappresentarono un momento di intensa partecipazione da parte dell’opinione pubblica che in maniera assolutamente trasversale accorse al passaggio del vagone ferroviario che trasportava il feretro del Soldato ignoto.
Proprio per tale motivo, l’opera di Antonino Sala si inserisce appieno in questo clima di celebrazioni ed è assolutamente meritoria. Innanzitutto, perché Sala contribuisce a rendere omaggio ai caduti della sua città, Burgio, che diedero la vita per la grandezza della Patria. E se noi oggi rifiutiamo la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti, dobbiamo giudicare il sacrificio di questi giovani inserendolo nel giusto contesto storico, interno e internazionale, nel quale questi eventi si verificarono.
In secondo luogo, Sala giustamente ricostruisce i caduti di tutte le guerre italiane, non limitandosi solamente alla Grande Guerra, ma partendo dall’avventura della Guerra di Libia fino ad arrivare alle vicende della lotta resistenziale, restituendo in maniera integrale la vicenda dei caduti di Burgio ai suoi concittadini. Una rilettura che non si può che apprezzare proprio perché inserisce le vicende di Burgio nella grande storia nazionale e perché in questa non opera cesure che rischierebbero di non far comprendere quanto il passato abbia contribuito a creare la società nella quale viviamo.
Nello scorrere queste pagine, immagino che molti abitanti di Burgio ritroveranno i nomi dei proprio antenati e riandranno ai discorsi sentiti da ragazzini dai propri nonni. E nel chiudere queste pagine un loro pensiero andrà a tutti coloro che in tempi diversi sentirono l’amor patrio e per esso decisero di donare la propria vita. E allora il lavoro svolto da Nino Sala avrà ottenuto l’effetto che desiderava, ricordare a tutti il sacrificio di molti.

Andrea Ungari

Il Solco delle Libertà, ed. Fondazione Thule Cultura. L’ultimo libro di Antonino Sala

Cari amici, pubblico la copertina del mio ultimo libro “Il Solco delle Libertà” edito dalla Fondazione Thule Cultura di Tommaso Romano, che ringrazio, unitamente alla prefazione dell’autorevole vice presidente dell’Associazione Bancaria Italiana e presidente della Banca di Piacenza, lo scrittore, Cavaliere del Lavoro avvocato Corrado Sforza Fogliani a cui sono grato per l’attenzione e l’onore che mi ha concesso.
Quanti fossero interessati possono richiedere direttamente a me il libro.

PREFAZIONE
Nella “Nota preliminare” a questa sua pubblicazione (in-fra impaginata), Antonino Sala si confida. Confessa, meglio (e lo fa con la grande onestà morale e intellettuale che contraddi-stingue gli spiriti liberi), che la situazione pandemica ha creato in lui “la necessità” di approfondire “il tema delle libertà e dello stato” (così scritto, col la s minuscola, come lo scriveva Luigi Einaudi): “Affrontare questi temi ha tracciato un grande incavo che mi ha permesso di fondare in me una nuova città ideale, quella della libertà e della collaborazione volontaria, il cui con-fine è ormai sacro e inviolabile”. Un CambiaMente, dunque, in attuazione piena di quanto ci ha detto Einstein:
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se con-tinuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedi-zione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla not-te oscura. E’ nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. […] Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, fa violenza al suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. […] Il maggiore inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routi-ne, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito: è nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nel-la crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Fi-niamola una volta per tutte, con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superala”.
Collaborazione volontaria, attenzione, così scrive il No-stro. Consapevole che, come ci ha insegnato Étienne de la Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria, nulla può es-servi di peggio nella nostra vita – per l’aspetto morale individua-le, ma anche per la buona conduzione della vita pubblica – dell’asservimento, tanto più se non necessitato (dove, al limite, può essere compreso!) ma praticato per conseguire miserandi benefici.
Gli scritti di Sala che seguono, sono un inno all’individualismo ed al convincimento anche patito e sofferto, non c’è posto nel suo pensiero per l’opportunismo, altro che servitù volontaria…! Ogni argomento è trattato nel disegnato filone, fino a costituire una specie di Breviario (contemporaneo) dell’uomo libero. Con l’aggiunta peraltro di preziosità, anche fuori dal canovaccio generale: come il richiamo del discorso, in Hayek, del rapporto democrazia-sorteggio (quello che non ap-proveranno mai per i magistrati, nonostante esso sia – come ha dichiarato Palamara – la cosa che i trafficanti di cariche, incari-chi e favori, maggiormente temono); come il pezzo sulla destra italiana e la necessità che essa si epuri (e depuri) da incrostazio-ni estremiste; come – ancora – il discorso sulla tassazione pro-gressiva (da farsi proporzionale), sull’inflazione, sull’equilibrio contabile, sulla necessità di una legislazione “snella, chiara, coe-rente”.
Sala, insomma, è uno scrittore coerente, così come è un integerrimo pensatore, ancorato ai vecchi canoni dell’onestà in-tellettuale e dell’intransigentismo gobettiano. A lui, onore ed auguri cari.
Corrado Sforza Fogliani

Libertà di pensiero, di parola e di cura innanzi tutto

L’articolo di Antonio Polito uscito sul Corriere della Sera dal titolo “Covid, il modello etico dei no vax? Non può esistere”, è emblematico del crinale scivoloso che l’Italia ha imboccato. Chi scrive non è contrario alla vaccinazione, che ha praticato fin da quando era bambino continuando anche oggi con Astrazeneca, ma riconosco il diritto di chi la pensa in maniera totalmente diversa dalla mia a poter liberamente discutere delle proprie convinzioni e ad agire di conseguenza senza essere messo all’indice e prendendosi le relative responsabilità anche quelle estreme. Non mi scandalizzo, come fa il giornalista che “oggi è richiesto il «consenso informato» per ogni intervento; e anche quando è in gioco la vita, dalla procreazione assistita fino all’eutanasia, si ritiene che la scelta spetti solo alla persona” perché la penso proprio così: spetta solo al singolo decidere sulla propria esistenza.

Rifiuto l’idea di uno stato “etico” che possa operare per il “bene” dell’individuo come sostenevano Hegel e i sui epigoni Marx, Mao e soci e tutti i teorici dei totalitarismi del novecento. E’ la persona che è responsabile delle proprie azioni, difronte a Dio per chi è credente come me, e/o alla propria coscienza, il sovrano interiore, “l’egemonikòn” di cui parlava l’imperatore romano Marco Aurelio, per chi ha un approccio laico.

Meno male che, come lo stesso Polito scrive, “nelle democrazie europee, a differenza dei totalitarismi, esiste ormai un certo consenso sul principio liberale che non si possa costringere nessuno a fare qualcosa sulla base del fatto che gli gioverebbe, ma si possono usare tutte le buone ragioni e tutti gli strumenti per persuaderlo nell’interesse della comunità.”

Mi preoccupa invece leggere di aperture “consentite” e di “ampliamento delle libertà”, con tutte le criticità del caso la Libertà è una sola.

A proposito di green pass, libertà, proprietà ed autosovranità

Premetto a scanso di equivoci che mi sono vaccinato con due dosi di Astrazeneca e sono qua a scrivervi qualche considerazione sull’ attuale polemica sul green pass.

Credo nella libertà individuale e nella proprietà privata e ancor di più nell’autosovranità. Ognuno ha il diritto di scegliere se vaccinarsi o meno, ma assumendosi la responsabilità delle proprie azioni in un senso o in un’altro. Recentemente Alessandro De Nicola, autorevole presidente della Adam Smith Society, ha chiarito in un articolo, che in un sistema assolutamente libertario le misure potrebbero addirittura essere più restrittive di quelle vigenti, perché frutto della contrattazione tra parti che si accordano in un modo piuttosto che in un altro accettando rischi secondo le proprie convenienze. E allora per risolvere il problema della legittimità e ancor di più della utilità del green pass basterebbe lasciare che i luoghi pubblici ma di proprietà privata, come ristoranti, cinema e bar, possano scegliere che clientela accogliere senza criminalizzazioni, e alle persone se andare in un locale “Vax” o “No Vax”.
Ognuno è autosovrano, sovrano di se stesso, determini allora autonomamente se recarsi in un posto piuttosto che in un altro. Perché lo stato dovrebbe limitarlo nelle sue decisioni? La persona dovrebbe essere l’unica responsabile di se stessa e delle proprie azioni, e così finirebbero le polemiche sul cosiddetto lasciapassare.
Per quanto riguarda gli uffici pubblici, lì la questione si fa ancora più complicata, perché si è vero che la libertà dell’individuo va tutelata ma anche la salute di tutti gli altri. Come? procedendo per tentativi, nessuno ha la soluzione in tasca, adottando iniziative sempre più calibrate. Allora andiamo passo passo a vedere quali misure siano state, numeri alla mano, più efficaci per contenere contagi e decessi ed applichiamole con fermezza, cautela e massimo rispetto per le libertà individuali, e di volta in volta modifichiamole con raziocinio senza estremismi incapacitanti. Forse troveremo un modo meno invasivo e più efficace per le nostre vite di ridurre rischi. E se poi gli scienziati non sapessero darci una spiegazione del calo dei contagi avvenuto repentinamente nella patria delle libertà concrete, l’Inghilterra, nell’ultima settimana? Meglio vuol dire che ancora una volta il nostro destino non è deterministicamente determinato e che l’azzardo di vivere esiste ancora, nonostante tutto.

Francesco Ferrara: l’economista, il politico ed il liberista siciliano da riscoprire

Francesco Ferrara
(Palermo 1810 – Venezia 1900)

Autorevole economista e uomo politico di forti convinzioni liberali. Ricoprì diversi incarichi sia accademici che politici, tra cui: professore di Economia politica all’Università di Torino e di Pisa (novembre 1859-agosto 1860); deputato alla Camera dei Comuni (Sicilia) (1848-1849); socio nazionale dell’Accademia dei Lincei di Roma (26 ottobre 1876); prima deputato e poi senatore del Regno d’Italia e ministro delle Finanze nel 1867.
Fu fondatore nel 1874 della Società Adamo Smith insieme a Pareto ed Ubaldino Peruzzi che la presiedette, ad alcuni uomini della destra come Carlo Alfieri, Giovanni Arrivabene, Gino Capponi, Francesco Genala, Bettino Ricasoli, Guglielmo de Cambray Digny ed alcuni della sinistra come Salvatore Majorana Calatabiano, Agostino Magliani; ai banchieri e uomini di finanza come Pietro Bastogi e Carlo De Fenzi; ai professori e grandi notabili come Angelo Marescotti, Pietro Torrigiani, Francesco Protonotari, Francesco Carrara e Sidney Sonnino.
Nel 1848, durante i moti siciliani fu inviato a Torino per proporre al secondogenito di Carlo Alberto di Savoia la nomina a re di Sicilia. Il suo nome è legato ad una nuova definizione del costo di riproduzione, che è considerato il passaggio dalla teoria classica del valore, basata sull’effettivo costo di produzione, a quella soggettivistica fondata sull’utilità marginale tipica della scuola austriaca.
Ferrara, come già aveva fatto Henry Carey (il principale economista della scuola americana del XIX secolo e capo consigliere economico del presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln), che lui stesso aveva fatto conoscere in Italia attraverso la Biblioteca dell’economista, collega il fatto economico a un approccio dichiaratamente individualista, superando la teoria di stampo marxista del valore-lavoro. Il valore, da fatto accertabile mediante il conteggio delle ore di lavoro necessario per la produzione, diventa il risultato di un giudizio dei soggetti sulle alternative al ricorso a quel bene, alternative che passano per i surrogati di esso. La conclusione è che tanto più elevato è il numero dei surrogati, tanto più ci si avvicina alla concorrenza perfetta. Il prezzo di un bene inoltre, secondo il palermitano, non è influenzato, come per esempio nel caso di un’opera d’arte, dal costo di produzione espresso in unità orarie.
Così per lui il processo di formazione del valore di un bene passa per tre momenti: il giudizio di ‘utilità’ da parte di chi ricerca quel bene; il giudizio di ‘costo’ per chi lo produce; il giudizio di ‘merito’ da parte di chi confronta l’utilità con il costo. Ferrara afferma “quando dunque si abbiano de’ mezzi materiali di misurare con l’intensità del bisogno proprio l’utilità d’un oggetto, colla pena del travaglio proprio il suo costo, si avrà il mezzo di misurare il valor di cambio, il quale non si riduce che ad affermare la convenienza reciproca di questi elementi già noti.” Il mercato poi fa il resto trasponendo in termini monetari queste valutazioni. Ecco la vicinanza al marginalismo. Inoltre egli postula la negazione che si possa trovare una classe sociale, la borghesia, che si sia appropriata di un sovrappiù indebitamente.
Ferrara ritiene inoltre inutile aumentare la quantità circolante di moneta quando la fiducia degli operatori economici è debole, anticipando di fatto la cosiddetta trappola della liquidità di Keynes, secondo cui l’offerta di moneta è sterile quando le aspettative degli imprenditori sono negative, poiché l’immissione nel mercato di denaro verrebbe depositata invece di essere utilizzata in investimenti produttivi.
Dal punto di vista strettamente politico, le istituzioni, nella sua visione, sono tanto più forti ed onorate quanto più sono il frutto di una contrapposizione politica trasparente, con partiti che sono portatori di idee alternative. E per questo si schiera contro ogni ipotesi terzopolista, diremmo oggi, tant’è che scrisse “il ludibrio de’ terzi partiti è sempre pronto a mostrarsi colla pretesa di far consistere la verità in una transazione qualunque, e sciogliere il problema insolubile di un giusto mezzo a scoprirsi fra una verità e un errore.”
Nel 1851 citando l’aforisma di Bastiat per cui lo Stato […] è “la gran finzione per mezzo della quale tutti si sforzano di vivere a spese di tutti”, aggiungeva “i protezionisti non sono che una frazione di questo tutti. Essi voglion la legge, ma in tutto ciò che favorisca l’interesse della loro casta. I comunisti e i socialisti […] sono un’altra frazione del medesimo tutti.”
Per l’economista siciliano poi lo Stato quando viene occupato da una fazione in maniera stabile diventa strumento del governo e nel 1858 scriveva “cos’è infatti un governo? […] Nulla è di ciò che certe nebulose filosofie, o le velleità del socialismo o del comunismo, pretenderebbero di darci ad intendere; non è un essere a parte, superiore, staccato, diverso da ciò che noi stessi siamo. È una frazione di noi medesimi […] In fin dei conti ogni governo è una minoranza […].” Ecco il motivo per cui credeva nel fatto che tutti i governi dovessero avere dei limiti fissati dalla legge proprio per evitare derive pericolose per la libertà.
Nel 1884 il nostro autore esprime quale secondo lui è la forma ideale di governo e di stato “l’ufficio del governare una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante industrie, uno de’ tanti mestieri che, prendendoli nel loro insieme, danno l’idea dell’attività sociale. Tutti quanti siamo, […] produciamo permutiamo, consumiamo utilità più o meno incarnate in una materia[…] Da ciò, una classe di produttori, addetti a procurare quella tale utilità, che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo.
Se governare è produrre, le innate leggi della produzione devono inesorabilmente regnare nel mestiere de’ governanti, quanto e come regnano su chi coltiva la terra e ne porta i frutti al mercato. L’utilità sociale che il Governo produca non può, da lui medesimo o da lui solo, estimarsi; chi può misurarla, gradirla o rifiutarla, attribuirle un valore, sarà colui che la compri e la consumi, la nazione. Sì, noi, nazione-governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella meriti quel prezzo che il produttore-governo, per mezzo delle imposte di cui ci aggrava, pretenda di farcela costare […]. Tale è la portata dell’espressione che noi usiamo, libertà economica […].”
“Il cittadino si identifica con il consumatore dei servizi pubblici, valutati secondo la loro utilità (anche se all’economista siciliano manca la nozione di incremento al margine); la società civile coincide con il mercato dei produttori e dei consumatori; il governo stesso nasce da un processo di divisione del lavoro. Luigi Einaudi, riportando questo brano (Einaudi 1953a, 28), osserva che l’essenza del ragionamento non sta tanto nel contrattualismo politico, quanto nell’estensione del calcolo economico all’operatore pubblico. A noi oggi l’articolo di Ferrara appare soprattutto una sorprendente anticipazione delle concezioni neo-liberali della public choice.
In questo modo infatti Ferrara riteneva di aver definitivamente saldato fra loro insieme liberalismo politico e liberismo economico. L’assimilazione dell’economia pubblica a quella privata, entrambe soggette alla medesima legge del valore come costo di riproduzione (calcolato sullo sforzo di ottenere il surrogato più prossimo), consentiva all’economista siciliano – rilevava ancora Einaudi – di definire a contrario i casi in cui fra prelievo e spesa non vi è perfetta corrispondenza, in quanto il primo risulta per i contribuenti più oneroso di quanto non sia vantaggiosa la seconda. Casi, questi ultimi, che un altro grande economista liberale, Antonio de Viti de Marco, avrebbe poi fatto rientrare nel suo schema dello Stato ‘assoluto’ o monopolista, e che lo stesso Einaudi avrebbe identificato nei due profili dell’imposta grandine e dell’imposta taglia.
Einaudi poteva ben concludere che Ferrara aveva fondato, si può dire in un colpo solo, i due indirizzi principali della cosiddetta Tradizione finanziaria italiana, attenta alla patologia oltre che alla fisiologia del rapporto Stato-contribuente. Scriveva infatti nel 1872 l’economista siciliano “Il sistema rappresentativo ha questo grave difetto, che può facilmente convertirsi in uno strumento di illusione (corsivo aggiunto) […]. Un gran numero di esempi ci offre la storia moderna per insegnarci come sia facile abusare della buona fede dei popoli e ci spiega il segreto per cui vi furono dei governi che, tutto calcolato, trovarono il loro conto a soffrire le assemblee deliberanti, come mezzo per liberarsi dalla odiosità del sovraimporre i popoli, e di riservarsi il piacere delle grandi spese […]. Quando l’amministrazione ha reso inevitabile una spesa, le maggioranze si sentono trascinate a consentirla. È così che la rappresentanza del popolo diviene la più difficile e delicata delle funzioni sociali. (Ferrara 1934; riportato in Einaudi 1953a)[1]”
Ferrara fu un fiero oppositore del socialismo e dello storicismo marxista, e un propugnatore di un idea di progresso che si dipana senza un percorso definito e pianificato al di fuori di una via obbligata. Per lui un economista dovrebbe ispirarsi al pensiero di Adam Smith per indagare le condizioni concrete che permettono lo sviluppo di una nazione e per individuare la presenza o meno di quegli elementi dinamici, come li avrebbe poi chiamati Maffeo Pantaleoni, che sono il vero motore di ogni avanzamento economico.
“Indubbiamente Ferrara anticipò quest’ultimo nel ritenere che l’ineguaglianza dei punti di partenza – fra gli Stati come fra gli individui – è di per sé un fattore di progresso. È un fatto positivo per lui che gli uomini non nascano tutti uguali, né per doti naturali né per risorse economiche. Il processo di divisione del lavoro ha il suo motore in questa naturale ineguaglianza. Lo scambio stesso ha origine dalla diversa dotazione di risorse, come insegna la teoria ricardiana dei vantaggi comparati, di cui Ferrara vede giustamente l’applicabilità (Perri 1984). (….) La ineguale distribuzione delle risorse materiali e intellettuali fra gli uomini, così come la diversa attitudine alla procreazione (Ferrara segue Malthus), sono i più potenti motori del progresso umano.”[2]
Scrive Ferrara “nulla quaggiù ci è dato godere se non comperandolo per via di travagli e di dolori […]“.
Si oppose ad ogni forma di posizioni dominanti, anche a quelle bancarie, perché riteneva che “privilegi di corpo, monopoli, coalizioni, limiti alle ore di lavoro […] han provato […] che quando con artifici estrinseci si vuol deviare l’industria dal suo corso naturale, il lavoro non regge alle sproporzionate condizioni che gli s’impongono, cede, si dissipa […] e l’operaio non avrà sospeso lo stato della sua penuria che per toccare i limiti della fame.”
“Coerentemente, afferma Riccardo Faucci, Ferrara evita di indicare verso quale settore indirizzare di preferenza i fattori produttivi per avvicinare l’economia italiana a quella europea più avanzata. Egli non sembra suggerire, come invece aveva fatto Smith (1922, II, cap. 5), di puntare anzitutto sullo sviluppo dell’agricoltura, per poi passare gradatamente alla manifattura, al commercio interno e finalmente a quello estero. Qui, oltre che da Smith, il nostro economista si discosta dall’insegnamento dei principali scrittori italiani di economia del suo tempo, da Lambruschini a Ridolfi a Jacini, non a caso tutti ‘agraristi’.
Coerente con la sua concezione del sistema economico come sistema globale, Ferrara tace sulla questione, allora al centro del dibattito, sulle migliori forme di conduzione dell’impresa agricola. Questa voluta assenza di una qualsiasi strategia di sviluppo gli deriva dal condividere il liberismo assoluto di Bastiat. Non è quindi da sorprendersi se Ferrara, che per amicizie personali e per non breve residenza a Firenze potrebbe essere considerato un toscano ad honorem, non spende una parola a favore della mezzadria.
Per la medesima ragione il suo liberismo è diverso da quello della generazione successiva dei De Viti De Marco, dei Giretti e dei Salvemini, che indicavano nelle industrie di trasformazione dei prodotti agricoli, oltre che nell’agricoltura di qualità (uva, olio, agrumi), la fonte principale dello sviluppo che il Mezzogiorno – e con esso l’Italia intera – avrebbe potuto conseguire. In questo senso, si potrebbe osservare che il maggiore economista meridionale dell’Ottocento non è stato un meridionalista.”
Certamente fu federalista ma mai localista né un rivendicazionista piagnone che tanto vanno di moda oggi.
In buona sostanza un personaggio eclettico ma scomodo, che non le mandava a dire, dalla visione chiara dei problemi economici, critico della superficialità di alcune posizioni del suo tempo che gli facevano apparire come “in economia, le teorie son tronche, le loro applicazioni rischiano di fallire, ed è impossibile di vederne i limiti, l’estensibilità, i pericoli, i tarli, se si trascuri di studiarne la storia.”
Un pensatore attuale, sicuramente da leggere e riscoprire come economista e come politico, da collocare in compagnia di Carl Menger ed Eugen von Böhm-Bawerk nel pantheon della libertà.

________________
[1] Riccardo Faucci, Francesco Ferrara, il primo degli economisti cafoscarini, in Le discipline economiche e aziendali nei 150 anni di storia di Ca’ Foscari a cura di Monica Billio, Stefano Coronella, Chiara Mio e Ugo Sostero, 2018.
[2] idem.

 

Per un disincantato e realistico ecologismo. E se Leopardi avesse capito tutto?

L’ecologia e la sua derivata prima, l’ecologismo di destra e di sinistra, stanno modificando e per lo più hanno già modificato il procedere della nostra vita imponendoci radicali cambiamenti nel modo di consumare e quindi di produrre i beni di cui abbiamo necessità. E questo è “naturale” perchè l’animo umano sente, come una spinta interiore, l’esigenza di rinnovare, trasformare, riorganizzare il sistema sociale ed economico in cui è immerso, come quella che subisce un pendolo generando un un moto armonico perenne.
Non foss’altro per provare l’ebbrezza inebriante ed ubriacante della rivoluzione, anche se poi dovesse rivelarsi un ennesima ed effimera lotta contro se stesso. Ma siamo fatti così ed è una legge della fisica che ogni qual volta in un fenomeno si raggiunge l’equilibrio all’apice, si cominciano a determinare le condizione per la modifica dello stesso e del successivo passaggio ad uno nuovo stadio di equipollenza. L’energia potenziale accumulata fa il resto e la caduta è repentina e nessuno può opporvisi. Ed è quello che sta avvenendo con la “transizione ecologica” da cui siamo travolti.
Nessuno può modificare questo processo, nessuno sembra nemmeno volerlo fare, e chi lo ha pensato né è stato annientato, tutti sono concordi che per salvare la “madre terra” sia urgente passare dai combustibili fossili all’energia “pulita” elettrica, che però in gran parte dipende dagli stessi tanto deprecati idrocarburi fossili. Già perché in qualche modo bisogna produrla e quello più efficace è bruciare i derivati del petrolio, anche se questo non ha rilevanza mediatica, ma “madre natura” va tutelata dall’invadenza di un essere quasi insignificante per lei, l’uomo, che da 18 mesi però è in preda all’angoscia generata da un microscopico virus, il covid19, da cui non sembra potersi liberare a breve.
Ma siamo così sicuri che la salvezza, ammesso che sia così, del creato dipenda da noi? e la Natura, se interrogata cosa risponderebbe sull’argomento?
Bene. Consiglio allora ai più assennati, per gli altri è inutile, di leggere Dialogo della Natura e di un Islandese di Giacomo Leopardi composto a Recanati, tra il 21 e il 30 maggio 1824.
In cui il protagonista, un islandese, dopo un lungo peregrinare incontra una donna di forma smisurata, dal volto bello e terribile che gli domanda chi sia e che cosa stia cercando, e alla quale dice “sono un povero Islandese che vo fuggendo la Natura”, “arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove; Molte bestie salvatiche mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa.” Non sono mancate neppure le malattie, nonostante la sua vita morigerata.
Appena però l’Islandese tace, ella svela la sua identità: “io sono la Natura, quella che tu fuggi” “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.”
“Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.”
La superbia dell’uomo, che osa pensarsi così potente da distruggere il creato stesso, è pari solo alla sua incommensurabile miseria rispetto alla dimensione dei fenomeni naturali.
Credo corretto cercare il modo di non inquinare e di non disturbare troppo la Natura ma senza l’albagia di pensarsi onnipotenti.
Teniamo invece presente che questa transizione ci costerà ed anche parecchio sia in termini economici che sociali, come ogni altra passata rivoluzione industriale. Penso agli esclusi dai nuovi processi produttivi che non sapranno adattarsi e alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento per di materie prime, che inevitabilmente, come fu per gli idrocarburi, produrrà lo sfruttamento senza limiti dei territori in cui si trovano, probabilmente la ricchissima Africa, l’Australia, e l’America latina, in cui abbiamo le più grandi miniere di Litio l’elemento essenziale per la costruzione delle batterie.
Tutto questo con il plauso degli ecologisti di tutto il mondo, anche di quelli che in buona fede, avranno creduto di salvare il mondo dalla distruzione.
Purtroppo non sarà così e a questo bisogna prepararsi. Solo grazie a un ennesimo cambio di equilibrio, dovuto all’instabilità umana, troveremo un’altra armonia dinamica sempre però pronta a mutare rapidamente.
Sperando che un giorno, come scrisse l’amato Leopardi, non accada che “mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno.
Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.”
Il saggio poeta di Recanati aveva già capito tutto.

La fine delle privatizzazioni e il ritorno delle statalizzazioni? Meglio liberalizzare!

Con l’acquisizione definitiva di Autostrade per l’Italia da parte di Cassa depositi e prestiti, possiamo dichiarare la fine delle privatizzazioni delle grandi imprese pubbliche. Termina ingloriosamente il tentativo di far nascere e crescere una imprenditoria non legata alle aziende di stato. Non mi dilungherò nelle varie operazioni e norme che hanno permesso di trasformare le aziende statali in società per azioni, ma alcune considerazioni voglio affrontate. 

Certamente la fase di uscita dal mercato dello stato, e quindi dei partiti e dei loro accoliti, la reputo una buona iniziativa, perché credo che al pubblico vadano assegnate pochi e importanti ruoli, e tra questi non dovrebbe esserci il suo intervento diretto nell’economia. Innanzi tutto perché il suo potere economico e legislativo praticamente senza limiti, fa si che di determini anche e soprattutto il suo monopolio nel settore oggetto di intervento e di conseguenza la impossibilità da parte di altri soggetti privati di competere, e senza una sana concorrenza vengono a mancare i presupposti sia per l’innovazione tecnologica che per la concorrenzialità dei prezzi.

Lo stato dovrebbe fare in modo che nessun soggetto diventi monopolista e a maggior ragione neanche lui dovrebbe di fatto esserlo.

Altro aggravante per la sua presenza e che le nomine degli amministratori di queste imprese sono politiche anzi partitiche, magari anche molto professionali, ma purtroppo fuori dalla logica del mercato che premia chi fa meglio gli interessi del consumatore finale. Questo poi determina che le scelte e gli impegni finanziari che ne susseguono non sono direttamente addebitabili agli stessi amministratori, che nel frattempo potrebbero anche essere sostituiti, ma alla collettività e quindi sostanzialmente la deresponsabilizzazione delle azioni intraprese fa si che le ricadute siano solo sulle spalle del nostro erario. 

Infine l’idea che solo attraverso un’azienda pubblica in Italia si può fare impresa ad un certo livello, come nel settore della difesa, demotiva sia i giovani, che coloro che avrebbero voglia di costruirsi da soli il proprio futuro. 

Con tutte le criticità anche di tipo procedurale, che nel tempo si sono evidenziate, i benefici delle privatizzazioni sono stati evidenti a chi ha voluto vederli. Infatti se andiamo a leggere bene i dati pubblicati nel Libro bianco sulle privatizzazioni dell’aprile 2001, salta agli occhi la riduzione del rapporto debito/pil che nel 1993 era del 115,66% passando nel 2001 al 108,32% e con un rapporto deficit/pil dal 10,03 sempre nel 1993,  al 3,40 nel 2001. 

“Inoltre, il risanamento delle imprese controllate dallo Stato, prodromico alla loro successiva privatizzazione, ha consentito alla finanza pubblica di beneficiare anche dei dividendi da esse distribuiti. In tale periodo si sono generati risparmi correnti e futuri per lo Stato, in termini di interessi passivi evitati, stimabili in circa 18.500 miliardi di lire (su un totale di circa 19.500 miliardi se si considera anche il risparmio interessi derivante dalle prime due aste di riacquisto titoli a valere sul Fondo del 1995). In altre parole, tale ordine di grandezza è l’ammontare nominale complessivo dato dal flusso di interessi cedolari che il Tesoro avrebbe dovuto corrispondere ai sottoscrittori sino alla scadenza naturale dei titoli oggetto di riacquisto. Le privatizzazioni, contribuendo in misura rilevante al percorso di risanamento della finanza pubblica dell’ultimo quinquennio, hanno permesso di aumentare la credibilità dell’Italia sui mercati finanziari internazionali. Questo è dimostrato anche dal progressivo assottigliarsi dello spread del BTP decennale sul rendimento degli analoghi titoli di Stato tedeschi”.

Dai dati del Database AMECO della Commissione Europea si rileva come il rapporto debito/pil continua a scendere fino al 2007 arrivando a 99,70 ed quello debito/pil a 1,50 per poi bruscamente iniziare una risalita senza freno fino al 153,6% alla fine del 2021 il primo e di 9,5 il secondo.

Certo in mezzo ci sono state due crisi devastanti: quella finanziaria del 2008 e quella della pandemia del 2020 ma il dato resta. Ha influito il passo indietro sulla via delle privatizzazioni ed una accelerazione delle nazionalizzazioni attraverso vari salvataggi a spese del contribuente. Prima fra tutte quelle ripetute di Alitalia, a cui siamo talmente abituati che non ci facciamo nemmeno più caso, per passare all’ILVA, ed in ultimo ad Autostrade per l’Italia.

Lo stato salvatore che risana, acquista e riacquista. 

Ma siamo sicuri che questa fosse l’unica via? La più rapida indubbiamente! anche se la più dispendiosa e a lungo termine anche la meno efficace per i motivi prima esposti. E allora che avremmo dovuto fare? Aprire al mercato libero, ai fondi di investimento, anche alle venture capital, in maniera che chi detiene ingenti quantità di capitali avrebbe potuto investirli in queste aziende con la speranza di ottenerne un beneficio di plusvalenza a rischio suo. Ed anche perché, come sostiene Eugene Fama premio Nobel per l’economia  2013, i mercati sono “efficienti”, anche se con diverse gradualità, ed in grado di agire attraverso l’accomodamento dei prezzi, difficilmente prevedibili e battibili anche se con diverse eccezioni. 

Infine la presenza di un investitore privato, che come obiettivo si pone il suo utile da reinvestire successivamente in altro affare, avrebbe sicuramente abbreviato il tempo di permanenza dell’investitore all’interno dell’azienda oggetto dell’intervento di salvataggio proprio per passare, risanata la stessa e ottenuto il profitto, alla prossima avventura. 

Invece quando entra un investitore pubblico, il meno che pensa è quello di uscire al più presto da un consiglio di amministrazione, avendo magari anche le migliori intenzioni, come quelle di preservare “posti di lavoro”, perché per sua natura la politica ha bisogno della gestione del potere che la partecipazione all’economia genera, questo lo dico senza nessuna acrimonia nei confronti dei partiti, a cui riconosco il loro ruolo fondamentale in una democrazia liberale, ma con la stessa determinazione penso che essi non debbano occuparsi delle nomine di aziende o imprese, semplicemente perchè gli obbiettivi degli uni e delle altre sono diversi. I primi lavorano per il consenso elettorale, le seconde per generare profitti per i loro soci. E quasi mai le due cose coincidono e quando vanno in conflitto, per esempio per la chiusura di uno stabilimento non produttivo, la seconda soccombe miseramente avendo il primo il monopolio del potere, con aggravio del pubblico erario.

Il mio ragionamento è suffragato anche dalla recente polemica per le nomine in cda della Rai, il partito che attualmente è all’opposizione, Fratelli d’Italia, si è risentito per la propria esclusione dal giro delle nomine, invece di aprire un serio e qualificato dibattito se è utile e corretto, che i partiti politici detengano la quasi totalità dell’offerta televisiva in chiaro. Nessun accenno a privatizzazioni o pluralità di posizioni, anzi proprio loro solo gli alfieri delle nazionalizzazioni, diverso e più retorico, modo di chiamare le statalizzazioni, purtroppo retaggio inconfessato di ideologie socialisteggianti dipinte con una mano tricolore.

Il rischio dell’impresa pubblica è bassissimo per chi le amministra in nome del partito, ma è elevatissimo per il contribuente che vede investire le proprie tasse in operazioni anche a perdere in nome di principi come “equità”, “italianità”, “solidarietà” senza mai però “responsabilità”. 

Il futuro che vedo? purtroppo, non roseo, storie già viste e vissute che mi inducono a credere che ben presto pagheremo lo scotto della mancanza di un ceto imprenditoriale libero ed indipendente, capace di innovare come in passato per generare quella ricchezza di cui abbiamo goduto ed in parte godiamo ancora, che voglia rischiare di suo nella sfida del libero mercato. 

La mia proposta? lasciamo che quell’ imperscrutabile variabile che è l’estro umano agisca liberamente, in maniera ateleologica, perché sostiene Eugene Fama “… ci sono delle eccezioni, e questo dipende dalla fortuna, ma molto più spesso dall’abilità personale… Sono quasi sempre gli stessi che riescono a battere il mercato…”.

A proposito di classe dirigente e “carta dei valori” dell’eurodestra 2021. L’eterno ritorno all’uguale?

A proposito di classe dirigente e “carta dei valori” dell’eurodestra 2021. L’eterno ritorno all’uguale?

Quando si afferma che a destra non è presente una classe dirigente oltre ai leader si dice una mezza verità perché in effetti c’è una, ed quella che proprio loro hanno accuratamente selezionato. Il tipo umano che essa rappresenta è più o meno quello che vediamo anche in altri partiti: ossequioso con il capo, sempre d’accordo con la “comunità che si organizza”, pienamente convinto dell’opinione ufficiale espressa via social, acritico e forse anche sinceramente certo di essere nel giusto (questa è la cosa che più mi preoccupa), semplicemente perfetta per chi pensa che governare sia comandare dimenticandosi che questo, come ci insegna la storia, è il miglior modo di andare a sbattere il grugno contro la realtà che, essendo complessa ha bisogno di risposte complesse, e prima o poi ti riporta sulla terra facendoci scendere bruscamente dallo shuttle dei sondaggisti, dove qualcuno ti ha messo per convenienza accidentale.
E pure in tutta l’Italia c’è una presenza diffusa di intelligenze plurime, non allineate al pensiero unico, libere, magari anche libertarie, forse anche scapigliate, un po’ dannunziane, anticonformiste e a loro modo patriottiche senza essere coccardiere e certamente difficile da omologare ed ingabbiare, a cui non piace la vita semplice del funzionario di partito a cui è chiesto solo di eseguire gli ordini del capo. Insomma un patrimonio di persone e idee che sono state volutamente messe da parte, con le quali non si vuole ragionare e discutere.
Comprendo il rischio di farlo: comporterebbe il mettere in controversia le proprie certezze ed aprirsi all’analisi dura della realtà mettendo a nudo tutte le proprie debolezze culturali e le incrostazioni incapacitanti del passato, che si “consegnano alla storia” come si ripone un vecchio arnese nell’armadio, senza mai però gettarlo veramente, pronto per essere tirato fuori all’occorrenza o come si fa con un motore usato riverniciandolo, modificandone o togliendone solo qualche parte più malandata, ma sostanzialmente lasciandolo così per come è stato progettato. Nessuna parola chiara e definitiva. Un esempio? le ordinanze degli amministratori locali del cosiddetto centrodestra nella fattispecie della pandemia, sono state in molti casi semplicemente più restrittive di quelle del governo nazionale. E che dire del plauso generalizzato, prima tra tutti Giorgia Meloni, alla teoria Biden sulla Global Tax?
Queste criticità esistono e si vedono tutte, soprattutto in politica economica. Infatti che differenza c’è tra le proposte dirigiste e stataliste del PD e dei M5S, rispetto alle altre di centrodestra? quali sono sul prossimo, temo, incremento dell’inflazione? sul debito pubblico, ridurlo o aumentarlo? sulle assunzioni negli uffici dello stato? sulla massa monetaria circolante? sui mercati finanziari? Quasi nessun distinguo, salvo qualche accenno propagandistico come la flat tax, infatti due dei tre partiti che compongono il cdx attualmente governano assieme ai primi, e quello che è all’opposizione dice che serve ancora più stato in tutto, dalla finanza alla formazione. Immaginano tutti comunque un ordine pianificato dall’alto. Solo che i fratelli “conservatori” lo giudicano auspicabile, quasi un “ottimo paretiano”, perché sperano di realizzarlo loro. Tutto qua.
L’ultima impresa, poi, in campo internazionale, la Carta dei Valori firmata da Salvini, Meloni, Orban e Le Pen ancora oggi denota come si giri intorno al tavolo senza mai cambiare realmente prospettiva. Non siete d’accordo? la pensate come Marco Gervasoni sul Il Giornale, che pure stimo, che sia la naturale rivendicazione di un’identità comune? Allora vi consiglio di leggere “Intervista sull’Eurodestra, Thule, Palermo (1978)”, in cui l’allora segretario del Movimento Sociale Italiano Giorgio Almirante, chiariva i connotati dell’operazione che aveva portato al patto tra il Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale ed altri tre partiti di destra europei, lo spagnolo Fuerza Nueva, i francesi di Parti des Forces Nouvelles e i greci dell’EPEN, in previsione delle prime elezioni del parlamento europeo del 1979, firmato dallo stesso Almirante, da Blas Piñar e da Jean-Louis Tixier-Vignancour, che poi si sciolse nel 1984 portando i missini insieme ai greci dell’EPEN a far nascere il Gruppo delle Destre Europee con il partito di Jean-Marie Le Pen il papà proprio di Marine. Niente di nuovo sotto il sole: identità europea, terza via tra socialismo e capitalismo etc, etc…
Ma si può veramente pensare a costruire il futuro con la testa rivolta a proposte e prospettive che forse andavano bene 43 anni fa? Basta leggere l’intervista ad Almirante per capire di cosa stiamo parlando. Eppure anche se sono un critico del segretario missino, gli riconosco i tentativi, anche se poi non portati fino in fondo, di allargare il campo per esempio nella cultura con il coinvolgimento del filosofo ex marxista Armando Plebe, o la nascita della destra nazionale con i monarchici o l’avvicinamento a Craxi, ma la tragica vicenda di Democrazia Nazionale, con la relativa inevitabile scissione, testimonia però come quella mentalità da caserma abbia poi disperso energie ed esperienze che sarebbero state essenziali per uscire dalle secche di un opposizione permanente al sistema democratico da cui si era però emarginati.
Solo con Alleanza Nazionale si pensò veramente di fare i conti con il passato, ed il viaggio di Gianfranco Fini in Israele e le sue parole definitive sul razzismo, avevano aperto le porte ad un diverso orizzonte. Peccato che i pretoriani della “purezza” con l’ausilio di interessati “amici” le abbiano chiuse rapidamente per evitare che fuggissero i cavalli e siamo, caro Gervasoni, tornati all’Eurodestra di 43 anni fa, con le solite frasi fatte sull’identità cristiana e classica, che si rivendicano ma non si perseguono fino in fondo, e con un atteggiamento anti capitalistico in cerca di una terza, improbabile ed inapplicabile, via al socialismo, sinonimo di interventismo di stato che invece si invoca con ardore.
Ricordo infine a me stesso, a proposito di classicità e tradizione, che il primo imperatore romano cristiano fu il siriano Marco Giulio Filippo Augusto meglio noto come Filippo l’Arabo nel 244 d.C. Mi chiedo: la nuova “eurodestra” del 2021 è pronta ad acclamarne uno così come presidente della commissione europea o invece siamo sempre all’eterno ritorno all’uguale?

Il moto armonico smorzato sovranista

Oscillare come un pendolo o una molla intorno all’asse del potere, tra un massimo di populismo ed un minimo di responsabilità, per poi a lungo termine, esaurita la spinta iniziale e per effetto delle forze dissipative del sistema, ricadere sull’equilibrio dell’autorità mi pare che sia il destino infausto del sovranismo. Nessuna vera alternativa a quella statalista, assistenzialista e dirigista della sinistra, l’unica differenza sono le facce che lo rappresentano, ma il rumore di fondo è lo stesso. Un vicolo cieco in cui tutto il centrodestra rischia di ficcarsi. A parte qualche vaga difesa di alcuni principi, come famiglia e patria, non vedo grandi prospettive per un’area che è, almeno nei sondaggi, maggioritaria in Italia, ma che rimane impastoiata in discussioni da bar ed intrappolata nei miti, anche quelli funesti, del passato. Viene stravolto anche quello del Risorgimento, che fu liberale e unitarista, senza mai pensarsi conservatore, anche perché questo avrebbe significato il permanere dell’assetto del congresso di Vienna con un territorio italiano diviso in stati con sovrani e tradizioni diverse e spesso avverse. 

Il Risorgimento fu sforzo unificante, tentativo di oltrepassare le diversità per creare un’omogeneità, almeno istituzionale, in nome di un’unità che dai tempi di Dante si invocava per l’Italia. Oggi non credo che Cavour si sarebbe mai iscritto a gruppi parlamentari che di questo processo non né hanno nemmeno capito lo spirito parlamentarista, e che di contro anzi hanno sostenuto in blocco il ridimensionamento del numero dei parlamentari per saziare la bramosia della plebe urlante alle porte di Roma. Figuratevi se uno come lui che scriveva che con un Parlamento si possono fare molte cose che sarebbero impossibili al potere assoluto. Una esperienza di tredici anni mi ha convinto che un ministero onesto ed energico […] ha tutto da guadagnare dalle lotte parlamentari. Non mi sono mai sentito così debole come quando le Camere erano chiuse. D’altronde io non potrei tradire la mia origine, rinnegare i princìpi di tutta la mia vita. Io sono figlio della libertà, è ad essa che devo tutto ciò che io sono. Se fosse necessario mettere un velo sulla sua statua, non sarei io a farlo. Se si giungesse a persuadere gli Italiani che essi hanno bisogno di un dittatore, essi sceglierebbero Garibaldi e non me. Ed essi avrebbero ragione. La via parlamentare è più lunga, ma è più sicura, si sarebbe mai accodato a certe impostazioni, o avrebbe mai accettato i cosiddetti “pieni poteri” invocati ora da questo ora da quello secondo il momento. 

Recentemente Marcello Veneziani, che apprezzo come intellettuale libero e anticonformista, ha rilevato che in alcuni di questi partiti c’è un deficit di classe dirigente e che sarebbe l’ora di oltrepassare il sovranismo, il vecchio adagio dell’andare oltre che rispunta. In verità per questa volta non la penso come lui, perché il problema non è nella classe dirigente che in qualche caso c’è pure, ma nel tipo di mentalità e di idee che essa evoca ed il fatto che comunque, a prescindere dall’età, non ha voluto fare i conti pienamente con il passato, come fece invece coraggiosamente Gianfranco Fini. Fin quando non sarà fatto questo sforzo per chiarire definitivamente se si preferisce il governo dei “forti” a quello della legge, quello un pò coccardiero e non quello della responsabilità, il rischio è elevato e l’elettorato avrà ben donde a scegliere altro, come in Francia dove la Le Pen continua a mietere consensi e a perdere ripetutamente nei momenti topici. Il vero coraggio sarebbe dire chiaramente come fece Margaret Thatcher, se si vuole costruire una società libera o no, fondata sul diritto naturale, uno stato essenziale e un governo limitato dalla legge. Lo capisco un rischio enorme per chi oggi guarda solo ai sondaggi quello del confronto su questi temi, ma è un passo necessario per aprire all’Italia un futuro di prosperità. Anche perché per me, non è per niente una bella prospettiva rinunciare ad un’Unione Europea, forsanche troppo burocratica ed oligarchica, ma al contempo fautrice di un lungo periodo di pace e di controllo della spesa pubblica cosa molto rilevante, per poi ritrovarci uno stato ancora più dirigista, invasivo, iperprotezionista, interventista economicamente e propenso all’assistenzialismo, sostituendo al burocratismo continentale quello nostrano. Il fatto che eventualmente ci sarebbero a gestirlo brave persone, animate da buoni propositi e anche simpatiche, non mi rassicura per niente. 

Speriamo che più che ad andare oltre, ci si fermi a pensare che strada imboccare prima che sia troppo tardi.

Sicurezza e dignità anche per i detenuti

Dopo avere visto il video sconvolgente pubblicato dal giornale Domani, sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020 vi consegno una mia riflessione che trova spazio in “L’Alleanza Etica” il volume di cui sono autore che è stato pubblicato nel 2010.

“Tutto deve concorrere alla elevazione della condizione degli uomini, anche di coloro i quali per gli errori commessi in libertà si trovano nelle carceri che come dice Lino Buscemi dirigente dell’ufficio del garante regionale per la Sicilia dei diritti fondamentali dei detenuti e presidente della ANDCI (Associazione Nazionale difensori civici italiani) sono diventate “discariche umane dove avviene di tutto”. Non è accettabile che la vita all’interno di questi istituti sia un inferno in terra poiché oltre all’aspetto della pena e della neutralizzazione della pericolosità del soggetto lo Stato deve impegnarsi soprattutto per il recupero e per la rieducazione dei detenuti, che nonostante il loro passato debbono essere considerati redimibili, come ci insegna Gesù il quale nell’ora della sua passione in croce decide di portare con sé nel regno dei cieli il ladrone che chiedeva il suo aiuto, lasciando invece l’altro lì dove stava poiché rifiutava la sua misericordia, lui sì veramente irredimibile. La dignità della persona non può e non deve essere mortificata in nessuna maniera.”

Questo per testimoniare come 11 anni fa come adesso, per molti di noi stato di diritto, governo limitato e dignità dell’individuo, sono auspicio, garanzia e fondamento per una società libera e aperta. In ogni struttura pubblica poi dovrebbe essere la legge a regnare e non l’arbitrio di qualche funzionario.
Allo stesso modo condivido le parole del ministro della giustizia Prof.ssa Marta Cartabia che ha dichiarato che quanto accaduto è “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della polizia penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere.”

“La Politeia Elachista (lo stato essenziale e del governo limitato) è custode della sicurezza privata e pubblica e al contempo garante dei diritti naturali di cui è portatrice la persona.”

Difendiamo il libero pensiero e la democrazia dal rischio della pianificazione dell’economia!

L’ennesimo articolo uscito sul Fatto Quotidiano sulla nomina di alcuni componenti del Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica presso il Dipartimento di Programmazione Economica del Governo Draghi, per la precisione Carlo Cambini, Francesco Filippucci, Marco Percoco, Riccardo Puglisi e Carlo Stagnaro, nel quale si sottolinea la loro impostazione culturale antistatalista e liberista e la contestuale lettera al presidente Draghi sullo stesso argomento firmata da alcuni tra economisti, docenti universitari, ricercatori ed altri, testimonia come una certa cultura non riesce proprio ad immaginare che forse in un momento in cui abbiamo le risorse sarebbe meglio ascoltare proprio chi ha sempre teorizzato il risparmio di denaro pubblico e il razionamento della spesa statale a favore di investimenti effettivamente produttivi.
Il tono poi è particolarmente aspro, per essere benevoli, quando si fa riferimento all’Istituto Bruno Leoni, insinuando persino il sostegno di finanziatori” privati dell’istituzione (cosa poi ci sia di male lo sanno solo loro), senza però entrare mai nel merito delle prospettive e delle idee proposte dal think tank liberale. Vengono tirati dentro gli autori della scuola austriaca di economia come von Hayek e della scuola di Chicago come Friedman senza però mai parlare compiutamente né delle loro idee né di qualche libro degli stessi autori né dei loro premi Nobel.
Certo sarebbe meglio pensare come arrestare la crescita del debito pubblico, quello italiano è arrivato a 2700 miliardi di euro, piuttosto che aumentarlo, ma la logica purtroppo che ci sta dietro è quella di fare intervenire sempre lo stato a ripianare tutto, per poi colpire con la tassazione la proprieta privata quando il livello di indebitamento diventa insostenibile.
Rilevo che i firmatari sono quasi tutti docenti delle università statali, sarà un caso ed è un fatto. Sarebbe invece utile aprire un serio dibattito sul modello di istruzione e ricerca che abbiamo in Italia e capire se forse non sarebbe anche il caso di ripensare anche quello su basi alternative ispirate alla libertà d’insegnamento concreta, in cui è il docente a scegliere l’istituzione dove insegnare e la stessa a valutarne il rendimento.
In ogni caso ben vengano gli Istituti, come quello intestato al grande economista Bruno Leoni, e tutte le altre fondazioni, che credono nella libertà personale e d’impresa che si autosostengono con donazioni private e così facendo non gravano, come tante altre di opposta ispirazione, sul pubblico erario costituito dalle tasse e dai tributi versati dai cittadini.
Infine ricordo ai succitati, che saranno di sicura fede democratica, che quando interviene lo stato in economia si determinano tre conseguenze: si dilata il suo potere, amministrato dai partiti e gestito dalla burocrazia; si stabilisce il suo monopolio vista la sua assoluta posizione dominante; si indebolisce velocemente l’intera democrazia liberale, grazie anche alla deresponsabilizzazione delle persone.

Un pericolo ben più grave rispetto a tutti gli altri ed una lezione che abbiamo imparato dagli insuccessi dell’economia pianificata come quella dei regimi del  socialismo reale come l’URSS.


AS

Complimenti al presidente Mario Draghi per avere scelto due liberisti come Carlo Stagnaro e Serena Sileoni

Esprimo al presidente Mario Draghi i miei complimenti per avere nominato l’ingegnere Carlo Stagnaro, direttore della ricerca e tra i fondatori dell’Istituto Bruno Leoni e la dott.ssa Serena Sileoni Fellow onoraria dello stesso IBL come suoi consulenti per le politiche legate al Recovery plan.

Ringrazio inoltre il Fatto Quotidiano, per avere segnalato la notizia definendoli dei liberisti sostenitori delle teorie di Friedrich von Hayek (Premio Nobel 1974 per l’economia), Milton Friedman (Premio Nobel 1976 per l’economia),  Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Io tra questi avrei aggiunto anche Ludwig von Mises e James McGill Buchanan Jr. (Premio Nobel 1976 per l’economia) così il quadro era più completo.

Sottolineo infine che l’alternativa all’economia di libero mercato e quella pianificata tipica degli ex paesi del “socialismo reale” come l’URSS o l’attuale Cina. Ovviamente io preferisco la prima.

Lineamenti per una “Politeia Elachista”: lo stato essenziale e del governo limitato

Uno stato, senza i necessari limiti dettati dalle legge, dilatata il proprio potere, senza quasi opposizione, attraverso la sua burocrazia che la politica ha tutto l’interesse ad aumentare, e così facendo parallelamente alla crescita dell’ambito di competenza di essa lievita anche la spesa pubblica, quella italiana ormai senza freno sfiora i 2700 miliardi di euro, non tagliando i rami secchi che generano solo stipendi per i dipendenti e nessun o quasi beneficio per i contribuenti che ne pagano il costo con le tasse.

Il premio Nobel, padre della Teoria della scelta pubblica, James M. Buchanan sosteneva che “basandosi sulla riluttanza del pubblico ad agire in linea di principio a sostegno di soluzioni di mercato a problemi apparenti, reali o immaginari, questi gruppi di interesse assicurano restrizioni arbitrarie agli scambi volontari e, nel processo, assicurano rendite per i loro membri riducendo riducendo sia le libertà che il benessere economico degli altri membri del nesso economico, sia a livello nazionale che internazionale”.

Questa affermazione pone interrogativi ancora aperti, su quale tipo di società ci troviamo di fronte e quali correttivi è possibile operare, e in che settori prioritariamente, per rendere più facile la vita al povero uomo del nostro tempo che si vede invaso nella sua vita privata, quanto in quella pubblica, dal funzionario a cui la politica ha delegato il compito di misurare anche i metri quadrati del suo piccolo garage.

La strada verso la libertà passa dalla rimodellazione della “Politeia”, lo stato, nel senso di una restrizione dei suoi poteri: specialmente per quello che riguarda la possibilità di esercitare il monopolio della forza nei confronti dei suoi cittadini attraverso un approccio completamente diverso ed alternativo ad esso basato, su tre tre presupposti, come sosteneva James M. Buchanan, “individualismo metodologico, scelta razionale e politica come scambio”. Più semplicemente ogni azione è riconducibile ad un’azione individuale, come scrive Ludwig von Mises “solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce” e le sue scelte sono razionali nel senso di una massimizzazione del proprio interesse, che ovviamente non necessariamente è l’arricchimento personale, perché i fini sono molteplici e personali. La politica poi è la capacità di cooperazione e co adattazione tra soggetti diversi per raggiungere obiettivi che il singolo si pone ma che diventano comuni quando sono convergenti e ritenuti utili, cosicché i fenomeni macrosociali diventano il risultato non intenzionale di azioni individuali intenzionali.

La società o la comunità non può avere un punto di vista autonomo rispetto a quello dei singoli altrimenti diverrebbe il suo quello privilegiato e pericoloso per la libertà della persona che si vedrebbe schiacciata rispetto alla visione generale del mondo.

Ritengo che la “Politeia” sia l’organizzazione istituzionale della società/comunità storicamente affermata che esercita la propria sovranità su un territorio e un popolo che lo occupa, attraverso un ordinamento giuridico. Nel tempo l’interrogativo su quale tipo di stato garantisce meglio le libertà concrete è sempre vivo e pressante.

La mia personale risposta, anche grazie agli studi di diversi autori come quelli della scuola austriaca di economia Carl Menger, Eugen von Böhm-Bawerk, Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises e della cosiddetta Scuola di Chicago Milton Friedman e James Eugene F. Fama, M. Buchanan senza però dimenticare Robert Nozick, unitamente agli italiani del Risorgimento come il Beato Antonio Rosmini Serbati, Marco Minghetti, Camillo Benso di Cavour, Padre Gioacchino Ventura, Raffaello Lambruschini, Alessandro Manzoni, Luigi Tapparelli d’Azeglio e il “principe degli economisti italiani del Risorgimento” (così lo definiva Vilfredo Pareto) il siciliano Francesco Ferrara, passando poi per lo stesso Pareto, don Luigi Sturzo, Maffeo Pantaleoni, Gaetano Mosca fino ad arrivare ai giorni nostri con Dario Antiseri, Lorenzo Infantino, Raimondo Cubeddu, Franco De Benedetti, Carlo Lottieri, Davide Giacalone, Antonio Martino, Giancristiano Desiderio, Alessandro De Nicola, Corrado Sforza Fogliani per citarne solo alcuni, è quella per cui le caratteristiche fondamentali di un’organizzazione statuale efficiente e non oppressiva debbano essere: una legislazione snella, chiara e coerente ed avere un corpo proporzionato e reattivo per salvaguardare diritti e libertà.

Questo modello è la “Politeia Elachista o Elaxista” (in greco ελάχιστo significa minimo) uno stato essenziale e del governo limitato.

AS

Global tax e il governo mondiale dell’economia

L’accordo raggiunto dai paesi al G7 del 5 giugno 2021 per una tassazione globale del 15% alle cosiddette multinazionali è stato salutato da quasi tutti gli osservatori come un grande risultato contro l’elusione fiscale, cosa peraltro asserita in pompa magna dal ministro delle Finanze del Regno Unito, Rishi Sunak, nel comunicato ufficiale così “dopo anni di discussioni sono lieto di annunciare che il G7 ha raggiunto un accordo storico per la riforma della tassazione globale” in cui spiega che l’intesa prevede un’aliquota minima di “almeno il 15%” in ogni Paese, con riferimento alle mega imprese con margini superiori al 10%. Secondo il ministro britannico, il 20% dei profitti superiori a questo 10% di margini sarà riallocato nei Paesi dove vengono realizzate le vendite. “Dopo anni di discussioni, i ministri delle Finanze del G7 hanno raggiunto un accordo storico per riformare il sistema fiscale globale per adattarlo all’era digitale globale”, “ci impegniamo – si legge nel comunicato finale – a raggiungere una soluzione equa sull’assegnazione dei diritti di imposizione”. 

Risuonano in tutti gli enfatici comunicati ufficiali le parole “equità”, “giustizia sociale”, “tassazione solidale” etc.. insomma tutto l’armamentario classico “pauperista e/o assistenzialista” di stampo marxista a cui plaudono giustamente anche i “conservatori”, in cui la soluzione ai mali del mondo e “all’ingiustizia” sociale è da un lato la colpevolizzazione della libera impresa, che si permette di avere successo, fare utili, creare ricchezza, fornire servizi impensabili solo 100 anni fa e di dare occupazione e benessere a milioni di esseri umani nel mondo, e dall’altro il ridimensionamento della proprietà privata attraverso una tassazione mondiale. 

Un coro unanime ha salutato con favore l’iniziativa del G7: da Joe Biden, a Boris Johnson, da Mario Draghi a Ursula von der Leyen, passando per il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire che ha dichiarato “questo è un punto di partenza e nei prossimi mesi lotteremo per garantire che questa aliquota minima dell’imposta sulle società sia la più alta possibile”, anche i grandi colossi come Amazon, Google e Facebook si sono detti favorevoli all’accordo, tranne la piccola Irlanda che ovviamente ha un regime fiscale del 12,5% e teme una ripercussione negativa sulla propria economia ben foraggiata dalle big tech. Nemmeno gli autodefiniti “liberali” al governo e all’opposizione hanno fiatato.

Ma siamo sicuri che vada tutto bene? Che questo sia finalmente il paradiso o quanto meno la panacea dei nostri attuali mali?

Non lo so, o meglio non lo credo. Un mondo in cui la tassazione della libera impresa e della proprietà privata, sono sempre l’oggetto delle proposte di rilancio dell’economia in crisi, è purtroppo l’anticamera di un aggravamento della crisi stessa, perché con questo modo di operare si tolgono capitali ulteriormente reinvestibili, dalle big tech ma penso anche all’industria dell’auto (forse la prossima della lista), nella stessa attività per destinarli magari ad un reddito minimo mondializzato per tutti, un luogo in cui la produttività e la creatività non saranno il motore della crescita. Siamo alle solite politiche del tipo “anche i ricchi piangano”. In tutto questo, chiedo ai vari “complottisti” attivissimi sul web, che ruolo hanno avuto i grandi capitalisti cioè quelli “dell’utile a tutti i costi” in questa storia? Stanno semplicemente subendo una decisione che per portanza e potenza forse ridefinirà in maniera radicale i rapporti tra gli stati e le economie nazionali, smentendo la vulgata che i capitali dominano il mondo e non la politica. Sempre più il ”grande legislatore”, come lo definisce Lorenzo Infantino, impone la sua visione dell’uomo in nome dell’equità e della giustizia sociale, livellando verso il basso la “società”, limitando le possibilità di manovra alle imprese e ai singoli individui. Io continuo per parte mia a credere nel valore della Libertà, garantita principalmente dalla proprietà privata sia materiale che intellettuale, declinata in tutte le sue accezioni, da quella economica a quella religiosa, di ricerca e insegnamento, unico metodo per lo sviluppo e per l’avanzamento. La tassazione globale non è la soluzione anzi potrebbe essere una delle cause di una crisi ben più profonda da cui sarebbe difficile uscire. E se sommiamo la global tax alle tasse nazionali che continuano a permanere, siamo ben oltre il punto massimo della curva di Laffer, che permette di visualizzare la correlazione tra pressione fiscale e gettito fiscale.

Infatti lo studioso statunitense dimostrò come l’aumento della tassazione oltre un certo limite causa una diminuzione delle entrate fiscali perché esiste un livello di tassazione ottimale che garantisce di massimizzare le entrate derivate dalla riscossione dei tributi, e come il gettito proveniente dalla tassazione diventa nullo in due casi: se non è presente tassazione e se si raggiunge il 100%. Teoria che in parte applicata durante la presidenza Reagan permise un grande livello di sviluppo economico mai più verificatosi.

Invito inoltre chi a destra gioisce di questo accordo di andarsi a studiare sia Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Adam Smith, sia qualche bella pagina di Filosofia del diritto del beato Antonio Rosmini Serbati, sia qualche discorso parlamentare di Camillo Benso Conte di Cavour, sia qualche articolo di don Luigi Sturzo, sia L’ordine senza piano: le ragioni dell’individualismo metodologico di Lorenzo Infantino che Perché non sono un conservatore di Friedrich A. von Hayek”, così tanto per sapere di cosa stiamo parlando e scrivendo, agli altri invece non consiglio nulla visto che hanno capito “tutto” a loro modo, grazie all’idea della repubblica mondiale di Immanuel Kant e a Il Capitale di Marx di cui sono fieri e alcuni per certi versi inconsapevoli vessilliferi. 

Aspettiamo infine cosa farà l’altra metà del mondo che ancora non si è espresso e magari, speriamo, scopriremo che l’Africa o chi sa chi ci salverà.

Antonino Sala

Libera concorrenza e ricerca scientifica

La sospensione da parte della Corte dei Conti dei finanziamenti per la ricerca di un vaccino “italiano” progettato e realizzato da una società privata, Reithera, che opera nel campo della biomedicina, apre diversi interrogativi sul futuro della nostra industria farmaceutica in particolare ma anche degli altri settori produttivi. Non conosco, anche perchè non sono state ancora pubblicate, le motivazioni che hanno portato i magistrati contabili a bloccare il finanziamento già deliberato di 81 milioni di fondi pubblici a favore dell’impresa privata, e credo che sia stata certamente una decisione comunque difficile vista l’attuale situazione emergenziale determinata dal Covid 19 e quindi non entro minimamente nel merito della sentenza, ma invece è opportuno fare qualche considerazione sul fatto che si versino soldi pubblici nelle casse di aziende private. Ritengo infatti che questa modalità, seppur giustificabile dall’emergenza sanitaria, sia in linea di principio discutibile per due motivi essenziali: il primo perché il pubblico interviene nel mercato privato creando potenzialmente una posizione dominante di un soggetto su tutti gli altri e la seconda perché si vincola anche la stessa impresa destinataria ad una ricerca specifica andando così a limitare la libertà della stessa, sia di ricerca che di investimento, e alla fine si ritrova obbligata da un contratto di servizio a dover concedere il risultato delle proprie ricerche non al miglior “prezzo” senza massimizzare gli utili che potrebbero essere reinvestiti per migliorare il prodotto finale, ma a quello predeterminato da un accordo di massima.
Questo produce l’effetto opposto a quello che si voleva ottenere: deprime l’iniziativa privata, colpendo la libera concorrenza tra soggetti che avrebbero più benefici dalla competitività che da un monopolio. Abbiamo già avuto modo di sperimentare queste pratiche, ricordo solo per esempio cosa è avvenuto negli anni passati con l’industria dell’auto, se avevamo in Italia una serie di marchi autorevoli ed indipendenti come Alfa Romeo, Maserati, Ferrari, Fiat, Lancia, Autobianchi, De Tommaso, ed altri, ci siamo poi ritrovati, proprio per le politiche assistenziali ed unidirezionali volute dai governi italiani nell’arco di pochi decenni, un solo gruppo industriale che via via ha assorbito tutti gli altri, con il risultato di arrivare quasi a vendere tutto per la perdita costante di quote di mercato per lo scarso gradimento dei consumatori se Sergio Marchionne non avesse aperto la Fiat alle fusioni e al mercato internazionale, investendo in innovazione e qualità dei prodotti, tagliando i rami improduttivi e gettando le premesse perché oggi si è potuto occupare un posto di tutto rispetto nel monto dell’automotive con la nuova società Stellantis nata dall’unione di PSA e Fiat Chrysler Automobiles.
Tutto questo testimonia che al genio umano non possono né debbono porsi freni, diretti o indiretti, ma anzi andrebbe stimolato con la sana competizione che solo la concorrenza leale può garantire unitamente al soddisfacimento dei bisogni degli individui, con tutti i rischi del caso.
La stessa filosofia andrebbe applicata alla ricerca scientifica: libera concorrenza alla conquista del utile necessario e tutela della proprietà privata dei brevetti. Solo così si può garantire la libertà dell’iniziativa privata, la sostenibilità economica di un’impresa ed il progresso e non con il dirigismo statalista fatto di burocrazia e partitocrazia.
L’effetto sarebbe anche di un risparmio per il nostro già ultra indebitato erario, di conseguenza quello di un abbassamento della tassazione, di una progressiva riduzione di una serie di apparati inefficacemente dispendiosi e di un miglioramento della vita delle persone.

Super League e Libertà: arriva la burrasca.

Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni nel mondo del calcio europeo, la creazione di una lega alternativa gestita direttamente dai grandi club europei, appunto la Super League, è un fenomeno molto interessante sia dal punto di vista economico, vista la mole di finanziamenti che smuovono le società coinvolte, sia da quello prettamente politico sociale per le evidenti conseguenze che ne deriveranno, la separazione delle sorti di Juventus, Milan ed Inter dalle altre squadre del campionato italiano; ovviamente la stessa situazione si riverbera nella Premier League inglese e nella Liga spagnola con le loro maggiori squadre aderenti alla super league.
Allora proviamo a porre alcune questioni: siamo sicuri che i soggetti interessati di questa scissione siano in torto assoluto? siamo certi che per giocare al calcio ci sia bisogno di una struttura burocratica terza che regola ma non contribuisce economicamente? siamo tranquilli che l’eventuale prodotto sportivo sia peggiore dell’attuale? ed ammesso che lo sia, che gli appassionati non lo premierebbero? chi decide poi che questa formula sia una formula mai sperimentata e troppo spregiudicata? è pacifico che gli imprenditori del settore non abbiano il diritto di ricercare il proprio utile e quindi di aggregarsi liberamente? tutto questo è un nuovo inizio post covid?
Ho letto l’intervista di Andrea Agnelli in un articolo ospitato da Linkiesta nella quale afferma “FIFA e confederazioni, la più importante delle quali è quella europea, la UEFA, sono regolatori, organizzatori, broker e distributori del prodotto principale, sia esso il Campionato del Mondo o la Champions League. Lo schema degli ultimi decenni ha alimentato un’asimmetria che il Covid ha messo drasticamente in discussione: i calciatori sono protagonisti, ma non hanno quasi nessun potere decisionale rispetto a impegni e calendari. Gli imprenditori o gli investitori si assumono il rischio, ma non possono determinare formati e regole d’accesso e incassano proventi tramite l’intermediazione di autorità terze. Gli organizzatori/regolatori non sono né protagonisti né imprenditori, ma gestiscono, incassano e determinano. Quando la crescita è costante, i problemi si nascondono, quando la disruption arriva, il cambiamento è inesorabile.”
Come dargli torto? Gli imprenditori spendono milioni di euro per investire nei loro club ma non hanno voce in capitolo sull’organizzazione dei campionati e devono costantemente subire le decisioni di una burocrazia che regola e come dice lui “incassa”.
Penso che la libertà d’impresa, come la legittima proprietà, vada tutelata sempre perchè un diritto naturale della persona, anche nel calcio, che infatti è fatto da società private e pertanto credo che abbiano tutto il diritto di indirizzare i propri interessi nella direzione che meglio credono, senza interferenze alcuna da parte della burocrazia o peggio della politica. Tra l’altro in un momento come quello che viviamo pensare che i capi di governo, così come parlamentari e segretari di partito abbiano il tempo e la voglia di mettere il naso negli affari tra privati, ancorché rilevanti come quelli del calcio, invece di dedicarsi anima e corpo per farci uscire da questa situazione pandemica, mi sembra quanto meno stucchevole per essere teneri.
Ma andiamo al sodo: la riuscita di questa eventuale operazione sta nella qualità che riuscirà ad esprimere sul piano dello spettacolo calcistico e dal contestuale gradimento del pubblico, che è libero di finanziarlo come meglio crede: andando allo stadio, abbonandosi alla squadra o comprando azioni o vogliamo aprioristicamente, magari per decreto legge, sancirne l’insuccesso? Oppure vogliamo che qualcuno decida anche i gusti calcistici di quelli che la domenica si dilettano con una birra in mano, una grappa, un caffè e un sigaro, a vedere una partita di pallone? Perchè questo sarebbe l’orizzonte che si profilerebbe se accettassimo come principio l’interferenza del pubblico nel privato.
Quello che sta succedendo oggi è già accaduto nel calcio italiano tant’è che nel luglio 1921 nacque, quasi per le stesse ragioni, la Confederazione Calcistica Italiana (C.C.I.) che organizzò un campionato parallelo tra le allora maggiori squadre a quello della Federazione Italiana Giuoco Calcio, per poi arrivare ad una riappacificazione nel 1922 sulla base delle proposte delle CCI. Quindi niente di nuovo sotto il sole. E poi chi vieta al tifoso del Palermo o della Roma di seguirne le partite nella propria categoria? Nessuno.
In una società libera gli investitori, i creatori di ricchezza, le company, così come le singole persone hanno il diritto di associarsi per perseguire ognuno i propri fini ed il proprio utile e facendolo faranno il bene anche di altri che non partecipano direttamente alle loro scelte o imprese. La società è frutto di azioni e relazioni intenzionali che producono effetti inintenzionali, limitare tali scelte significa mortificare la creatività dell’uomo ed impedirle di operare in nome di un utopistico bene superiore deciso da qualcun’altro, con un unico risultato come affermava Antonio Rosmini «lo spedente comune ai nostri utopisti si è quello di spegnere la libertà personale, condizione e fonte della libertà civile e politica, siccome di ogni altra libertà. […] Promettesi pubblica felicità; ma questa poscia si ripone nella massima schiavitù».
Fortunatamente però la realtà è più dura dell’utopia, e come rileva Andrea Agnelli quando le mucche sono grasse i problemi vengono sottaciuti, quando invece, anche a causa della crisi sanitaria che stiamo vivendo, la situazione si fa critica ecco che le contraddizioni del sistema fanno saltare tutto.
Ritengo che la questione della Super League sia solo il paradigma di una burrasca che potrebbe avvenire in larghi ed ampi settori dell’economia e della società: la secessione da un sistema burocratico che si auto legittima con la pretesa di regolamentare e che si espande quotidianamente invadendo la vita privata delle persone con atteggiamento paternalistico come se ognuno non sapesse cosa è meglio per se.
Liberiamo allora la creatività e la fantasia di chi vuole mettersi in gioco e lasciamo che le persone scelgano su cosa investire denaro e tempo ed il resto verrà da solo, anche se dovesse essere la Juventus in Super League o come nel caso della mia squadra del cuore, il Palermo, in serie C.

Il mio vaccino contro covid e ignoranza. Per una scienza tra tentativi razionali, errori significativi, “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”.

Il mio vaccino contro covid e ignoranza. Per una scienza tra tentativi razionali, errori significativi, “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”.
Cari amici, anche io ho deciso liberamente di vaccinarmi contro il Covid19 utilizzando il siero che mi è stato messo a disposizione dalle autorità statali: Oxford Astrazeneca.
Ho deciso di farlo perché da uomo di studi sia classici che scientifici, sono arrivato, certamente non da ora, alla convinzione che l’umanità proceda nel suo percorso di crescita ed avanzamento per tentativi razionali, errori significativi, “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”, come ebbe a dire qualche secolo fa Galileo Galilei, e quindi anche io ho deciso di far parte di questa storia di lotta, sia contro l’oscurantismo di talune obbiezioni non suffragate da dati certificabili, che contro un morbo letale che in Italia ha mietuto più di centomila vittime, pari ad un’intera città o a un’intera piccola provincia italiana scomparse in un anno: una tragedia senza pari che ci ha segnati per la vita.
Aggiungo anche che mi è sembrato un atto di salvaguardia, per quello che vale, verso le persone che in qualche modo vengono in contatto con me, a cominciare dai miei alunni e colleghi a cui sono legato da sinceri sentimenti, e a finire a tutti i miei affetti, giovani e anziani, sia familiari che amicali.
Detto questo però voglio anche chiarire che non credo nella scienza come nuova religione, fonte di salvezza, per quanto mi riguarda come cristiano cattolico ho la mia fede nell’Onnipotente e questo mi basta e mi avanza, ma la vedo come la capacità che ha l’umanità di reagire alle difficoltà più atroci utilizzando la ragione, mettendo in campo strategie ed elaborazioni concettuali che ci hanno portato nel 2021 ad avere, qui nel libero occidente, il più basso tasso di mortalità infantile della storia grazie proprio ai vaccini e contemporaneamente una popolazione molto anziana per numeri ed età, e che Dio c’è la preservi.
La scienza ha i suoi limiti costituiti da errori ed aggiustamenti, proprio perché frutto dell’umana condizione, ma essa, la scienza, se vista nella giusta ottica diventa una grande opportunità, che è necessario cogliere, anche tenendo presente gli eventuali rischi da cui noi tutti non siamo esenti nemmeno quando prendiamo un’aspirina.
Condivido l’impostazione di Karl Popper secondo il quale la scienza non è “un sistema di asserzioni certe o stabilite una volta per tutte”, bensì un insieme di tentativi, “di ipotesi azzardate, di anticipazioni affrettate e premature, di pregiudizi”, che l’uomo tenta di cogliere in fallo cercando di farli collidere con la realtà, mediante l’osservazione e l’esperimento. Come scrive Dario Antiseri è un “modello interpretativo della scienza (quello poppereiano) basato sull’errore: quanto più si sbaglia, quanto più si elaborano nuove teorie che si rivelano fallaci, tanto più è possibile circoscrivere l’orizzonte della verità. Il progresso, secondo Popper, non consiste nell’accumulo di certezze, bensì nella progressiva eliminazione degli errori, in maniera analoga all’evoluzione biologica.”
Ma d’altronde la nostra stessa libertà di scelta è un rischio. Per conto mio avrei preferito che si lasciasse alle persone la decisione di che tipo di vaccino farsi inoculare, cosicché la responsabilità sarebbe ricaduta sugli individui e non sullo Stato, preservando l’autodeterminazione dei primi e la neutralità del secondo, fornendo però prima ovviamente tutte le informazioni e le controindicazioni del caso, considerando l’uomo ormai “adulto” e capace di poter disporre completamente del proprio corpo senza indebite interferenze. Ma così non è stato, purtroppo.
L’errore comunicativo che è stato commesso, inoltre, che è anche un modo di pensare, è quello di avere rassicurato la popolazione dell’assenza proprio di rischi, quello di avere disegnato utopisticamente, questo il vero pericolo, una ipotetica panacea nei vaccini, tralasciando anche di parlare delle possibili cure anti covid. Ovviamente un atteggiamento antiscientifico, che ha prodotto l’effetto opposto al primo evento negativo, seppur statisticamente poco significativo. Come sostiene Lorenzo Infantino infatti il vero sviluppo lo si ottiene quando si rinuncia “ad un punto di vista privilegiato sul mondo” consapevoli della propria ignoranza e fallibilità.
Rispetto la decisione di tutti coloro che altrettanto liberamente hanno preferito non farsi vaccinare, anche quella è una scelta, ma nel contempo a loro ricordo le parole di Bernard de Mandeville “chi vuole far tornare l’età dell’oro, deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà”.
Poi, amici miei, sarà per i patri sentimenti che sempre mi animano, io degli alpini mi fido, hanno difeso i nostri confini montani dal 15 ottobre 1872, anno dello loro fondazione, e l’immagine del generale Francesco Paolo Figliolo che si sottopone alla vaccinazione con Astrazeneca, debbo confessarvi, mi ha rassicurato, come se in questa occasione si stesse proteggendo, in qualche modo ed ancora una volta, la frontiera della nostra civiltà. E speriamo che quest’ennesimo tentativo di avanzamento riesca, anche parzialmente! E che Dio c’è la mandi buona.
Antonino Sala.

Ps: un ringraziamento a tutti gli operatori che in questo momento stanno lavorando alacremente e che ho visto all’opera durante la vaccinazione. Anche questa è una nota di speranza per il futuro.