Ripensare Fini

Ho letto con attenzione gli articoli recenti di Mario Landolfi su Il Foglio e Gianfranco Rotondi su https://www.huffingtonpost.it/ su Gianfranco Fini e la sua svolta, che credo, testimonino come ancora la cosiddetta destra italiana debba fare un lungo percorso prima di potersi presentare epurata da tutte quelle incrostazioni vetero estremiste che l’hanno sempre contraddistinta a causa della sua atavica  caccia al traditore di turno, un retaggio culturale che viene da lontano, da quando si urlava nelle piazze alla vittoria “mutilata” nel 1918; al complotto “giudaico demo pluto massonico”; alle accuse alla monarchia e agli ambienti “reazionari” che sarebbero stati responsabili, a loro modo di vedere, della sconfitta in una tragica e rovinosa II guerra mondiale in cui proprio estremisti, affaristi, irrealisti, utopisti e militaristi avevano trascinato l’Italia;  agli strali indirizzati verso sia il governo Badoglio, il Re Vittorio Emanuele III e suo figlio Umberto II che tentarono di evitare ulteriori lutti alla patria che verso la resistenza antitedesca che era in larga parte fatta da anticomunisti, monarchici, liberali e popolari che lottavano per la libertà dai nazisti; per poi con lo stesso atteggiamento trasmigrare in tempi di repubblica, ricominciando a mettere all’indice i soliti “Giuda”, questa volta gli artefici della ricostruzione post bellica su cui comunque non do in questo testo nessun giudizio di merito o di valore (solo per esempio uno di questi era ed è nell’immaginario destrorso Amintore Fanfani che era stato fascista, ed aveva formulato il primo articolo della costituzione repubblicana ed aveva dato vita al centrosinistra con i “cugini” socialisti, dando impulso alla politica assistenziale e statalista del periodo); contro i “venduti” di Democrazia Nazionale che però avevano anticipato i tempi di Fiuggi anche con molta generosità ed ingenuità; ed infine verso Gianfranco Fini e la sua politica aperturista. 

Per inciso ancora oggi continua la ricerca del nemico interno da parte di chi di quel mondo si dice erede o prosecutore, principalmente perchè è più facile dare colpe a qualcuno  piuttosto che mettersi difronte allo specchio della propria coscienza e cercare soluzioni credibili, coraggiose e praticabili, a questo si unisce un endemico carattere “perfettista” dell’ambiente, pronto a dare “patenti morali” a chiunque esca dalla “comarca” nella convinzione di essere diversi o peggio superiori eticamente.

Incontrai il presidente Gianfranco Fini a Roma nel 2015 quando ormai era fuori dall’agone politico e sulla via del tramonto e debbo dire che trovai un uomo ancora brillante, certamente riflessivo su i suoi errori, ma una persona che era stata coraggiosa, forse anche troppo, che, come un giorno molti anni prima quando era in auge ebbe a dirmi, aveva “cercato di svuotare il mare con un cucchiaino”, e ovviamente non solo non ci era riuscito ma ne era rimasto travolto. Ancora oggi lo ringrazio della sua affabilità e di quell’incontro a cui ne seguirono altri.

Ma da cosa voleva svuotare il mare Fini? Bene credo che dopo tanti anni si possa fare un’analisi più attenta e profonda e soprattutto senza acrimonia, su quale era stata la svolta giusta di Fiuggi, pensata da Domenico Fisichella, voluta da Pinuccio Tatarella ed interpretata da Gianfranco Fini. Ci si voleva liberare dalla zavorra neofascista, che aveva messo nell’angolo la destra italiana nella prima epoca della repubblica, emarginata dagli altri partiti che non esitavano a disdegnare ogni aiuto parlamentare proveniente dal MSI, e senza una vera possibilità di incidere sulla vita politica italiana. 

Quella coraggiosa posizione che vide Gianfranco Fini protagonista della stagione della destra di governo, che ad oggi non si è più ripetuta, fece sì che in tanti ex missini divennero ministri, sottosegretari, presidenti di commissioni parlamentari e in molti casi manager e consiglieri di amministrazioni dei grandi gruppi statali: oggi quasi tutti muti sul loro ex capo nel migliore dei casi o irriconoscenti nella peggiore. Fini mi consegnò una massima di Seneca che spesso mi sovviene in mente, nell’occasione del nostro incontro “la riconoscenza è il sentimento della vigilia”, verissimo.

Inoltre lo storico viaggio di Gianfranco Fini ad Israele la ritengo una delle azioni più importanti con la quale ruppe definitivamente con uno strisciante antisemitismo che aveva caratterizzato certi ambienti, in parte gli stessi che avevano demonizzato l’avventura di Democrazia Nazionale e che per una presunta idea di purezza ritenevano di non doversi mai misurare con la sfida del governo in coalizione con altre forze politiche anticomuniste, liberali e popolari, che erano da sempre presenti nel Parlamento italiano, anche del Regno, perché espressione di una sensibilità diffusa all’interno del popolo italiano.

Certamente a Fini si possono imputare tanti errori, a cominciare dalla scelta di alcuni suoi devoti accoliti o presunti tali, dall’essersi fidato di colonnelli che aspiravano, forse, a diventare in fretta generali sotto un’altro capo, di essersi imbarcato nel PdL con Berlusconi e poi di essersene andato prematuramente, di essersi lasciato abbagliare da ipotetiche quanto improbabili avventure di governo alternative al centrodestra e di avere poi dato troppo spazio ad alcuni avventati e rissosi avventurieri, sempre pronti a creare confusione nel campo avversario quanto nel proprio, che lo hanno trascinato fuori dal seminato. 

Solo per chiarezza: la storia della casa di Montecarlo, che era e rimane comunque una questione legata al patrimonio privato della Fondazione Alleanza Nazionale, ed ancora all’esame della magistratura, non modifica di nulla il giudizio storico sulla persona, e ai tanti che allora guardavano alla vicenda, ancora tutta da chiarire, con occhio “attento” ed arcigno mi piacerebbe chiedere come mai in altre occasioni hanno fatto finta di essere non miopi ma ciechi fin dalla nascita.

Ma quanti di noi non commettono quotidianamente errori? d’altronde come scrive Friedrich von Hayek l’umanità procede per tentativi ed errori nel processo di avanzamento culturale, politico, sociale, economico ed umano. 

Tutta la storia dell’umano consorzio è costellato di avventurose imprese anche naufragate, che comunque indicavano una strada che per tappe poi altri avrebbero intrapreso favorevolmente. Nessun uomo, seppur dotato di grande intelligenza e conoscenza, può prevedere il futuro e gli sviluppi di un’azione libera, anche se fosse in possesso di portentose tecnologie appoggiate su innumerevoli dati, e se così fosse basterebbe allora costruire un cervello elettronico con un microprocessore molto veloce implementato da un efficiente algoritmo. E’ evidente che questa prospettiva, oltre che impossibile e anche disumana, sono troppe infatti le variabili in gioco per riuscire in un’impresa simile. 

Quindi preso atto della fallibilità e della finitezza umana la valutazione sull’opera di Fini va fatta sul deposito che oggi ci ha lasciato e sulla prospettiva che ha indicato: quella di un cammino, che libero dagli schemi incapacitanti e vincolanti del passato, anche se risultano comodi per nascondere la ritrosia, l’indolenza e fors’anche l’incapacità di molte “belle anime” a ragionare sul presente e sul futuro, verso un progetto di rinnovamento di un’area, che avrebbe dovuto avere ben chiara quale fosse la sua identità e la sua naturale collocazione, alternativa alla sinistra, anti dirigista e liberale come nella migliore tradizione della destra risorgimentale. 

Purtroppo i nipotini di Hegel sono sempre pronti a dare di matto appena si mette in discussione il dogma dello “spirito assoluto incarnato”, loro autentica esigenza ontologica tanto per citare Gabriel Marcel, ieri in Napoleone a cavallo a Jena, al tempo di Fini in Berlusconi sul predellino della sua auto a piazza San Babila, ed agirono perché si incerenisse, non solo il gentleman in grisaglia insieme a un’intera classe dirigente (che in parte preferì la diaspora necessaria per dirla con Tommaso Romano), ma anche il progetto veramente aperto come Fisichella e Tatarella avevano pensato Alleanza Nazionale, dove un partigiano anticomunista e monarchico come Edgardo Sogno, poteva trovare libera cittadinanza.

Ecco quella strada tracciata dovrebbe essere ripresa, con tutte le correzioni del caso, sapendo che gli intoppi e gli errori sono dietro l’angolo assieme ai tentativi di successo che pur non mancano. 

Sarebbe utile oltreché entusiasmante puntare a rifare un autentico partito tradizional/conservatore ed anche liberal/popolare, attualizzando ciò che è vivo del pensiero politico di Alessandro Manzoni, Marco Minghetti, Camillo Benso di Cavour, Luigi Tapparelli D’Azeglio, Gioacchino Ventura, Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti, Santi Romano, Quintino Sella, Luigi Sturzo, Benedetto Croce, Luigi Einaudi solo per citarne alcuni, senza pregiudiziali e con animo aperto anche all’incertezza del futuro. 

Ma principalmente, riappropriandosi, in tutti i sensi, di Gianfranco Fini e della sua controversa opera rinnovatrice, che il suo posto nella storia della destra e dell’Italia se lo è già conquistato, al quale si deve, come ho scritto prima, il primo vero tentativo, in parte riuscito, di fare uscire dal ghetto gli eredi degli sconfitti del XX secolo portandoli nelle stanze delle cancellerie continentali a decidere delle sorti dell’Europa.

Antonino Sala

 

Gesù Cristo tra capitalismo, carità e libertà

Sentendo per l’ennesima volta dire, in maniera capziosa e distorta, al classico uomo di sinistra pieno di prosopopea proletarista, che Gesù sarebbe, secondo la vulgata marxista, il primo comunista della storia solo perché predicava la carità verso il prossimo, ho fatto la riflessione che proprio Lui è stato, durante la sua vita terrena, il primo capitalista dell’era cristiana.
Il capitalista infatti è colui che crea ricchezza attraverso la trasformazione delle materie prime impiegando propri mezzi e risorse. Allora andando alle sacre scritture, nel vangelo secondo Giovanni si legge “tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare» e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono». Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.”
La compassione di Gesù e l’amore verso la propria madre che lo invitava ad agire in favore degli sposi lo spinsero a trasformare una materia prima, l’acqua, in un bene di consumo più importante, il vino servendosi del suo capitale, la propria divinità, che tutto può, a cominciare dal modificare la natura degli elementi che si piegano al suo volere.
Se poi prendiamo quanto riportano tutti e quattro gli evangelisti sul miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci allora il mio pensiero si fa ancora più netto. Gesù sfamò cinquemila uomini con 5 pani e 2 pesci, così come è descritto da Matteo 14,13-21, da Marco 6,30-44, da Luca 9, 12-17, da Giovanni 6, 1-14. Ecco cosa ci dice il testo di Giovanni Giovanni 6,1-14: Dopo questi fatti, Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!».
Ma non è l’unica volta che questo segno della Sua potenza si manifestò, anche in un’altra occasione quattromila uomini furono sfamati con sette pani e “pochi pesciolini”, così come scritto da Matteo 15,32-39 e da Marco 8,1-10. Ecco cosa ci racconta l’evangelista Marco: “in quei giorni, essendoci di nuovo molta folla che non aveva da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro: «Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono di lontano».Gli risposero i discepoli: «E come si potrebbe sfamarli di pane qui, in un deserto?». E domandò loro: «Quanti pani avete?». Gli dissero: «Sette». Gesù ordinò alla folla di sedersi per terra. Presi allora quei sette pani, rese grazie, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; dopo aver pronunziata la benedizione su di essi, disse di distribuire anche quelli. Così essi mangiarono e si saziarono; e portarono via sette sporte di pezzi avanzati. Erano circa quattromila. E li congedò. Salì poi sulla barca con i suoi discepoli e andò dalle parti di Dalmanùta.”
Sarebbe strano che chi riesce a trasformare la materia prima in prodotto finito, a sfamare migliaia di persone con poche risorse che in mano Sua diventano più che sufficienti definirlo “comunista”. Quanti regimi socialisti avete visto sfamare uomini e donne? Ne “Il libro nero del comunismo” curato da Stéphane Courtois troviamo che le vittime di questi regimi sono arrivate a 100 milioni, per non parlare delle violenze, delle repressioni e del terrore nell’Unione Sovietica di Stalin, nella Cuba castrista o nella Cina di Mao.
E quanto è pesato nella storia del novecento l’invidia sociale, tradotta in odio, verso i propri datori di lavoro, instillata da Marx, Engels e i loro epigoni Lenin e Stalin?
Di contro quanto affetto sincero c’è nel centurione romano che a Cafarnao gli venne incontro dicendogli «Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente» e Gesù gli rispose: «Io verrò e lo curerò».
Pertanto non possiamo non ricordare quale grande contributo sia stato quello del cristianesimo, in tutte le sue declinazioni, allo sviluppo del capitalismo come sistema economico e sociale. La religione dell’amore fraterno ha stravolto i rapporti tra servi e padroni nell’antica Roma, ha permesso la nascita delle corporazioni medievali con le prime forme di tutela degli aderenti ad esse, e quella dei primi banchi gestiti peraltro dai grandi ordini crociati, ha dato un impulso decisivo al rinascimento italiano con gli artisti pagati come meglio si poteva pur di avere i loro lavori ed infine alle rivoluzioni industriali, in cui i primi a giovare dei miglioramenti dei sistemi produttivi sono stati proprio i lavoratori che dalle campagne si sono spostati nelle città dove hanno trovato un minor carico di lavoro manuale e retribuzioni più alte, che di conseguenza hanno costretto i proprietari terrieri ad aumentarle ai propri operai per tenerli legati alla terra. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se Gesù stesso fosse stato avverso alla libera impresa fondata sul libero scambio e all’utilizzo delle risorse naturali che all’uomo sono state affidate non per contemplarle ma per goderne a differenza di quanto un certo ambientalismo vuole far credere.
Tutto l’avanzamento dell’Occidente, è stato un continuo rifarsi alla parabola dei talenti ”avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.” Un chiaro incitamento a operare e a rischiare per moltiplicare quelle risorse che ci vengono assegnate e da cui dobbiamo trarre il massimo secondo ognuno le sue potenzialità naturali.
D’altronde da diversi autori è stato approfondito il rapporto tra cristianesimo e capitalismo, anzi è ritenuto rilevante l’apporto dato proprio dai francescani allo sviluppo del libero scambio. Infatti scrive Dario Antiseri “la riflessione economica francescana diventa realtà concreta nei Monti di pietà e nei Monti frumentari dove la differenza tra le due istituzioni sta nel fatto che i Monti di pietà servivano a calmierare il costo del denaro a vantaggio delle forze lavoro, mentre con i Monti frumentari si intese calmierare il prezzo del grano, a favore della parte povera della classe degli agricoltori: venivano prestate derrate di cereali per la semina che, a raccolto avvenuto, venivano restituite alle condizioni stabilite, in sostanza a seconda del rendimento dell’annata. Attenti agli aspetti concreti dell’evangelizzazione, i francescani si erano resi conto dell’impossibilità per le famiglie meno abbienti di avere accesso al credito ad un equo tasso di interesse ed erano testimoni del dramma di tante famiglie precipitate in miseria perché strangolate da usurai ebrei e cristiani senza scrupoli. Sta proprio qui, appunto, la ragione principale della creazione dei Monti di pietà: istituzioni concepite come mezzo di cura della povertà, di lotta all’usura .
Fu frate Barnaba Manassei da Terni a fondare a Perugia il 13 aprile del 1462 il primo Monte di pietà. Frate Barnaba, tra il 1460 e il 1462, insieme a frate Michele Carcano da Milano, aveva predicato a Perugia contro l’usura, e «riuscì a convincere gli amministratori della città a dar vita a un banco di prestito su pegno, che usasse il tasso di interesse unicamente per conservare il cumulo di denaro necessario a mantenere il flusso dei prestiti. L’istituzione si formò con i proventi di donazioni e di elemosine (…) Faceva prestiti a mercanti ed artigiani ed escludeva prestiti per spese di lusso. Il tasso di interesse non superava il 6%» (Bazzicchi). Subito dopo quello di Perugia, l’istituzione dei Monti di pietà si diffuse in Umbria e nelle Marche per estendersi successivamente soprattutto nell’Italia del Nord. Nel 1463 il Monte di pietà fu fondato a Orvieto e a Gubbio; nel 1464 a Pesaro e l’anno dopo, nel 1465, a Foligno; nel 1466 a Norcia, a L’Aquila e Borgo San Sepolcro; nel 1467 a Terni; e il 14 giugno del 1468 ad Assisi. Qui, ad Assisi, a dare man forte al Monte di pietà fu fra Giacomo della Marca, il quale dimorò nell’eremo delle Carceri tra il 1468 e il 1471. Nell’estate del 1485 arrivò ad Assisi fra Bernardino da Feltre, il cui impegno di predicatore si profuse nella difesa dei Monti di pietà, e che pochi mesi prima, nel 1484, aveva fondato il suo primo Monte a Mantova. Monti di pietà sorsero nel 1469 a Spoleto e a Trevi, nel 1471 a Viterbo, nel 1473 a Bologna, nel 1483 a Milano e Genova, nel 1484 a Brescia e Ferrara, nel 1486 a Vicenza. In un secolo, dal 1462 al 1562, si potettero contare duecentoquattordici Monti di pietà. Con l’istituzione dei Monti di pietà i francescani si immersero nella concretezza della vita quotidiana della gente….Aspra è stata la discussione tra teologi, moralisti, giuristi di varie Università dell’epoca sul problema dell’interesse sul prestito. I teologi e moralisti domenicani e agostiniani erano contro ogni forma di interesse e addirittura anche contro il semplice rimborso spese. E pure tra i francescani l’argomento dell’interesse sul prestito fu oggetto di contese come dimostrano gli scontri che si ebbero nel capitolo generale dell’Osservanza di Firenze del 1493. E nel Capitolo generale che ebbe luogo a Milano il 13 luglio del 1498 si stabilì che non venissero eretti Monti di pietà senza la prescrizione di ricevere un tasso di interesse, seppur minimo. L’esperienza aveva già dimostrato, con il fallimento del Monte di pietà di Firenze, che i Monti non avrebbero affatto potuto sopravvivere senza la richiesta di un pur minimo interesse sul prestito.”
Inoltre è interessante la tesi di Stefano Zamagni in L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo secondo la quale “la famosa tesi di Max Weber secondo cui la Riforma incoraggiò – e non causò, si badi – lo sviluppo del capitalismo moderno attraverso l’etica protestante del lavoro e la nozione di vocazione collegata all’idea calvinista di predestinazione individuale. L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05 e 1920) si apre con una domanda ben specifica: “Quale concatenamento di circostanze ha fatto sì che proprio sul terreno Occidentale, e soltanto qui, si siano manifestati fenomeni culturali che pure… stavano in una linea di sviluppo di significato e validità universale?” Nel cercare una risposta significativa, il grande sociologo tedesco inizia con l’osservare come: “Il Protestantesimo ha l’effetto di liberare l’acquisizione della ricchezza dalle inibizioni delle etiche tradizionaliste; esso rompe le catene della ricerca del guadagno non solo legalizzandolo, ma vedendo in esso l’espressione diretta della volontà di Dio”. E’ in particolare la nozione Calvinista di ascetismo – a differenza di quanto accadeva nella vita monastica, l’ascetismo per Calvino significava impegnarsi nel mondo in modo produttivo controllando con la ragione le pulsioni passionali – che, secondo Weber, vale a stabilire la contiguità fra Protestantesimo e capitalismo moderno. Alla regola benedettina “ora et labora”, Calvino sostituisce la sua “laborare est orare” (“lavorare significa pregare”), con il che l’ascesi cattolica extramondana si fa ascesi intramondana nella spiritualità calvinista: è in ciò la genesi dello spirito del moderno capitalismo. La vicenda della Riforma costituisce un caso notevole, anche se non unico nella modernità, di eterogenesi dei fini. Lutero e gli altri esponenti della Riforma (salvo Calvino) erano ostili alle questioni economiche, né conoscevano il funzionamento delle istituzioni di mercato. La loro fu una lotta accesa contro la diffusa pratica, nella Chiesa Cattolica, di episodi di corruzione e di compravendita delle indulgenze. La Riforma non riguardò se non indirettamente la sfera dell’etica. Il suo oggetto fu piuttosto la teologia e la vita religiosa. Eppure, preoccupato di proteggere la religione dall’influenza delle forze del mercato, Lutero – secondo l’interpretazione corrente della tesi weberiana – avrebbe, affiggendo le 95 tesi sulla porta della cattedrale di Wittenberg, scritto un manifesto capitalista. C’è del vero in ciò? Non penso proprio. In primo luogo, giova precisare che, contrariamente a quanto asserito da non pochi interpreti, Weber mai ha sostenuto che il capitalismo ha tratto origine dalla Riforma. Scrive al riguardo il nostro: “Non si deve combattere per una tesi così pazzamente dottrinaria come sarebbe la seguente: che lo ‘spirito capitalistico’ sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma”. (Ib.p.162). Non è tanto il capitalismo, quanto il capitalismo moderno che, secondo Weber, esigeva una spiegazione delle sue origini o, meglio ancora, del suo rapido diffondersi nei paesi nord-europei. Si badi che a differenza di Lutero, la cui conoscenza dei problemi economici era alquanto limitata e la cui ostilità nei confronti delle pratiche capitalistiche era ben nota, Calvino era pienamente consapevole delle attività finanziarie che si praticavano nella sua Ginevra e delle loro implicazioni economiche e sociali. Quel che pare dunque ragionevole sostenere è che, sebbene valori borghesi quali la parsimonia, la perseveranza, la dedizione al lavoro duro etc., ricevettero tutti un riconoscimento esplicito dalla teologia di Calvino, il capitalismo moderno (nel senso di Max Weber) è più un risultato collaterale, che non l’effetto desiderato di quella prospettiva religiosa.”
Scrive Joseph Schumpeter “Già prima adombrata, essa fu per la prima volta espressa da sant’Antonino, il quale spiega che sebbene il danaro circolante possa essere sterile, il capitale monetario non lo è, perché esso rappresenta una condizione necessaria per intraprendere affari. Ora, è ben vero che il domenicano arcivescovo fiorentino sant’Antonino (1389-1459) accoglie nella sua Summa l’idea della funzione del prestito di danaro sia per i consumi che per gli investimenti vantaggiosi, richiamandosi all’autorevole proposta di san Bernardino da Siena (1380-1440), solo perchè costui, da parte sua, ripeteva le idee di due francescani: Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e Alessandro di Alessandria (1270-1314).
Nella Prima Quaestio del Tractatus de emptione et venditione l’Olivi tratta del valore economico. Il valore di una cosa, egli afferma, nasce dalla concorrenza di tre cause che sono: quelle proprietà che la rendono adatta meglio di un’altra a soddisfare i nostri bisogni; la scarsità e quindi la difficoltà ad essere reperita; la preferenza individuale di coloro che intendono usarla.
Nella terminologia di san Bernardino da Siena, nella trascrizione che egli fa dei passi dell’Olivi, il valore di una cosa è data dalla raritas, dalla virtuositas e dalla complacibilitas.
La raritas sta a significare la scarsità del bene economico rispetto alla domanda; la virtuositas “la sua capacità oggettiva di rispondere ad un bisogno”; e la complacibilitas è la preferenza che un soggetto dà ad un bene in vista dell’appagamento di un bisogno piuttosto che di un altro, stabilendo una gradualità tra questi. Con la complacibilitas l’Olivi introduce nella concezione del valore un elemento che risulterà poi nevralgico per il marginalismo e nella successiva e contemporanea teoria economica. In sintesi, annota ancora il Bazzichi, “il valore economico si determina in funzione dell’utilità – sia nella sua forma oggettiva (virtuositas) sia nella sua forma soggettiva (complacibilitas) – e in funzione della rarità. E precisa: è questa veramente la migliore e la più moderna tra le teorie del valore del Medioevo”.
Mi pare anche opportuno per completezza citare anche Murray Rothbard, esponente libertario della Scuola Austriaca di economia, secondo il quale fu il cattolicesimo e scoprire il capitalismo di libero mercato che all’inizio fu osteggiato proprio dai protestanti. Rothbard, ebreo e agnostico, nonostante non si convertì mai dichiarò se stesso “un ardente sostenitore del cristianesimo”. Nella sua storia del pensiero economico (Economic Thought Before Adam Smith), uscita postuma nel 1995, Rothbard ripensò il Medioevo cattolico come un periodo ricco e creativo della storia europea proprio anche perché il libero mercato nacque molto prima di Adam Smith, nel mondo cattolico e non in quello protestante. L’attenzione del nostro di Rothbard si rivolse in particolare a due francescani: al provenzale Pietro Giovanni Olivi (1248-1298), il vero scopritore della teoria soggettiva del valore; e a San Bernardino di Siena (1380-1444), il quale, oltre a fornire una magistrale analisi delle virtù e della funzione dell’imprenditore, riportò in auge la teoria soggettiva del valore sviluppata da Olivi, per non parlare dell’esaltazione che fa dei tardoscolastici della Scuola di Salamanca del Sedicesimo secolo per la loro difesa della proprietà privata, per le acute analisi dei fenomeni di mercato e monetari, per la dura critica dell’intervento del governo nell’economia come scrive Guglielmo Piombini in un articolo dal titolo eloquente “Quando i francescani scoprirono il capitalismo” pubblicato dalla Nuova Bussola Quotidiana.
Infatti Olivi afferma “di fronte alla proibizione canonica dell’usura, è lecito distinguere fra il prestito di una somma di danaro qualsiasi e il prestito di una somma di danaro inscritto o da inscriversi nel processo produttivo, cioè impiegato in un programmato o già realizzato investimento produttivo?…. Ciò che è destinato a qualche probabile lucro non solo deve rendere il suo stesso valore, ma anche un valore aggiunto”.
Come ha scritto Oreste Bazzichi (Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica) i francescani, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, sono stati pressoché gli unici a elaborare, sul piano dottrinale, una teologia economica e, conseguentemente, a esercitare nella prassi un’influenza positiva per il superamento delle difficoltà giuridico-morali all’attività di impresa come l’interesse e la produttività del denaro.
Condivido infine per concludere, il pensiero di Flavio Felice professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise: “San Bernardino da Siena, considerando che «se è legittimo perdere, deve essere legittimo vincere», giungeva alla conclusione che per fabbricanti e commercianti è legittimo ottenere un profitto. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizzava anche il Vescovo di Firenze Sant’Antonino, il quale affermava che «poiché ogni agente opera per ottenere un fine, lo scopo immediato dell’uomo che lavora nel settore dell’agricoltura, della lana, dell’industria o di attività simili è il profitto». Per san Tommaso d’Aquino tra i motivi che giustificano i profitti dobbiamo considerarne fondamentalmente cinque: provvedere alla famiglia del mercante; aiutare i poveri; stimolare il benessere del paese; remunerare il lavoro del mercante; migliorare la merce. Dunque, condanne e filippiche a parte, le virtù mercantili si impongono. Sta per formarsi un nuovo sistema economico, il capitalismo, che per avviarsi e svilupparsi, ha bisogno, se non di tecniche nuove, per lo meno di un uso massiccio di pratiche da sempre condannate dalla Chiesa, i cui anatemi però vennero in molti casi superati, da un lato, con l’interpretazione delle singole tipologie di prestito e di interesse (damnum emergens, lucrum cessans, poena conventionalis), dall’altro, da una sottile analisi che traghettò il concetto di “capitale monetario” dalla nozione di somma di denaro destinato agli affari (capita), a elemento vivo la cui forza risiede nel suo carattere seminale (caput).L’avvio di tale analisi spetta all’originale idea del teologo Francescano Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) sul capitale, sull’interesse e sul giusto prezzo; quest’ultimo venne analizzato dall’Olivi a partire da una teoria soggettiva del valore: la complacibilitas (desiderabilità). Alla base del pensiero economico oliviano c’è la sua teoria del capitale, una somma di denaro che, essendo destinato agli affari, contiene già in sé un “seme di lucro”; questa presenza seminale costituisce il valore in più (“superadiunctus”) che il debitore deve restituire insieme alla somma ricevuta in prestito. L’idea oliviana, ampliata e accolta dalla scolastica francescana, si fece strada ed ebbe larghissima diffusione e fece testo nel campo della teologia morale grazie ai sermoni e alle prediche del francescano San Bernardino da Siena e del domenicano Sant’Antonino da Firenze, finché la scuola teologica dei gesuiti nel XVII secolo la presenterà come dottrina comune dei moralisti, a cui attinse, più tardi, il filosofo morale Adam Smith. Si tratta di un contributo fondamentale all’analisi teorica dell’economia di mercato, di cui, peraltro, l’economia sociale di mercato di Röpke in Germania e di Einaudi e di Sturzo in Italia può essere considerata, in qualche misura, continuatrice ed erede. Che questo basti per parlare di “radici cattoliche” del capitalismo? Se per capitalismo intendiamo un modello di produzione fondato sul ruolo positivo svolto dalle imprese, dal mercato, dalla proprietà privata e dal libero, responsabile e creativo agire della persona, ancorato a un saldo sistema giuridico e a un chiaro orizzonte ideale, al centro del quale è posta l’opera del più affascinante, raffinato e prezioso fattore di produzione: il capitale umano, credo che sia difficile non cogliere proprio nella tradizione greca, romana e infine cristiana, le radici stesse del capitalismo.”
Il Capitalismo attuale deve molto alle sue radici medievali e cristiane, poichè esso si incentra sul diritto naturale alla proprietà e alla libera impresa, come espressione della creatività dell’uomo sviluppata nei secoli e voluta nell’atto creativo da Dio per noi credenti. D’altronde il vero capitalista, non è colui che accumula oro e denaro fine a se stesso, ma al contrario ama reinvestirlo e quindi rischiarlo nella propria azienda, come scrive nella Società Libera Friedrich von Hayek, per migliorare il proprio prodotto venendo incontro meglio alle esigenze del consumatore, l’unico signore del mercato, e anche per ampliare la propria attività aumentando sia la produttività che il livello di impiego, divenendo in tal modo un inconsapevole benefattore della comunità, la quale dal suo ingegno ne ha sempre tratto un notevole vantaggio sia sul piano materiale che su quello dell’autodeterminazione, perché il Capitalismo è Libertà. E Gesù Cristo è l’essere più libero dell’universo essendone l’unico Re.

Debito pubblico, tassazione progressiva, perdita di ricchezza e decrescita infelice. No grazie!

In questi giorni abbiamo sentito parlare di debito buono è debito cattivo. Ma esiste un debito pubblico buono? Io credo di no, perché comunque si determina con esso una situazione paradossale in cui chi contrae il debito, non è la stessa persona che lo dovrà ripagare, ma bensì i suoi figli e un forse anche i suoi nipoti. E’ logico pensare che il debitore attuale si deresponsabilizzi a tal punto da non prestare più attenzione a quanto prende in prestito, essendo certo di non dovere rispondere direttamente di nessuna cifra impegnata. Un esempio concreto? quanti di coloro che hanno contribuito alla mole ingente di debito che pesa sulle casse dell’Italia sono stati responsabilizzati delle loro azioni? Avete mai sentito che qualcuno sia stato chiamato a giudizio per eccessiva emissione di titoli di stato? Avete mai visto qualcuno rispondere in solido, quindi con il proprio patrimonio, del danno arrecato alle generazioni successive dal gravame debitorio, se non l’ignaro contribuente? Io no e credo nemmeno voi, per il semplice fatto che l’arco temporale in cui andava interamente ripianato il disavanzo si è esteso a tal punto che quando il nucumento si è concretizzato i suoi autori erano già passati a miglior vita, come per esempio la maggior parte dei politici della prima Repubblica, principalmente perché gli effetti si sono visti molti anni dopo. Spendere oggi per ripagare domani, ma non da me: questo è stato il motto dominante della politica economica degli ultimi 70 anni di Italia, senza la responsabilità diretta di nulla. A differenza di chi dopo l’Unità d’Italia, per la precisione il governo di Marco Minghetti (destra storica) nel 1876 era riuscito per la prima volta nell’ardua impresa del pareggio di bilancio. In fin dei conti, avendo concepito lo stato e la società, non come la somma delle individualità, uniche ed irripetibili, e delle loro libere interazioni, ma come ente reificato a se stante con una propria soggettività autonoma, unico legittimato a detenere il monopolio del potere, si è potuto farlo indebitare fino al collasso, immaginando che alla fine della giostra avrebbe lui stesso ripianato tutto, magari stampando un pò di carta moneta e ricorrendo sistematicamente all’inflazione, distruggendo così capitale e ricchezza materiale. Purtroppo la logica conseguenza è stata ovviamente quella di far crescere in maniera parallela la tassazione progressiva, l’unica maniera per ristabilire apparentemente l’equilibrio tra entrate ed uscite. Inoltre le imposte progressive a scaglioni hanno colpito primariamente le categorie più dinamiche e produttive, salvaguardando invece quelle più passive e parassitarie, in nome del falso mito della giustizia sociale e conseguentemente impedendo l’accumulo, ed in molti casi dissipando nuove quantità di capitale che sarebbero potute essere reinvestite per generare nuova ricchezza. L’altra atroce e fallace favola della redistribuzione dei beni ha poi impoverito progressivamente tutti ed ha ingenerato la sensazione, e quindi il veleno dell’invidia sociale, che il problema della mancanza di benessere dei ceti popolari è colpa dei cosiddetti “ricchi”, coloro che detengono “senza meritarsela” le agiatezze migliori “rubate” secondo un vecchio adagio della sinistra marxista alla classe lavoratrice sfruttata e depredata, anche se in verità le cose non stanno per niente così. Anzi la presenza di un ceto più abbiente capitalistico ha permesso al lavoratore più umile di migliorare la sua situazione economica, quantomeno perché per esempio il produttore di auto come primo cliente ha visto gli operai della sua stessa fabbrica piuttosto che i super ricchi, che quantomeno erano in numero assai inferiori rispetto ai primi. E così potremmo continuare con i produttori di frigoriferi, lavatrici, congelatori, telefonini e quanto la produzione industriale è stata capace di progettare e realizzare. In fin dei conti il capitalismo si è rivolto maggiormente al soddisfacimento dei bisogni del popolo, che dell’alta borghesia, per non parlare dell’aristocrazia terriera, che né è stata la prima vittima, visto che la stessa è stata costretta ad aumentare considerevolmente la paga giornaliera dei suoi contadini per convincerli a rimanere a lavorare nei campi per evitare che fuggissero nelle fabbriche di città, dove le retribuzioni erano molto superiori a fronte peraltro di un minor numero di ore di lavoro, con un aumento anche del loro potere di acquisto, e divenendo così i veri signori del mercato, che con le loro scelte hanno condizionato ed indirizzato.
Ma dovendo procedere alla requisizione di una parte considerevole del guadagno dell’imprenditore, per riequilibrare il debito pubblico o come si dice oggi per mantenere la sostenibilità della spesa, si è altrettanto progressivamente colpito la retribuzione dei lavoratori, sempre più ristretta, i quali hanno perso potere di acquisto, poi con la conseguente diminuzione dei consumi si è determinata una necessaria riduzione del personale impiegato per abbassare i costi di produzione, determinando così da un lato un aumento della disoccupazione reale e dall’altro l’evasione fiscale. Un vero e proprio disastro sintomo di una decrescita infelice, ammesso che possa esisterne una felice perché non ho mai visto nessuno andare in rovina ed esserne contento.
Il tanto declamato Recovery plan, di 200 e passa miliardi di euro, di cui 120 di debito e solo 80 a fondo perduto, su i 750 totali dell’Unione Europea, si aggiunge al nostro già elevato debito pubblico, con le conseguenze che ho già descritto, anzi recandone in dote una ancora più pericolosa: l’indebitamento dell’Europa come sistema continentale, gettando le basi per una futura e molto prevedibile tassazione europea, così alla fine della corsa avremo imposte comunali, regionali, nazionali ed internazionali sulle nostre fragili spalle. Ovviamente non invoco l’austerità ma la responsabilità nelle scelte politiche ed un orizzonte di libertà.
Se fossi al governo diffiderei dall’utilizzare i fondi in debito che ci vengono proposti a un buon tasso e prenderei solamente, ammesso che ci possa essere concesso, quelli a fondo perduto. Tenendo presente però che il disavanzo dello stato italiano ha ampiamente superato i 2500 miliardi di euro e che sono ben poca cosa questi fondi. Essi andrebbero impiegati per trasformare la tassazione da progressiva a proporzionale, per permettere a chi produce ricchezza di accumularne, grazie al suo genio creativo, altra da riutilizzare e lasciare al mercato o se vi suona meglio alla libere interazioni tra le persone, la facoltà di redistribuirla attraverso gli scambi e magari ulteriormente incrementarla. Ritengo proprio per questo che l’intervento dello stato in economia sia sbagliato perché potrebbe, come in molte occasioni è successo vedi il caso della Fiat a Termini Imerese, ingenerare scelte sbagliate e perniciose, frutto dell’emotività o dell’opportunità del momento e non della volontaria attività umana a cui va lasciata ampia facoltà di agire, ed anche di sbagliare ed eventualmente di autocorreggersi, per far germogliare un’altra Italia forte, aperta e libera.

Antonino Sala

VI conversazione in diretta: “Attualità della scuola liberale austrica: L. von Mises e F. von Hayek ” con Lorenzo Infantino, Tommaso Romano e Antonino Sala

Cari amici, vi invito a seguire la VI Conversazione in diretta streaming sulla pagina “Reagire per le Libertà” https://www.facebook.com/reagireperleliberta, venerdì 5 febbraio 2021 dalle 18.00 su “Attualità della scuola liberale austrica: L. von Mises e F. von Hayek ” che terrò con Lorenzo Infantino e Tommaso Romano. Sarà un occasione di alta cultura da non perdere!
Antonino Sala
Di seguito le note biografiche del prof. Lorenzo Infantino.
Fonte: http://docenti.luiss.it/infantino/chi-sono/
Nato a Gioia Tauro l’8/01/’48. Laurea in Scienze Economiche presso l’Università di Siena. Specializzazione post-universitaria in Sociologia presso la Luiss Guido Carli.
Curriculum
Professore Ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali presso il Dipartimento di Impresa e Management della Luiss Guido Carli, dove fa anche parte del Comitato scientifico del Centro di Metodologia delle Scienze Sociali.
E’ attualmente Presidente della Fondazione Friedrich A. von Hayek- Italia.
2012: organizza la Hayek Memorial Conference presso ll’Università Luiss Guido Carli.
2008: è relatore all’ “Austrian Colloqium” della New York University e tiene la Hayek Memorial Lecture presso il Ludwig von Mises Institute di Auburn; pubblica Individualismo, mercato e storia delle idee; tiene anche il corso di “sociologia” presso la facoltà di scienze politiche della Luiss Guido Carli;
2006: viene chiamato come Visiting Professor dall’Università Rey Jaun Carlos di Madrid; cura il volume La grande Depressione di Murray N. Rothbard.
Dirige alcune collane editoriali presso la casa editrice Rubbettino. Nel 2005 pubblica, per i tipi dell’Union Editorial, Ignorancia y libertad. Viene invitato come Visiting Professor dall’Universidad Rey Juan Carlos di Madrid, dove trascorre il semestre primaverile. Nel 2004 cura Economia e scienze sociali, un volume di scritti metodologici di John Stuart Mill, con cui inaugura, presso l’editore Rubbettino, una collana dedicata ai “problemi espistemologici dell’economia”. Nel 2003 organizza un convegno sulla figura di Ludwig von Mises e ne cura, assieme a Nicola Iannello, gli atti (Ludwig von Mises: le scienze sociali nella Grande Vienna, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004). È stato più volte “Visiting Professor”, in particolare presso l’Università di Oxford, dove è membro del Linacre College.
Pubblicazioni recenti
Lorenzo Infantino (2013). Potere. La dimensione politica dell’azione umana. Vol. 1, p. 9-321. ISBN: 9788849837322.
Lorenzo Infantino (2013). La disputa fra Hayek e Keynes: due diverse concezioni della conoscenza e della vita sociale. In: CONTRO KEYNES. PRESUNZIONI FATALI E STREGONERIE ECONOMICHE, p. 9-31. Torino: IBLLIBRI. ISBN: 9788864400518.
Lorenzo Infantino (2013). La teoria del denaro di Carl menger. In: DENARO, Vol. 7, p. 5-54. Soveria Mannelli: RUBBETTINO EDITORE. ISBN: 9788849836936.
Lorenzo Infantino (2012). Prefazione. In: LIBERALISMO, Vol. 6, p. 5-19. Soveria Mannelli: RUBBETTINO EDITORE. ISBN: 9788849833409.
Lorenzo Infantino (2012). Prefazione. In: COME SI MANDA IN ROVINA UN PAESE, Vol. 25, p. 5-15. Soveria Mannelli: RUBBETTINO EDITORE. ISBN: 9788849835069.
Lorenzo Infantino (2010). Hayek and The Evolutionaruy Tradition Against the Homo Oeconomicus. In: THE SOCIAL SCIENCES OF HAYEK’S ‘THE SENSORY ORDER’, p. 159-177. Bingley, UK: . ISBN: 9781849509749.
L. INFANTINO (2009). La valutazione della ricerca: i pericoli degli indici bibliometrici, in L’IMPRESA PUBBLICA. Vol. 3, p. 395-402.
L. INFANTINO (2009). Burocrazia. In: , p. 1-186. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788849824834.
L. INFANTINO (2009). Individualismo, mercado e historia de las ideas. MADRID: UNION EDITORIAL. p. 1-395. ISBN: 9788472094666.
L. INFANTINO (2008). Individualismo, mercato e storia delle idee. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. p. 1-325. ISBN: 9788849821635.
L. INFANTINO (2008). L’ordine senza piano. ROMA: ARMANDO EDITORE. p. 1-270. ISBN: 9788860814043.
L. INFANTINO (2008). La Grande Depressione. In: , p. 1-427. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 978-498-2296-0.
L. INFANTINO (2007). Estudios de Filosofia, Politica Y Economia. In: CLÁSICOS DE LA LIBERTAD, p. 1-460. MADRID: UNION EDITORIAL. ISBN: 978-84-72-444-4.
L. INFANTINO (2007). L. von Mises visto da Lorenzo Infantino. ROMA: LUISS UNIVERSITY PRESS. p. 1-141. ISBN: 9788861050334.
L. INFANTINO (2007). La società libera. In: , p. 1-831. Soveria Mannelli: RUBBETTINO. ISBN: 9788849816556.
L. INFANTINO (2004). Ignorancia Y Libertad. MADRID: UNION EDITORIAL. p. 1-290. ISBN: 9788472094055.
R. DE MUCCI, L. INFANTINO (2004). Prefazione. In: LEZIONI DI DOTTRINA DELLO STATO, p. 5-41. SOVERIA MANNELLI: . ISBN: 9788849806151.
L. INFANTINO (2004). Economia e scienze sociali. In: , p. 1-216. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788849806489.
L. INFANTINO (2004). Ludwig von Mises: le scienze sociali nella Grande Vienna. In: , p. 1-392. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788849809015.
L. INFANTINO (2004). Ludwig von Mises e le scienze sociali del XX secolo. In: LUDWIG VON MISES: LE SCIENZE SOCIALI NELLA GRANDE VIENNA, p. 11-50. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788849809015.
L. INFANTINO (2003). Ignorance and Liberty. LONDON-NEW YORK: . p. 1-210. ISBN: 9780415285735.
L. INFANTINO (2002). L’economia del tempo e dell’ignoranza. In: , p. 1-439. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788849801712.
L. INFANTINO (2002). Tocqueville: problemi gnoseologici e democrazia liberale. In: ALEXIS DE TOCQUEVILLE: METODO, CONOSCENZA E CONSEGUENZE POLITICHE, p. 43-97. ROMA: LUISS EDIZIONI. ISBN: 9788888047591.
L. INFANTINO (2000). El Orden sin Plan. MADRID: UNION EDITORIAL. p. 1-365. ISBN: 9788472093577.
L. INFANTINO (1999). Ensayos de Teorìa Econòmica. In: , p. 1-315. MADRID: UNION EDITORIAL. ISBN: 9788472093478.
L. INFANTINO (1999). Ignoranza e libertà. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. p. 1-265. ISBN: 9788472093478.
L. INFANTINO (1998). Individualism in Modern Thought. LONDON-NEW YORK: ROUTLEDGE. p. 1-230. ISBN: 9780415185240.
L. INFANTINO (1998). Studi di filosofia, politica ed economia. In: , p. 1-619. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788872846629.
L. INFANTINO (1998). Metodo e mercato. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. p. 1-201. ISBN: 9788872846995.
L. INFANTINO (1997). Concorrenza e imprenditorialità. In: , p. 1-390. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788872845455.
L. INFANTINO (1997). I fallimenti dello stato interventista. In: , p. 1-399. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788872845844.
L. INFANTINO (1996). Autobiografia di un liberale. In: , p. 1-215. SOVERIA MANNELLI: RUBBETTINO. ISBN: 9788872845066.

IL FESTIVAL DELLA CULTURA DELLA LIBERTA’ 2021 ESCLUSIVAMENTE IN DIRETTA STREAMING

Cari amici, vi invito a seguire il programma, che trovate qui di seguito, del Festival della cultura della Libertà organizzato dall’Associazione dei Liberali piacentini “Luigi Einaudi” di cui è socio fondatore e dirigente l’insigne avv. Corrado Sforza Fogliani.

————– ASSOCIAZIONE DEI LIBERALI PIACENTINI “LUIGI EINAUDI” ——-

Piacenza 2021: Festival della cultura della libertà
In collaborazione con “Il Foglio”
TEMA: “Quali strategie per la libertà? Dalla cultura alla politica, dall’imprenditoria al diritto”
IL FESTIVAL DELLA CULTURA DELLA LIBERTA’ 2021 ESCLUSIVAMENTE IN DIRETTA STREAMING

Non si terrà in presenza ma esclusivamente in diretta streaming – stante il perdurare delle misure di contenimento della pandemia – l’annunciato “Festival della cultura della libertà-Liberi di scegliere” che si svolgerà il 30 e 31 gennaio a Palazzo Galli (via Mazzini 14, Piacenza), gentilmente concesso dalla Banca di Piacenza. L’edizione numero cinque – organizzata come sempre dall’Associazione dei Liberali Piacentini Luigi Einaudi in collaborazione con Confedilizia, Il Foglio ed European students for liberty – verterà sul tema “Quali strategie per la libertà? Dalla cultura alla politica, dall’imprenditoria al diritto”.
Per assistere alle dieci sessioni in cui si articola il programma del Festival (più la sessione plenaria, le singole lectio magistralis e i momenti di apertura e chiusura), gli interessati dovranno collegarsi ai siti www.liberalipiacentini.com , www.culturadellaliberta.com o www.confedilizia.it dove troveranno i link dedicati.

ANTEPRIMA IN DIRETTA STREAMING
Anche l’anteprima del Festival – venerdì 29 gennaio, sempre a Palazzo Galli, Sala Panini, alle ore 18 – si svolgerà in diretta streaming. In programma la presentazione del volume “Sicurezza e libertà, un rapporto irrisolto” di Corrado Ocone (ed. Rubbettino). Il libro verrà illustrato dall’autore in dialogo con Carlo Lottieri.

IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL IN DIRETTA STREAMING
Ricco come sempre di argomenti stimolanti e relatori d’eccezione il programma messo a punto dal direttore scientifico del Festival Carlo Lottieri.

Sabato 30 gennaio, in Sala Panini (10.30-11.00), previsti i saluti di Corrado Sforza Fogliani e Claudio Cerasa nonché degli studenti dell’European students for liberty. La I sessione (11-12.30) verterà sul tema “Trent’anni di editoria a difesa della libertà. Un bilancio”, con Florindo Rubbettino, Guglielmo Piombini e Michele Silenzi. A seguire (12.30 -13) lectio magistralis di Luigi Marco Bassani sul tema “Ciò che è vivo e ciò che è morto del liberalismo”. Dopo la pausa pranzo, sessioni in contemporanea: la II (ore 15.15-17, “Costruire una rete, diffondere le idee. Associazioni e think-tank per la libertà”, con Alessio Cotroneo, Stefano Magni, Alberto Mingardi, Enrico Morbelli e Rossella Pace e la III (ore 17.15-19, “Fare politica al tempo del Covid-19: tra sospensione delle libertà ed espertocrazia”, con Daniele Capezzone, Roberto Festa, Aurelio Mustacciuoli e Carlo Stagnaro) in Sala Panini; la IV (ore 15.15-17, “Come amministrare? Ipotesi a confronto”, con Gimmi Distante, Lorenzo Maggi, Paolo Pamini e Andrea Zoppolato) e la V (ore 17.15-19, “Strategie territoriali, autogoverno, libertà”, con Roberto Brazzale, Dario Ciccarelli, Carlo Lottieri e Francesco Mascellino) in Sala Verdi.

Domenica 31 gennaio in Sala Panini, dalle 9 alle 10.45, la VI sessione si occuperà di “Giornali e mass-media. Che fare?”; al tavolo dei relatori Luciano Capone, Alessandro De Nicola, Oscar Giannino, Alessandro Gnocchi e Pierluigi Magnaschi). Tra le 11 e le 11.45, sessione VII incentrata su “Le associazionoi di categoria: tutela di legittimi interessi, logiche autoreferenziali, parassitismo parastatale”, con Giorgio Spaziani Testa, Adriano Teso e Alessandro Trentin. In contemporanea, in Sala Verdi, sessione VIII (ore 9-10.45, “Usare l’ordinamento e le azioni legali a tutela delle nostre libertà. Esempi e prospettive”, con Silvio Boccalatte, Giorgio Fidenato, Cesare Galli e Pio Marconi) e sessione IX (ore 11-12.45, “Agire per la libertà: dentro la Chiesa e con la Chiesa”, relatori Emanuele Boffi, Beniamino Di Martino, Luca Diotallevi e Andrea Favaro).
In Sala Panini, alle ore 12.45, sessione plenaria con la lectio magistralis di Sergio Belardinelli sul tema “Natura umana, virtù, libertà”.
Dopo la pausa pranzo, ultima sessione (la X, sempre in Sala Panini, a partire dalle 15.15) con focus su “Le idee di libertà e l’accademia”, con Raimondo Cubeddu, Francesco Forte e Lorenzo Infantino).
Alle 17 conclusioni affidate, come sempre, a Corrado Sforza Fogliani.
Informazioni: www.liberalipiacentini.com – www.culturadellaliberta.com
culturadellaliberta@festivalpiacenza.it
21.01.’21

IV Conversazione in diretta streaming su sulla pagina Facebook “Reagire per le Libertà” Venerdì 22 gennaio 2021 dalle 18.00. Tema dell’evento “Proprietà e Risparmio” con Corrado Sforza Fogliani, Tommaso Romano e Antonino Sala

Cari amici, potete rivedere il video della IV conversazione in diretta streaming sulla pagina Facebook “Reagire per le Libertà” di Venerdì 22 gennaio 2021 sul tema “Proprietà e Risparmio” con Corrado Sforza Fogliani e Tommaso Romano e coordinata da me, al seguente link:
Buona visione.
Antonino Sala

IV Conversazione in diretta streaming su sulla pagina Facebook “Reagire per le Libertà” Venerdì 22 gennaio 2021 dalle 18.00. Tema dell’evento “Proprietà e Risparmio” con Corrado Sforza Fogliani, Tommaso Romano e Antonino Sala

Cari amici, vi invito a seguire la IV Conversazione in diretta streaming sulla pagina Facebook “Reagire per le Libertà” venerdì 22 gennaio 2021 dalle 18.00. Tema dell’evento “Proprietà e Risparmio”; intervengono Corrado Sforza Fogliani e Tommaso Romano. Coordina il sottoscritto.

Ecco il link: https://www.facebook.com/reagireperleliberta

Ecco una breve nota biografica di Corrado Sforza Fogliani

E’ vice Presidente ABI (Associazione bancaria italiana) e componente del Comitato di presidenza; Presidente dell’Associazione nazionale delle Banche Popolari; è stato dal 1991al 2016 Presidente di Confedilizia, è attualmente Presidente del Centro Studi dello stesso ente e membro del Comitato di Presidenza; è stato Presidente dal 1986 al 2012 della Banca di Piacenza, di cui attualmente è Presidente d’ Onore e componente del Consiglio d’Amministrazione e del Comitato esecutivo. Avvocato cassazionista, giornalista pubblicista e autore di testi giuridici.

Come si autodefinisce lui “Liberale di natura, libertario per forza di cose”.

III Conversazione in diretta streaming: “Benedetto Croce: carattere civile e libertà” con Giancristiano Desiderio e Tommaso Romano. Coordina Antonino Sala.

Reagire simbolo
Cari amici, potete rivedere il video della III conversazione in diretta streaming sulla pagina Facebook “Reagire per le Libertà” di Venerdì 15 gennaio 2021 sul tema “Benedetto Croce: carattere civile e libertà” con Giancristiano Desiderio e Tommaso Romano e coordinata da me, al seguente link:

Statolatrismo, Utopismo, Gnosticismo: il vero volto del marxismo. Auguri di buon anno.

Cari amici, nell’augurarvi un buon 2021 ricco di grazie e benedizioni celesti, vi consegno un’ulteriore personale riflessione che spero possa interessarvi.

Ancora auguri a voi e alle vostre famiglie e che San Michele arcangelo ci protegga e ci guidi.

 

Statolatrismo, Utopismo, Gnosticismo: il vero volto del marxismo.

“Anassagora per primo disse che il Nous fece il mondo; ma solo con la Rivoluzione francese l’uomo giunge a riconoscere che il pensiero deve governare la realtà spirituale. Questa fu un inizio glorioso celebrato da tutti gli esseri pensanti. Una nobile commozione dominò quel periodo, un entusiasmo dello spirito scosse il mondo, come se finalmente fosse avvenuta una conciliazione del divino col mondo.” (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia,1837).

 

“Lo Stato è il mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo. Come Cristo è il mediatore che l’uomo carica di tutta la sua divinità, di tutto il suo pregiudizio religioso, così lo Stato è il mediatore nel quale egli trasferisce tutta la sua mondanità, tutta la sua spregiudicatezza umana.” (Karl Marx, Sulla questione ebraica, 1844).

 

“Finora la ragione e la giustizia effettive non hanno regnato nel mondo perché non le si era intese esattamente. Mancò l’uomo geniale (Marx) che ora è sorto e ha capito la verità; ed è apparso ora e solo ora la verità è nota per un puro caso fortuito anziché necessariamente in seguito allo sviluppo storico.” (Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1880)

 

 

Le tre citazioni  riportate sopra fanno immediatamente cogliere al lettore, quale sia il substrato che avvolge e ispira il pensiero marxista: l’idealismo hegeliano, in cui è il pensiero razionale, che si dipana attraverso la dialettica, forma la realtà ed essa al suo svolgersi deve uniformarsi, anzi è la razionalità stessa che produce ogni realtà, negando tutto ciò che da esso non può ovviamente promanare, come l’immaginazione o la spiritualità. La totalità immaginata da Hegel e poi ripresa da Marx è l’immenso prodotto di grovigli dialettici inesplicabili ed inspiegabili, ma che secondo loro autoproducono la realtà. C’è quasi un esoterismo di fondo in tutto questo ragionamento che impedisce all’uomo comune di capirne il perché, a cui è relegato solo il compito precipuo di adeguarsi in nome della fede in questo “grande” uomo, Marx, come appunto sottolinea Engels, che ha compreso tutto, anzi ha colto la verità, e l’ha resa fruibile a tutti gli altri esseri del cosmo. Un “alter Christus”, laico, laido e profano, che ha portato la sua rivelazione, a cui il popolo dei proletari deve obbedire per fede senza discutere, altrimenti, come vedremo successivamente, grazie a Lenin, a Mao e ai loro epigoni, il suo posto sarà quello di una grande fossa comune o di un bel “confortevole” gulag in Siberia o un campo di lavoro “democratico” in Cina per essere rieducato secondo la nuova verità comunista. La diretta conseguenza di un tale fideismo, dell’assoluta indiscutibilità delle tesi marxiane e dell’accettazione pedissequa dei suoi dettami, è stata quella di far passare come realizzabile l’idea utopistica di un paradiso in terra per i lavoratori. Certamente elaborata molto attentamente, grazie all’utilizzo di una retorica sofisticata e di una dialettica altrettanto complicata, impenetrabile dai più, ma molto sfruttabile dagli spregiudicati dirigenti politici che hanno poi messo in pratica “pro domo” alcune delle idee del filosofo tedesco.

Ma come scrisse Paul Claudel[1] “chi cerca di realizzare il paradiso in terra, sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile inferno.” Infatti le conseguenze dell’utopia marxista sono sotto gli occhi di tutti.

Va detto però che la nascita dell’idea di Utopia in generale, ha radici più antiche di Marx, il termine fu coniato con l’accezione attuale da Tommaso Moro, infatti compare come titolo della sua opera Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia del 1516, nella quale descrive un’immaginaria isola-regno in cui è instaurata una società ideale retta dal un “principe” saggio. L’etimologia viene dal greco οὐ (“non”) e τόπος (“luogo”) che significa “non-luogo” unitamente al un gioco di parole con l’omofono inglese “eutopia”, derivato dal greco εὖ (“buono” o “bene”) e τόπος (“luogo”), che vuol dire “buon luogo”, e quindi avendo un identico suono in lingua inglese gli studiosi sostengono che l’isola di Tommaso Moro abbia il significato di luogo buono o bello ma irraggiungibile. L’opera si divide in due libri: città reale e città perfetta. Nella prima l’autore fa un’analisi sulla situazione politica ed economica dell’Inghilterra del suo tempo; nella seconda descrive il regno immaginario di di Utopia, dove la proprietà privata è vietata per legge ed i beni sono in comune, il commercio non esiste; tutto il popolo viene impegnato a lavorare la terra circa sei ore al giorno; dove non mancano leggi liberticide specialmente in materia sessuale e matrimoniale; dove, anche se vige la libertà di culto, la maggior parte dei saggi predilige la divinità chiamata Mitra che, secondo le leggende, ha creato l’intero universo e coincide con la natura. Mitra è un’antica divinità persiana, dio del sole, dell’onestà, dell’amicizia e dei contratti, famoso tra gli gnostici e probabilmente è per questa motivazione che viene nominato da Moro. La città è progettata in maniera tale che tutti gli edifici siano costruiti in egual modo, in cui la schiavitù è riservata per chi commette dei reati, e dove è pianificato anche il numero dei figli, come nella Cina attuale, i quali verranno “allevati” in sale comuni come polli in batteria. Non vi sembri strano che tutti i regimi che si ispirano a inverosimili utopie paradisiache terraquee finiscano poi tutti a realizzare perfetti lager dove imprigionare l’uomo e dove una burocrazia asfissiante pervade tutti gli aspetti della vita, a cominciare da quelli affettivi. Ma anche Tommaso Moro a i suoi predecessori come per esempio Platone con la sua Repubblica dei filosofi, nella quale delineava uno stato di stampo collettivistico, caratterizzato dall’abolizione di ogni forma di proprietà privata, e da un totalitarismo che doveva regolare l’esistenza delle persone, la cui vita non conta nulla di per sé, se non in funzione della Repubblica, in cui era ammessa anche l’eugenetica, cosicché è lo stato a scegliere le persone da far sposare in modo tale da avere una discendenza perfetta, cosa che poi fu anche messa in pratica da Himmler per la scelta delle mogli delle sue SS. E’ stato Karl Popper con i due volumi de La società aperta e i suoi nemici usciti nel 1945 a Londra e tra 1973 e il 1974 in Italia grazie a Dario Antiseri, a smascherare questa impostazione totalitaria di Platone, ricevendone anche rimbrotti ed insulti dai pretoriani del pensiero unico totalitario, sol per il fatto che si metteva in discussione il dogma di uno stato retto da “illuminati”, che avendo capito tutto, ed in nome del bene comune,  avrebbero anche potuto tutto, Popper affermava infatti  “la lezione che noi dovremmo apprendere da Platone è esattamente l’opposto di quello che egli vorrebbe insegnarci…lo sviluppo stesso di Platone dimostra che la terapia che raccomandava è peggiore del male che tentava di combattere. Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra…”[2]

Stesse spinte utopistiche si erano manifestate in diverse epoche storiche, infatti secondo molti studiosi “tracce” di utopia si possono riscontrare anche in alcune opere di Aristofane, Plutarco, Ovidio e Orazio.

Subito dopo Utopia di Tommaso Moro, viene pubblicato La Città del Sole (1602) di Tommaso Campanella, La Nuova Atlantide (1622) di Francesco Bacone, Novae Solymae libri sex (1648) di Samuel Gott e altre opere minori.

Infatti alcuni testi successivi a quelli di Moro auspicavano una sorta di comunismo idealistico. Tra questi: Viaggio in Icaria (1840) di Étienne Cabet, La Razza Futura (1871) di Edward Bulwer-Lytton e Notizie da Nowhere (1890) di William Morris. Col passare del tempo la parola utopia assume il significato di “chimera”, “impossibile”, “irrealizzabile”ecc. Al contempo l’utopia diviene anche una critica della realtà, assumendo le caratteristiche di un’idea tesa al raggiungimento della felicità dei popoli. Questa idealizzazione ha portato allo sviluppo di una sorta di socialismo idealistico, che Marx definisce socialismo utopistico, considerato precursore del comunismo e dell’anarchismo, e di cui si possono annoverare le opere di Robert Owen, Saint-Simon, Fourier e altri minori.

Ma colui che è ritenuto il più importante utopista anarchico è Pierre Joseph Proudhon, il quale, tuttavia, ci appare per molti versi meno utopista di chi lo utopista lo aveva definito anche in maniera dispregiativa come  Marx.

«Guai, dice Proudhon, se arrivassimo a un tipo di società dove non ci fossero più contraddizioni, non ci fossero più conflitti, in cui tutti gli esseri fossero soddisfatti: verrebbe a mancare l’attenzione verso soluzioni migliori, l’attenzione verso il perfezionamento continuo della società. Proudhon, quindi, è senz’altro un critico del perfettismo, un critico del messianismo rivoluzionario, vale a dire dell’idea che qui ed ora, sulla terra, sia possibile trovare una organizzazione sociale tale per cui tutte le imperfezioni della condizione umana e tutte le imperfezioni della vita in comune siano, quasi magicamente, eliminate. Da questo punto di vista, Proudhon è senz’altro assai poco utopista. È molto più utopista Marx, proprio perché la meta finale di Proudhon e il modello di società che aveva in mente, tutto sommato, era un modello abbastanza realistico, che si basava su due idee fondamentali: 1) il mutualismo e l’autogestione 2) l’idea del federalismo» (Luciano Pellicani).

Continuando la nostra analisi ci imbattiamo in Joseph Déjacque che sosteneva che l’utopia è «un sogno non realizzato, ma non irrealizzabile» e grazie al progresso scientifico è possibile superare l’attuale civiltà, figlia della barbarie, esaurita da secoli di corruzioni, ed immaginare in un mondo futuro, che Déjacque colloca nel 2858, la realizzazione dell’«Utopia anarchica».

Ecco una descrizione della società utopica secondo i suoi canoni ideali: «Presso i figli di questo nuovo mondo, non vi è né divinità né papato, né regalità, né dei, re o preti. Non volendo essere schiavi, non vogliono padroni. Essendo liberi, hanno solo il culto della Libertà, così la praticano sin dall’infanzia e la professano in tutti i momenti, e fino agli ultimi istanti della vita. La loro comunione anarchica non ha bisogno di bibbie o di codici; ciascuno di essi porta in sé la sua legge e il suo profeta, il suo cuore e la sua intelligenza. Non fanno ad altri quello che non vorrebbero altri facessero a loro, e fanno agli altri ciò che vorrebbero altri facessero loro. Volendo il bene per sé, fanno il bene degli altri. Non volendo che si attenti alla loro libera volontà, non attentano alla libera volontà degli altri. Amando, amati, vogliono crescere nell’amore e moltiplicarsi attraverso l’amore. Uomini, restituiscono, centuplicato, all’Umanità ciò che, bambini, sono ad essa costati in cure; e al loro vicino, le simpatie che gli sono dovute: sguardo per sguardo, sorriso per sorriso, bacio per bacio e, al bisogno, morso per morso. Sanno che hanno una madre comune, l’Umanità, che sono tutti fratelli, e che la fraternità li obbliga. Hanno coscienza che l’armonia non può esistere se non con il concorso delle volontà individuali, che la legge naturale delle attrazioni è la legge degli infinitamente piccoli come degli infinitamente grandi, che nulla di ciò che è sociale può muoversi se non dalla società, che essa è il pensiero universale, l’unità delle unità, la sfera delle sfere, immanente e permanente nell’eterno movimento; e dicono: al di fuori dell’anarchia non vi è salvezza! E aggiungono: la felicità è del nostro mondo. E sono tutti felici, e tutti incontrano sul loro cammino le soddisfazioni che cercano. Bussano, e tutte le porte si aprono; la simpatia, l’amore, il piacere e le gioie rispondono ai battiti del loro cuore, alle pulsazioni del cervello, ai colpi di martello delle braccia; e, in piedi sulle soglie, salutano il fratello, l’amante, il lavoratore; e la Scienza, come un’umile schiava, li guida innanzi, nel vestibolo dell’Ignoto. […] In questa società anarchica, la famiglia legale e la proprietà legale sono istituzioni morte, geografie di cui si è perso il senso: una e indivisibile è la famiglia, una e indivisibile è la proprietà. In questa comunione fraterna, libero è il lavoro e libero è l’amore. Tutto ciò che è opera del braccio e dell’intelligenza, tutto ciò che è oggetto di produzione e di consumo, capitale comune, proprietà collettiva, appartiene a tutti e a ciascuno. Tutto ciò che è opera del cuore, tutto ciò che è essenza intima, sensazione e sentimento individuali, capitale particolare, proprietà corporale, tutto ciò che è uomo, infine, nella sua accezione propria, qualunque sia la sua età o il suo sesso, si appartiene[3]». Tutto questo per dire che queste istanze utopiche sono state sempre presenti nell’immaginario intellettuale rivoluzionario, tanto che ad esso si può associare Rousseau, che nel Contratto sociale ha avanzato idee di uguaglianza nei diritti e una certa centralizzazione del potere, ma anche altri tre pensatori che si sono caratterizzati per aver sostenuto l’abolizione della proprietà privata: Jean Meslier, Étienne-Gabriel Morelly e Dom Deschamps. Inoltre è pensabile che i movimenti ottocenteschi siano intrisi delle posizioni assunte da taluni con le lotte rivoluzionarie repubblicane, in particolare dall’esperienza della rivoluzione francese con il movimento dei Montagnardi e dei Sanculotti, ma anche con le rivolte contadine che dal Medioevo si ripetevano ciclicamente contro l’aristocrazia terriera; talvolta assumendo posizioni equalitariste.

Nel XIX secolo comunque nacque il socialismo di Robert Owen in Inghilterra, mentre in Francia il sansimonismo conquistava spazio come corrente politico-religiosa che divulgava il pacifismo e la comunione dei beni in una società che avrebbe dato a ogni individuo il ruolo a lui più congeniale. Nello stesso filone “utopico” si inserì Auguste Blanqui, e successivamente Pierre-Joseph Proudhon, il teorico dell’anarchia e del socialismo libertario, che Karl Marx definì socialista conservatore o borghese nel Manifesto del Partito Comunista, e gli altri “socialisti utopici” già citati.

In ogni caso possiamo trovare una certa analogia tra il socialismo originario e la matrice dell’illuminismo, sia in rapporto agli aspetti esteriori che connettono le due dottrine nei tratti unificanti della lotta all’oscurantismo e per l’emancipazione dell’umanità, sia in relazione alle corrispondenze di alcuni personaggi in entrambi i contesti, come Filippo Buonarroti e Adam Weishaupt.

Il termine socialismo utopistico, venne coniato da Marx per distinguere e contrapporre il suo socialismo scientifico, che voleva essere incentrato su basi logiche, storiche, sociali ed economiche rigorose, certe e verificate (da lui), ma che però né preparò l’avvento.

La presenza di un utopica via della felicità per il proletariato è stato sempre presente nel socialismo, con tutte le conseguenze del caso, da lì il passo è stato breve verso forme di governo assolutiste perchè è stato subito chiaro, anche allo stesso Marx, che per realizzare questo suo paradiso in terra, bisognava espiantare con la violenza tutto ciò che era naturale, come la religiosità, la libertà di pensiero, la proprietà privata, la famiglia, che lui voleva destrutturata, soprattutto con l’uso sistematico della violenza, di cui si doveva far carico lo stato contro ogni possibile impedimento. Infatti uno dei migliori e terribili interpreti dell’uso della violenza ad uso politico fu Lenin, che riuscì a demolire l’Impero degli Zar e a sostituirlo con un ben più atroce regime comunista.

Marx aveva inoltre lanciato la sua crociata contro ogni religione, definita “oppio dei popoli”, vedendo in essa un ostacolo alla liberazione del proletariato, una di quelle sovrastrutture artificiali che tenevano il lavoratore schiavo del sistema. E per potersi affrancare da essa, pensa, che debba essere sempre lo Stato ad intervenire per sradicarla dal cuore degli uomini, non solo con la soppressione ma anche con l’annientamento. Scrive infatti nel 1844 “ma il comportamento dello Stato verso la religione, e particolarmente dello Stato libero, non è tuttavia altro che il comportamento degli uomini che formano lo Stato, verso la religione. Ne consegue che l’uomo per mezzo dello Stato, politicamente, si libera di un limite, innalzandosi oltre tale limite, in contrasto con se stesso, in un modo astratto e limitato, in un modo parziale. Ne consegue inoltre che l’uomo, liberandosi politicamente, si libera per via indiretta, attraverso un mezzo, anche se un mezzo necessario. Ne consegue infine che l’uomo, anche se con la mediazione dello Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre implicato religiosamente, appunto perché riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un mezzo. La religione è appunto il riconoscersi dell’uomo per via indiretta. Attraverso un mediatore.(…..) Hegel definisce perciò molto esattamente il rapporto dello Stato politico con la religione, quando dice: “Affinché lo Stato giunga ad esistere come la realtà morale autocosciente dello spirito, è necessario che esso si distingua dalla forma dell’autorità e della fede; ma tale distinzione compare solo in quanto la parte ecclesiastica in se stessa perviene alla separazione; soltanto così al di sopra delle Chiese particolari lo Stato ha ottenuto l’universalità del pensiero, il principio della sua forma, e le dà esistenza” (Hegel, Filosofia del diritto, I ed., p. 346). Certamente! Solo così, al di sopra degli elementi particolari, lo Stato si costituisce come universalità. (….) Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita dell’uomo come specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera dello Stato, nella società civile, ma come caratteristiche della società civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si afferma come comunità, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. Lo Stato politico si comporta nei confronti della società civile in modo altrettanto spiritualistico come il cielo nei confronti della terra. Rispetto ad essa si trova nel medesimo contrasto, e la vince nel medesimo modo in cui la religione vince la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla, restaurarla e lasciarsi da essa dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile; l’uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato, dove l’uomo vale come specie, egli è il membro immaginario di una sovranità fantastica, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una universalità irreale. (….)lo Stato può e deve procedere fino alla soppressione della religione, fino all’annientamento della religione, ma solo così come procede alla soppressione della proprietà privata, al massimo, con la confisca, con l’imposta progressiva, come procede alla soppressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti del suo particolare sentimento di sé, la vita politica cerca di soffocare il suo presupposto, la società civile e i suoi elementi, e di costituirsi come la reale e non contraddittoria vita dell’uomo come specie. Essa può questo, nondimeno, solo attraverso una violenta contraddizione con le sue proprie condizioni di vita, solo dichiarando permanente la rivoluzione, e il dramma politico finisce perciò altrettanto necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi della società civile, così come la guerra finisce con la pace. (….)I membri dello Stato politico sono religiosi attraverso il dualismo tra la vita individuale e la vita della specie, tra la vita della società civile e la vita politica, religiosi in quanto l’uomo si comporta verso la vita statale posta al di là della sua vera individualità come verso la sua vita vera, religiosi nella misura in cui la religione è qui lo spirito della società civile, l’espressione della separazione e dell’allontanamento dell’uomo dall’uomo. La democrazia politica è cristiana perché in essa l’uomo, non soltanto un uomo ma ogni uomo, vale come essere sovrano, come essere supremo; si tratta però dell’uomo nella sua forma fenomenica non educata, non sociale, l’uomo nella sua esistenza casuale, l’uomo come vive e cammina, l’uomo guastato qual è da tutta l’organizzazione della nostra società, perduto, fatto estraneo a se stesso, posto sotto il dominio di rapporti ed elementi disumani, in una parola, l’uomo che non è ancora un reale essere della sua specie. La finzione della fantasia, il sogno, il postulato del cristianesimo, la sovranità dell’uomo, ma in quanto ente estraneo, differente dall’uomo reale, nella democrazia è realtà sensibile, presenza, massima mondana[4].”

Ed anche la famiglia, come la religione, va demonizzata in quanto nata dalle stesse condizioni, a detta di Engels, dalla sopraffazione e dallo sfruttamento che in essa si perpetua al suo interno come nella società a causa della proprietà privata, l’unica vera ossessione del tedesco, in cui l’uomo è il capitalista e la donna riveste il ruolo del proletariato, e pertanto va eliminata in forma monogamica e come primo operatore economico della società. Vista questa premessa, l’unione dei coniugi essendo diseguale sul piano economico, va riequilibrata eliminando la proprietà privata e così magicamente tutto andrebbe a posto pensavano i due tedeschi. Scrive Engels né L’origine della famiglia, della proprieta privata e dello Stato “la moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata, e la società moderna è una massa composta nella sua struttura molecolare da un complesso di famiglie singole. Al giorno d’oggi l’uomo, nella grande maggioranza dei casi, deve essere colui che guadagna, che alimenta la famiglia, per lo meno nelle classi abbienti; il che gli dà una posizione di comando che non ha bisogno di alcun privilegio giuridico straordinario. Nella famiglia egli è il borghese, la donna rappresenta il proletario. Nel mondo dell’industria lo specifico carattere dell’oppressione economica gravante sul proletariato, spicca in tutta la sua acutezza soltanto dopo che tutti i privilegi legali particolari della classe capitalistica sono stati eliminati, e dopo che la piena eguaglianza di diritti delle due classi è stata stabilita in sede giuridica. La repubblica democratica non elimina l’antagonismo tra le due classi: offre al contrario per prima il suo terreno di lotta. E così anche il carattere peculiare del dominio dell’uomo sulla donna nella famiglia moderna, e la necessità, nonché la maniera, di instaurare un’effettiva eguaglianza sociale dei due sessi, appariranno nella luce più cruda solo allorché entrambi saranno provvisti di diritti perfettamente eguali in sede giuridica. Apparirà allora che l’emancipazione della donna ha come prima condizione preliminare la reintroduzione dell’intero sesso femminile nella pubblica industria, e che ciò richiede a sua volta l’eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità economica della società[5].”

Né è talmente convinto che in frammento scritto a mano pubblicato postumo per la prima volta a Mosca nel 1937 (prima edizione russa delle opere di Marx ed Engels, Vol. XVI, parte 1), pare correlato al capitolo IX de L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato scrive “le associazioni che si sono avute finora (naturali o artificiali) esistevano sostanzialmente per fini economici, ma tali fini erano celati e sepolti sotto fatti ideologici secondari. La polis antica, la città o corporazione medioevali, la lega feudale della nobiltà terriera, tutte ebbero fini ideologici secondari che santificavano e che, nell’associazione di stirpe dei patrizi e nella corporazione derivavano (quanto nella polis antica) da ricordi, tradizioni e ideali della società gentilizia. Le società mercantili capitalistiche sono le prime affatto disincantate e pragmatiche… ma meschine. L’associazione del futuro unirà la sobrietà di queste ultime con la sollecitudine per il bene comune della società di quelle antiche, e soddisferà così il suo fine.” Riconoscendo però di fatto i pregi dei due modelli sociali che avevano permesso un autentico progresso umano fondati sul diritto naturale e non sulle costruzioni artificiali della filosofia hegeliana di cui sia lui che Marx sono figli.

La verità è che dietro queste costruzioni c’è per dirla con Erik Voegelin “il mito del mondo nuovo”, ed anche “dell’uomo nuovo”, idea presente in altre aberrazioni totalitarie del XX sec., che rifiuta il “vecchio” o meglio tradizionale modello di vita per afferrarne un altro basato sulla lotta di classe, lo stravolgimento dei rapporti sociali e sulla condanna senza appello di tutto ciò che si era costruito sulla natura umana. Tutto questo prese poi forma concreta nei totalitarismi del XX sec. in cui lo Stato si assunse la responsabilità di negare ogni diritto individuale, come quello alla proprietà privata, per ri-formare tutta la realtà come proiezione delle elucubrazioni pseudo scientifiche di Marx ed Engels.

Voegelin ha identificato diverse analogie ideologiche fra l’antico gnosticismo e nazismo e comunismo. Il filosofo ha considerato essere la radice dello gnosticismo un impulso all’alienazione intesa come senso di disconnessione con il mondo e come credenza profonda di un male o di un disordine intrinseco del mondo che sia causa di questo senso di estraneità al mondo stesso, secondo l’antica eresia per cui il Dio creatore del mondo era un Deus malignus oppure un padre sia del bene che del male (come nel Manicheismo). Tale alienazione ha due effetti evidenti, cioè la necessità di trascendere il mondo malvagio attraverso l’introspezione, la cultura o la conoscenza scientifica in quanto mezzo di trasformazione delle natura «corrotta», e ciò può essere sia in senso tecnico-biologico (come nell’ideologia eugenetica o nel transumanesimo) che in senso politico (come nel marxismo).

La conseguenza dello gnosticismo moderno, individuato da Voegelin, è il desiderio di creare un ordine politico che instauri una forma di «paradiso terrestre» nella storia, inteso ciò come un «paradiso senza Dio», che secondo i fondamenti gnostici è realizzabile dall’uomo. Tale è ciò che Voegelin ha definito immanentizzazione. Così l’egualitarismo, inteso come dottrina che tenta di appianare le differenze naturali, è per Voegelin una dottrina gnostica che considera malvagia la natura che da all’uomo il diritto di eliminare culturalmente tali differenze, facenti parte dell’ordine fisico, psichico, cosmico ed erotico.

Così Voegelin vede nei totalitarismi del XX i punti di compimento più coerenti dello gnosticismo in quanto tentativi di trasformare il mondo (come recitava Marx) attraverso la politica, che quindi ha assunto in tali ideologie un carattere mistico o cosmopoietico parallelamente ai suoi protagonisti che hanno assunto un carattere divino o semi-divino. Tale è inoltre, secondo Voegelin, l’unico vero senso del termine «totalitarismo», che appunto si distingue dalla mera «tirannia» in quanto quest’ultima è solo un regime politico della forza o della violenza, mentre l’altro è una sorta di teocrazia ove Dio trascendente è stato immanentizzato nell’uomo o in alcuni uomini, e che per questo motivo è particolarmente avverso a ogni religione rivelata.

Scrive Voegelin “Dicendo movimenti gnostici intendiamo riferirci a movimenti come il progressismo, il positivismo, il marxismo, la psicanalisi, il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo.(…)

Ai nostri fini, più importanti delle definizioni e delle questioni relative alla genesi di questi movimenti gnostici, sono le caratteristiche grazie alle quali possiamo legittimamente qualificarli come tali. Elenchiamo dunque le sei caratteristiche che nel loro insieme rivelano la natura dell’atteggiamento gnostico.

1) In primo luogo bisogna sottolineare che lo gnostico è insoddisfatto della sua

situazione.  Ciò di per sé non è particolarmente sorprendente: noi tutti abbiamo motivi per non essere completamente soddisfatti di questo o quell’aspetto della situazione nella quale ci troviamo.

2) Non altrettanto comprensibile è il secondo aspetto dell’atteggiamento gnostico: cioè la convinzione che le difficoltà della sua situazione possano essere attribuite al fatto che il mondo ha una struttura intrinsecamente deficiente. Infatti è egualmente possibile ritenere che l’ordine dell’essere, quale è dato a noi uomini (qualunque possa esserne l’origine), è buono e che l’inadeguatezza è in noi, esseri umani. Ma gli gnostici non sono disposti a scoprire tale inadeguatezza negli esseri umani in generale e in se stessi in particolare. Se, in una data situazione, qualcosa non è come dovrebbe essere, la causa, secondo gli gnostici, si deve trovare sempre nella perversità del mondo.

3) La terza caratteristica sta nel credere che sia possibile salvarsi dal male del mondo.

4) Da ciò deriva la convinzione che l’ordine dell’essere dovrà essere cambiato nel corso di un processo storico. Da un mondo cattivo deve emergere, per evoluzione storica, un mondo buono. Questa supposizione non è affatto evidente di per sé, potendosi ad essa contrapporre, per esempio, la soluzione cristiana, secondo la quale il mondo, attraverso la storia, e destinato a restare quale è, mentre la salvezza completa dell’uomo si realizza solo con la morte, mediante la grazia.

5) Con questo quinto punto arriviamo alla caratteristica tipica dello gnosticismo nel senso più stretto: la convinzione cioè che un mutamento nell’ordine dell’essere rientri nell’ambito dell’azione umana, che questo atto salvifico sia possibile grazie agli sforzi personali dell’uomo.

6) Quindi, se è possibile realizzare nell’ordine dell’essere un mutamento strutturale così completo da trasformarlo in un ordine perfetto di nostra piena soddisfazione, il dovere che si impone allo gnostico è quello di cercare la ricetta atta a determinare tale mutamento. La conoscenza – gnosi – del metodo per trasformare l’essere costituisce la preoccupazione centrale dello gnostico. Quindi, la sesta caratteristica dell’atteggiamento gnostico consiste nella costruzione di una formula per la salvazione dell’io e del mondo, accompagnata dall’atteggiamento profetico tipico dello gnostico, il quale proclama di conoscere i mezzi per salvare il genere umano. Questi sei tratti caratterizzano dunque l’essenza dell’atteggiamento gnostico. Nelle loro varianti essi si riscontrano in ciascuno dei movimenti citati. Per potersi esprimere adeguatamente, l’atteggiamento gnostico ha prodotto un ricco e multiforme simbolismo nei moderni movimenti di massa.(…)

Dalla profusione di esperienze e di espressioni simboliche gnostiche si può isolare una componente quale elemento centrale di questa varia ed ampia creazione di significato: l’esperienza del mondo come una terra “straniera” nella quale l’uomo si è smarrito e deve ritrovare la strada che lo riconduca alla sua vera patria. all’altro mondo della sua origine……L’uomo gnostico non desidera più contemplare con animo pieno di ammirazione l’ordine intrinseco del cosmo. Per lui il mondo è diventato una prigione dalla quale vuole fuggire…..Se l’uomo dev’essere liberato dal mondo, la possibilità di liberazione deve realizzarsi prima di tutto nell’ordine dell’essere. Nell’ontologia dello gnosticismo antico ciò trova attuazione mediante la fede nel Dio “straniero” e “nascosto”, che viene in aiuto dell’uomo, che gli manda i suoi messaggeri e gli mostra la via di evasione dalla prigione del Dio malvagio di questo mondo (sia egli Zeus o Geova o uno degli altri antichi dèi padri). Nello gnosticismo moderno ciò trova attuazione mediante l’idea di uno spirito assoluto che nello svolgimento dialettico della coscienza procede dall’alienazione alla coscienza di sé; o mediante l’idea di un processo dialettico-materiale naturale che nel suo corso porta dall’alienazione prodotta dalla proprietà privata e dalla credenza in Dio alla libertà di un’esistenza pienamente umana; o mediante l’idea di una volontà naturale che trasforma l’uomo in superuomo. Tuttavia, nell’ambito della possibilità ontica, l’uomo gnostico deve compiere lui stesso l’opera della salvazione….Come abbiamo accennato, è venuto alla luce un fenomeno ignoto all’antichità, che permea di sé le nostre società moderne in maniera così totale che la sua ubiquità non ci da quasi la possibilità di renderci conto di esso: il divieto di fare domande….In questo caso, invece, ci troviamo di fronte a persone le quali sanno benissimo che e perché le loro opinioni non possono reggere all’analisi critica e, quindi, fanno del divieto dell’esame delle loro premesse una parte essenziale del proprio dogma. Il fenomeno nuovo consiste appunto in questa condizione di consapevole, deliberata e sapientemente elaborata ostruzione della ratio….

Marx è uno gnostico speculativo. Egli concepisce l’ordine dell’essere come un processo naturale in se stesso completo. La natura è in uno stato di divenire e nel corso del suo sviluppo ha prodotto l’uomo. “L’uomo è direttamente un essere di natura”. Nello sviluppo della natura un ruolo speciale compete all’uomo. Questo essere, che è esso stesso natura, si erge anche sopra e contro la natura, e l’assiste nel suo sviluppo con il lavoro umano; lavoro che, nella sua forma più alta, è tecnologia e industria fondata sulle scienze naturali: “La natura quale si sviluppa nella storia umana…,quale si sviluppa attraverso l’industria… è vera natura antropologica”. Nel processo di creazione della natura, tuttavia, l’uomo crea, nel medesimo tempo, se stesso nella pienezza del proprio essere; quindi, “tutta la cosiddetta storia universale non è altro che la produzione dell’uomo ad opera del lavoro umano”. L’obiettivo di questa speculazione è quello di dissociare il processo dell’essere dall’essere trascendente e di fare dell’uomo la creazione dell’uomo stesso. Questo risultato è ottenuto mediante un gioco di equivoci in cui “natura” è ora l’essere che tutto comprende in sé, ora la natura in contrapposizione all’uomo, ora la natura dell’uomo nel senso di essentia. Questo equivoco gioco di parole giunge al suo culmine in una frase alla quale è facile non dare tutta l’importanza che merita: “Un essere che non ha la propria natura fuori di se non è un essere naturale; esso non partecipa dell’essere della natura”…A tali interrogativi, fondati sull’esperienza “tangibile” secondo la quale l’uomo non esiste di per sé ,Marx preferisce rispondere che essi sono “un prodotto dell’astrazione”. “Quando s iindaga sulla creazione della natura e dell’uomo”, dice, “si fa astrazione dalia natura e dall’uomo”. La natura e l’uomo sono reali soltanto come Marx li concepisce Nell asua speculazione. Se il suo interlocutore sostenesse la possibilità della loro non esistenza, Marx non potrebbe dimostrare che essi esistono.

In realtà, la sua costruzione crollerebbe di fronte a questa domanda, E Marx come esi cava d’impiccio? Egli suggerisce al suo interlocutore: “Rinuncia alla tua astrazione e rinuncerai anche alla tua domanda”. Se l’interlocutore fosse coerente ,dice Marx, dovrebbe pensare se stesso come non esistente, anche se, nell’atto stesso di interrogare, egli è. Di qui, di nuovo l’ingiunzione: “Non pensare, non farm idomande”.

L’uomo comune, tuttavia, non è obbligato ad accettare il sillogismo di Marx e a pensare se stesso come non esistente perciò è consapevole del fatto di non esistere e di per sé. In realtà, Marx, pur ammettendo questo punto, preferisce no napprofondirlo. Invece chiude il dibattito dichiarando che “per l’uomo socialista” – cioè per l’uomo che ha accettato la concezione di Marx del processo dell’essere e della storia – tale interrogativo “diventa un’impossibilità pratica”, Gli interrogativo idell’uomo comune sono così troncati dall’ukase del pensatore che non vuole permettere che la sua costruzione sia messa in pericolo. Quando parla l’uomo “socialista”, l’uomo deve stare zitto.

Questa è dunque la testimonianza dalla quale dobbiamo prendere le mosse. Ma, prima di affrontare l’analisi, dobbiamo mettere anzitutto in chiaro che il divieto marxiano di fare domande non è un fenomeno isolato né innocuo. Non era isolato onella sua stessa epoca, poiché troviamo lo stesso divieto in Comte, nella prima

Lezione del suo Cours de philosophie positive .Anche Comte prevede possibili obiezioni alla sua concezione e le respinge brutalmente come questioni oziose. Per il momento egli si interessa solo delle leggi idei fenomeni sociali. Chiunque proponga interrogativi sulla natura, sulla vocazione e sul destino dell’uomo può essere temporaneamente ignorato; successivamente ,dopo che il sistema del positivismo si sarà imposto nella società, persone siffatte saranno messe a tacere con misure appropriate. Ma il divieto di fare domande no nè neppure innocuo, perché ha raggiunto grande efficacia sociale fra uomini che si interdicono di fare domande in situazioni critiche. Viene in mente, a questo proposito, l’osservazione di Rudolf Hoss, il comandante del campo di sterminio di Auschwitz.

Quando gli chiesero perché non si era rifiutato di obbedire all’ordine di organizzare eesecuzioni in massa, rispose: “A quell’epoca non mi lasciavo andare a riflessioni: avevo ricevuto un ordine e dovevo eseguirlo… Credo che a nessuno, fra le migliaia adi capi delle SS, sarebbe potuta passare per la testa un’idea simile. Qualcosa del genere era assolutamente impossibile”. È un’affermazione molto simile alla dichiarazione di Marx secondo la quale per l’ “uomo socialista” una domanda de lgenere “diventa un’impossibilità pratica”. Così, noi vediamo delineati tre tipi umani fondamentali per i quali un interrogativo umano è diventato un’impossibilità àpratica: l’uomo socialista (nel senso marxiano), l’uomo positivista (nel senso comtiano) e l’uomo nazionalsocialista.

Prendiamo ora in considerazione questa soppressione marxiana delle domande.

Essa rappresenta, come vedremo, un fenomeno psicologico estremamente ecomplicato, e dobbiamo via via isolare in esso ciascuna delle sue componenti. In primo luogo, la più “tangibile “: ci troviamo qui di fronte a un pensatore che s abenissimo che la sua costruzione è destinata a crollare non appena viene formulata la domanda filosofica fondamentale. Questa consapevolezza lo induce forse a dabbandonare la sua indifendibile costruzione? Nient’affatto: essa lo spinge semplicemente a vietare che siffatte domande siano formulare. Ma questo divieto ci induce a chiederci: Marx era forse un truffatore intellettuale? Una domanda del genere solleverà forse delle obiezioni. Si può seriamente credere che il lavoro o dell’intera vita di un pensatore di notevole livello possa essere fondato su una truffa intellettuale? Un lavoro basato su una truffa avrebbe potuto attrarre una massa di seguaci e diventare una forza politica mondiale? Ma noi oggi siamo abituati a dubbi del genere: abbiamo visto troppe cose improbabili e incredibili diventar erealtà. Quindi, non esitiamo né a porre la domanda che l’evidenza stessa ci suggerisce né a rispondere: sì, Marx era un truffatore intellettuale……Hegel elimina questo interrogativo dichiarando che la verità della sua “opinione” risulta dimostrata se egli riesce a giustificarla “attraverso l’esposizione del sistema”. Se, dunque, io posso costruire un sistema, la verità della premessa né risulta provata; il fatto che io possa costruire un sistema su una premessa falsa non è neppure preso in considerazione. Il sistema è giustificato dal fatto di veni rcostruito; la possibilità di sollevare obiezioni sulla costruzione di sistemi in quanto tale non è ammessa. Che la forma della scienza sia il sistema è un principio che e dev’essere accettato senza discussione.

Qui ci troviamo di fronte allo stesso fenomeno della soppressione delle domande che abbiamo incontrato in Marx. Ma ora vediamo più chiaramente che esiste una connessione essenziale fra la soppressione delle domande e la costruzione di un sistema. Chiunque riduce l’essere a un sistema non può ammettere domande che non ritengano validi i sistemi come forma di ragionamento.”…..Marx in questo modo afferma che la sua costruzione del processo dell’essere (che comprende il processo storico) rappresenta la realtà. Egli prende l’evoluzione storica dell’uomo in uomo socialista – che è parte della sua costruzione concettuale e- e la inserisce nei suoi rapporti con gli altri; sollecita l’uomo che dubita dei presupposti del suo sistema a entrare nel sistema e a subire l’evoluzione che esso prescrive. Nello scontro fra sistema e realtà è la realtà che deve cedere. La truffa intellettuale è giustificata mediante il rinvio alle esigenze del futuro storico che il pensatore gnostico ha speculativamente proiettato nel suo sistema.

Non basta, dunque, sostituire al vecchio mondo di Dio un nuovo mondo dell’uomo:il mondo stesso di Dio dev’essere stato un mondo dell’uomo e Dio un’opera dell’uomo, che può quindi essere distrutta se impedisce all’uomo di dominare el’ordine dell’essere. L’assassinio di Dio dev’essere reso retroattivo speculativamente. Questa è la ragione per cui l’”essere- di-per-sé ”(Durrchsichselbstsein) dell’uomo è il punto principale nella gnosi di Marx. Ed egli trae il suo sostegno speculativo dall’interpretazione delta natura e della storia come un processo nel quale l’uomo crea se stesso nella pienezza della sua statura.

L’assassinio di Dio è quindi un momento assolutamente essenziale nella creazione gnostica dell’ordine dell’essere[6].”

Sottolinea il filosofo Tommaso Romano “il comunismo, quindi, riproduce, benché in senso inverso, tutte le contraddizioni dell’economia politica. Il suo segreto consiste nel sostituire all’individuo l’uomo collettivo in tutte le funzioni sociali: produzione, scambio, consumo, educazione e famiglia. E poiché questa nuova evoluzione non concepiva né risolve nulla, porta fatalmente, come quelle precedenti all’iniquità e alla miseria. Così, dunque, il destino del socialismo è completamente negativo; l’utopia comunista, uscita dal dato economico dello Stato, è la controprova della «routine» tipica dei proprietari. Sotto questo punto di vista non difetta d’utilità, e giova alla scienza sociale, come alla filologia giova l’opposizione del nulla al qualcosa. Il socialismo è una logomachia”, una disputa, cioè,sull’uso e il valore delle parole che si basa più sulle parole che sui fatti. Marx si scaglia, inoltre, contro i filosofi che si “sono limitati a interpretare il mondo in diverse maniere; si tratta ora di cambiarlo”. Così Martin Buber, Schwonke e Jean Servier, ascrivono Marx fra gli utopisti, in quanto Marx profetizzava escatologicamente un paradiso, il paradiso socialista,quale esito di una profezia che Popper così seppe evidenziare bene: “La ricerca economica di Marx è del tutto subordinata alla sua profezia storica”[7].”

Appare quindi evidente che tutto il pensiero di Marx e dei suoi epigoni anche attuali è fortemente impregnato da tre elementi che lo caratterizzano anche nelle realizzazioni concrete: un utopismo che si può realizzare solo con un esasperata statolatria, anche violenta, giustificato da una visione gnostica che aspira a realizzare la sovversione della natura, in questa visione di per sé cattiva, ma modificabile dal pensiero umano in cui l’uomo si autocrea distruggendo le sovrastrutture dello sfruttamento come la religione, la proprietà privata e la famiglia. Purtroppo in molte nazioni un incubo che diviene tuttavia realtà a cui bisogna reagire con approfondite analisi risolutive per sostanziare la battaglia delle idee per il ritorno al reale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Paul Claudel (Villeneuve-sur-Fère, 6 agosto 1868 – Parigi, 23 febbraio 1955) è stato un poeta, drammaturgo e diplomatico francese.

[2] Karl Raimund Popper, La società aperta e i suoi nemici (The Open Society and Its Enemies), 1945.

[3] Joseph Déjacque, L’umanisfera. Utopia anarchica, 1857.

[4] Karl Marx, Sulla questione ebraica, 1844.

[5] Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato,1884.

 

 

[6] Eric Voegelin, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, 1970.

 

[7] Tommaso Romano, Totalitarismi:comunismo, nazismo, democraticismo e dittature salutiste in Tradizione Regale di prossima pubblicazione.

Auguri di un Santo Natale

Cari amici ed amiche,
a tutti voi miei migliori auguri di un Santo Natale che spero possiate trascorrere con i vostri affetti più cari nella serenità che solo la fede nell’unico vero Dio può dare. Quello di quest’anno purtroppo è certamente un momento eccezionale, che vede tutta l’umanità colpita dalla emergenza sanitaria causata dal coronavirus che, se da un lato ci ha reso più diffidenti verso l’altro e il futuro, dall’altro ci ha dato la possibilità di comprendere meglio quanto sia caduca la nostra condizione di esseri limitati. Ma proprio per questo oggi come non mai bisogna affidarsi a Cristo Gesù che si incarna per la nostra salvezza, affidando a Lui e a sua Madre Maria Santissima Immacolata le nostre speranze e le nostre preghiere nella certezza che verranno esaudite e mai deluse e per questo vi dico ancora Buon Natale.

Immagine di Gesù Bambino Re dell’universo, oleografia del XIX sec., collezione privata.

Marx ed il marxismo: figli legittimi del totalitarismo antiliberale di Hegel. Parte prima.

Cari amici, pongo alla vostra attenzione la prima parte di un mio saggio su Marx ed il marxismo, che rappresenta un ulteriore e spero chiarificatore passaggio critico, dopo quelli su Hegel e Kierkegaard. Buona Lettura.

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Marx ed il marxismo: figli legittimi del totalitarismo antiliberale di Hegel

Parte prima

I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente.” Da Il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels (1848)

Tutti i socialisti son d’accordo in ciò, che lo Stato politico e con lui l’autorità politica scompariranno in conseguenza della prossima rivoluzione sociale, e cioè che le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico, e si cangeranno in semplici funzioni amministrative, veglianti ai veri interessi sociali. Ma gli anti-autoritari domandano che lo Stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima ancora che si abbiano distrutte le condizioni sociali che l’hanno fatto nascere. Essi pretendono che il primo atto della rivoluzione sociale sia l’abolizione della società. Non hanno mai visto questi signori una rivoluzione? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che ci sia: è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte per mezzo di fucili, baionette e cannoni; mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuole aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano ai reazionari.” da Dell’autorità di Friedrich En gels (1872)

Le parole di Marx ed Engels sono a distanza di 172 anni, ancora esplicitanti di quello che è stato ed ancora è il comunismo come pensiero e quale sia la radice da cui è fiorito e quali sono ancora oggi i frutti “prodigiosi” e al contempo avvelenati ed amari di cui si sono saziati non la categoria, da loro individuata e nominalizzata, dei proletari, ma i burocrati del partito dei lavoratori transitati poi nelle file degli stati sovrani: Hegel e l’hegelismo militante.

Grazie a i presupposti del pensiero tedesco dominante in quegli anni e di cui loro stessi si dissero eredi, “noi socialisti1 tedeschi siamo orgogliosi di discendere (oltre che da Saint-Simon2, da Fourier3 e da Owen4) da Kant5, da Fichte6 e da Hegel7, è stato possibile ai due l’elaborazione di una teoria, assolutamente razionalista e al contempo assolutamente anti umana, fondata sul principio che il pensiero attraverso la tecnica dialettica fosse in grado di spiegare, modificare, distruggere e riedificare la realtà, riadattandola anche, come sostengono loro stessi, con la violenza e le armi, senza rispetto per la vita di nessuno, allo loro visione del mondo. Il marxismo, come scrive Dario Antiseri, è il punto di arrivo del razionalismo europeo, di un razionalismo che elude, con una decisione arbitraria, il problema dell’esistenza di Dio, che rigetta senza alcuna argomentazione ragionevole il dogma del peccato originale e che, di conseguenza, eleva la politica a religione, istituzionalizza il culto idolatrico di una umanità divinizzata e pretende di realizzare, per mezzo della pratica della rivoluzione, «il Regno millenario della libertà».

Solo attraverso l’uso della dialettica del loro maestro Hegel, si può cogliere l’essenza totalitaria che permea il pensiero socialista dei due. Infatti con Hegel la dialettica si trasformò da strumento di pensiero in fine ultimo dello stesso, assegnandole una valenza positiva, in maniera da far combaciare la verità con essa e quindi col divenire stesso.

Il tedesco capovolse la prospettiva che lo aveva preceduto: infatti ora la dialettica diventa il processo con cui Dio afferma se stesso, giungendo a identificarsi con la storia incarnata nello Stato. Hegel concepiva la verità come immanente o conseguente la razionalità conoscitiva, riprendendo Eraclito affermava che ogni realtà procede dal suo opposto, arrivando a sostenere che nella sintesi finale ogni realtà è al tempo stesso il suo contrario. In questa visione non c’è la necessità di un principio trascendente ma tutto scaturirebbe dai contrari reciproci, per dare luogo soltanto alla fine, attraverso la loro contrapposizione, all’Idea che li comprende. Ciò avviene secondo un procedimento a spirale caratterizzato dalla triade: tesi, antitesi e sintesi; come tre momenti dell’«in sè», «per sè», e «in sè e per sè». In questo sistema l’Assoluto non ne è all’origine ma alla fine, e scaturisce dalla sinossi dei due contrari.

In virtù di questo movimento triadico, l’Essere (tesi) assume la forma del non-essere (antitesi) e tutti e due verranno superati superati dalla sintesi, che è a sua volta la negazione della negazione (il divenire stesso). Il non-essere, così, non è la negazione dell’Essere, ma paradossalmente un passaggio verso la sua affermazione8.

Marx, non fece altro che applicare la logica del suo maestro alla storia, affermando che questa scaturisce dalla lotta dinamica fra gli opposti: “Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.”9, cosicché le contrapposizioni della realtà non trovano conciliazione in un principio superiore (come ad esempio Dio), ma nella storia stessa, il cui esito finale, secondo Marx, è immanente al rapporto dialettico tra le classi sociali, e in particolare tra la “struttura” economica (costituita dai rapporti materiali di produzione) e la “sovrastuttura” (gli apparati culturali che ne nasconderebbero la vera natura).

Questo sistema concettuale prese il nome di materialismo storico, riformulato da Engels come materialismo dialettico, che addirittura lo applica in un ulteriore campo di speculazione con la denominazione di Dialettica della natura, paragonandola anche alla scoperta della selezione naturale dell’evoluzione darwiniana, come dottrina della materia in movimento e logica della contraddizione “[…] nella natura sono operanti, dice Engels, nell’intrico degli innumerevoli cambiamenti, quelle stesse leggi dialettiche del movimento che anche nella storia dominano l’apparente accidentalità degli avvenimenti; quelle stesse leggi che, costituendo del pari il filo conduttore della storia dello sviluppo del pensiero umano, diventano gradualmente note agli uomini che pensano; leggi che per la prima volta furono sviluppate da Hegel in maniera comprensiva, ma in forma mistificata, e che è stato uno dei nostri intenti liberare da questa forma mistica e rendere chiaramente comprensibili in tutta la loro semplicità e universale validità.”10

La dialettica marxiana secondo lui si applica anche alla natura e poggia su tre leggi:

  • La legge della conversione della quantità in qualità (e viceversa).

  • La legge della compenetrazione degli opposti (ossia dell’unità e del conflitto degli opposti) garantisce l’unità ed al tempo stesso il mutamento incessante della natura.

  • La legge della negazione della negazione: ogni sintesi è a sua volta la tesi di una nuova antitesi che darà luogo ad una nuova sintesi che risolve le contraddizioni precedenti e genera le sue proprie contraddizioni.

Queste leggi determinano un divenire, sia naturale che storico, necessario ed essenzialmente progressivo, che ha tuttavia caratteristiche rivoluzionarie, con svolte brusche e violente, e non quelle di una pacifica evoluzione gradualistica. Queste leggi sono spesso state addirittura interpretate come critica e negazione del principio di non contraddizione. Marx capovolse cos’ il metodo di Hegel che a suo giudizio “poggiava sulla testa” (cioè sullo Spirito, visto come entità fondante la dialettica storica) “riportandolo sui piedi” (cioè basando la sua filosofia sulla supremazia della materia, di cui i fenomeni spirituali o mentali nel cervello umano sono un prodotto).

Il riconoscimento del mutare della realtà, che per Hegel erano espressione dello svolgersi della dialettica dello Spirito, in Marx divenne frutto del risolversi e del continuo ricrearsi della contraddizione all’interno degli oggetti materiali, in un’evoluzione che non ha una direzione data dall’esterno ed è intervallata da salti qualitativi, che nella storia consistono nelle rivoluzioni.

Dalla visione materialista tradizionale, suffragata dalle teorie di Charles Darwin, Marx assume l’idea che la natura non-vivente precedette quella vivente, che, come animali capaci di pensiero astratto e coscienti di sé, gli uomini si sono evoluti in esseri intelligenti.

Conseguenza fondamentale del pensiero di Marx è che “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; (ora) si tratta però di mutarlo”11. Così come il mondo non è statico ma si dipana dialetticamente seguendo le sue contraddizioni interne, così la nuova filosofia deve schierarsi nello scontro tra forze antagoniste, per lui le classi sociali, e avere l’obiettivo della soluzione per via rivoluzionaria e violenta della contraddittorietà del reale. Con questo assioma Marx pone i presupposti per la nascita del cosiddetto “intellettuale organico” che combatte per la rivoluzione in nome di un ribaltamento della verità e della realtà. Già Giovanni Gentile sosteneva “la materia del materialismo storico, lungi dall’essere esterna ed opposta all’Idea di Hegel, vi è dentro compresa, anzi è una cosa medesima con essa”.12

Per potere compenetrare il pensiero marxista bisogna affrontare, anche con una certa attenzione, quello che scrive Engels in risposta a Karl Eugen Dühring economista e filosofo tedesco, esponente del positivismo tedesco, nel famoso Anti-Dühring, a proposito della differenza fra materialismo volgare e materialismo dialettico. La “gravissima” colpa che viene attribuita con tono sprezzante a Dühring è quasi di offesa alla divinità di Marx e del suo costrutto, dopo che nel 1868 aveva pubblicato sulla rivista Ergänzungsblätter zur Kenntniss der Gegenwart una recensione del primo libro del Capitale, in cui aveva messo in evidenza che l’uso della dialettica era sbagliato in quanto priva di valore scientifico. Così il terribile inquisitore e fedele esegeta marxiano, Engels in La scienza sovvertita del signor Eugen Dühring (Herrn Eugen Dühring’s Umwälzung der Wissenschaft) risponde che la dialettica hegeliana, una volta rovesciata e fondata su basi reali, è un procedimento rigorosamente scientifico perchè concepisce la realtà, umana e naturale, come movimento e processo dinamico. Afferma infatti, nell’Anti-Dühring con un batti e ribatti tra lui ed il suo avversario nel capitolo XII. Dialettica. Quantità e qualità, dopo le frasi di Dühring ” Il primo e il più importante principio sulle proprietà logiche fondamentali dell’essere verte sull’esclusione della contraddizione. La contraddizione è una categoria che può appartenere solo alla combinazione delle idee e non alla realtà. Nelle cose non ci sono contraddizioni o, in altri termini, la contraddizione, posta come reale, è essa stessa il colmo del controsenso (…) L’antagonismo di forze che, in opposte direzioni, si misurano a vicenda, è proprio la forma fondamentale di tutte le azioni nell’esistenza del mondo e dei suoi esseri. Ma questo contrasto delle direzioni delle forze degli elementi e degli individui non coincide minimamente con l’idea di assurdità contraddittorie (…) Qui noi possiamo esser paghi di aver dissipato, mediante una chiara rappresentazione della verace assurdità della contraddizione reale, le nebbie che sorgono abitualmente dai pretesi misteri della logica, e di aver messo in evidenza l’inutilità dell’incenso che qua e là si è prodigato al fantoccio di legno della dialettica della contraddizione, goffamente scolpito e sostituito alla schematizzazione antagonistica del mondo.” (Engels) È questo pressappoco tutto ciò che si dice della dialettica nel “corso di filosofia”. Nella “Storia critica”, per contro, la dialettica della contraddizione, e con essa specialmente Hegel, viene trattata in un modo completamente diverso.

(Dühring) “La contraddizione, in effetti, secondo la logica hegeliana, o piuttosto la dottrina del logos, può cogliersi obiettivamente e, per così dire, toccare con mano, non già nel pensiero che, per sua natura, si deve rappresentare non altrimenti che come soggettivo e consapevole, ma nelle cose e nei fenomeni stessi, cosicché il controsenso non resta una combinazione impossibile del pensiero, ma diventa una potenza effettiva. La realtà dell’assurdo è il primo articolo di fede dell’unità hegeliana di logico e alogico (…) Quanto più contraddittorio, tanto più vero o, con altre parole, quanto più assurdo, tanto più credibile: questa massima, che non è affatto una nuova invenzione, ma che è tratta dalla teologia della rivelazione e delle mistica, è la cruda espressione del cosiddetto principio dialettico.”

(Engels) Il pensiero contenuto nei due luoghi citati si compendia nella proposizione la quale dice che contraddizione = controsenso e perciò non può esserci nel mondo reale. Questa proposizione, per gente che altrimenti è di sufficiente buon senso, può avere lo stesso valore di evidenza della stessa proposizione la quale dice che diritto non può essere curvo e curvo non può essere dritto. Ma il calcolo differenziale, malgrado tutte le proteste del buon senso, pone tuttavia, sotto certe condizioni, l’identità di diritto e curvo e ottiene così dei risultati che il buon senso, il quale si ostina a dire assurda l’identità di diritto e curvo, non potrà mai raggiungere. E, data la parte importante che la cosiddetta dialettica della contraddizione ha rappresentato nella filosofia dagli antichissimi greci fino ad oggi, persino un avversario più forte di Dühring si sarebbe sentito in dovere di confutarla con ben altri argomenti che un’unica asserzione e molte ingiurie.”

Trapela, da questo breve estratto dell’opera, tutta l’acrimonia di chi si deve arrampicare attraverso artifici retorici di ogni genere, tirando anche in mezzo il calcolo differenziale, per potere giustificare e spiegare alla fine “la inspiegabilità” della dialettica degli opposti che si interscambiano senza contraddizione anzi arrivando a negare persino il principio di non contraddizione alla base di ogni autentico pensiero razionale.

Dühring aveva inoltre affermato che “pure, la sana logica presumibilmente trionferà della sua caricatura (…) Queste grandi arie e questa misteriosa robaccia dialettica non darà a nessuno, che abbia ancora un po’ di giudizio, la tentazione di occuparsi di (…) queste deformità di pensiero e di stile, con la morte degli ultimi avanzi di queste follie dialettiche, questo mezzo per turlupinare (…) perderà la sua influenza ingannatrice e nessuno crederà più di doversi tormentare per inseguire una saggezza nella quale il nocciolo di queste cose arruffate, una volta messo a nudo, mostra, nel migliore dei casi, i tratti di teorie ovvie, se non di luoghi comuni (…) È assolutamente impossibile riprodurre gli aggrovigliamenti” (marxiani) “conformatisi alla dottrina del logos, senza prostituire la sana logica”. La capacità di Marx fu senza dubbio “nell’imbastire miracoli dialettici per i suoi fedeli”, astrusi quanto prolissi.

Ma Engels, nel tentativo di uscire dal pantano mentale in cui si è trascinato da solo, afferma con impeto “Marx nota: Qui, come nelle scienze naturali, si rivela la validità della legge scoperta da Hegel nella sua Logica, che mutamenti puramente quantitativi si risolvono a un certo punto in differenze qualitative”, mettendosi a osservare il mondo sulle spalle di Hegel nel tentativo di assicurare una autorevolezza maggiore alle elucubrazioni mentali marxiane.

Ma il vero punto di non ritorno lo troviamo nella risposta di Engels a questa dura ma logica affermazione di Dühring “questo schizzo storico (della genesi della cosiddetta accumulazione primitiva del capitale in Inghilterra) è tutt’ora relativamente la cosa migliore del libro di Marx e sarebbe ancora migliore se non si fosse puntellato per andare avanti, oltre che sulle grucce della dottrina, su quelle della dialettica. Cioè, in mancanza di qualche mezzo migliore e più chiaro, qui la hegeliana negazione della negazione deve far da levatrice ed estrarre l’avvenire dal grembo del passato. La soppressione della proprietà individuale, compiutasi nella maniera già detta sin dal XVI secolo, è la prima negazione. Essa sarà seguita da una seconda, caratterizzata come negazione della negazione e perciò come ristabilimento della “proprietà individuale”, ma in forma più elevata, basata sul possesso comune del suolo e degli strumenti di lavoro. Se questa nuova “proprietà individuale” è stata ad un tempo chiamata da Marx anche “proprietà sociale”, qui si palesa la superiore unità di Hegel, nel quale la contraddizione deve essere superata, ossia secondo un gioco di parole, deve essere insieme sorpassata e conservata (…) Conseguentemente l’espropriazione degli espropriatori è per così dire il prodotto automatico della realtà storica nelle sue relazioni materiali esterne (…) Difficilmente un uomo giudizioso si lascerebbe convincere della necessità della proprietà comune del suolo e del capitale sul credito dato alle fandonie di Hegel, una delle quali è la negazione della negazione (…) L’ibrida formula nebulosa delle idee di Marx non sorprenderà, del resto, chi sappia che cosa si può combinare o piuttosto che stravaganze debbono venir fuori prendendo come base scientifica la dialettica di Hegel. Per chi sia ignaro di questi artifici bisogna notare espressamente che la prima negazione hegeliana è il concetto catechistico di peccato originale, e la seconda è quella di una superiore unità che porta alla redenzione. Ora, non è effettivamente possibile fondare la logica dei fatti su questo giochetto analogico preso a prestito dal campo della religione (…) Marx resta tranquillamente nel mondo nebuloso della sua proprietà ad un tempo individuale e sociale e lascia ai suoi adepti di risolvere questo profondo enigma dialettico.”

Infatti il tedesco è costretto a scrivere per giustificare la posizione di Marx: “Ma che cosa è dunque questa spaventosa negazione della negazione che rende così amara la vita di Dühring, e che rappresenta per lui lo stesso delitto imperdonabile rappresentato nel cristianesimo dal peccato contro lo spirito santo? Un processo semplicissimo che si compie dappertutto e giornalmente, che ogni bambino può comprendere, solo che lo si liberi dal gran mistero sotto il quale lo nascondeva la vecchia filosofia idealistica e sotto il quale è interesse di metafisici poco agguerriti dello stampo di Dühring continuare a nasconderlo. (…..). Tutti i popoli civili cominciano con la proprietà comune del suolo. In tutti i popoli che oltrepassano un certo grado primitivo, nel corso dello sviluppo dell’agricoltura, questa proprietà comune del suolo diventa una catena per la produzione. Essa viene soppressa, viene negata, viene trasformata, dopo una serie più o meno lunga di gradi intermedi, in proprietà privata. Ma ad un più elevato grado di sviluppo dell’agricoltura, prodotto dalla stessa proprietà privata del suolo, la proprietà privata diventa, al contrario, una catena per la produzione, caso che si verifica oggi tanto nel piccolo quanto nel grande possesso fondiario. Sorge necessariamente l’esigenza che anch’essa sia negata, riconvertita in bene comune. Ma quest’esigenza non implica il ristabilimento della vecchia proprietà comune primitiva, ma l’instaurazione di una forma molto più elevata, più sviluppata di proprietà comune che ben lungi dal diventare una catena per la produzione, la libererà piuttosto dalle sue pastoie e le permetterà di utilizzare in pieno le moderne scoperte della chimica e le moderne invenzioni della meccanica.

O ancora: la filosofia antica fu un materialismo primitivo, spontaneo. Come tale, essa era incapace di venire in chiaro del rapporto tra pensiero e materia. Ma la necessità di chiarirsi questo rapporto portò ad una dottrina di un’anima separabile dal corpo, quindi all’affermazione dell’immortalità di quest’ultima e finalmente al monoteismo. L’antico materialismo fu dunque negato con l’idealismo. Ma nello sviluppo ulteriore della filosofia anche l’idealismo divenne insostenibile e fu negato col moderno materialismo. Quest’ultimo, la negazione della negazione, non è la semplice restaurazione dell’antico materialismo, ma invece alle durevoli basi di esso aggiunge anche tutto il pensiero contenuto in un bimillenario sviluppo della filosofia e della scienza della natura, nonché il pensiero contenuto in questa stessa storia bimillenaria. Insomma non è più una filosofia, ma una semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua conferma in una scienza della scienza per sé stante, ma nelle scienze reali. La filosofia è dunque qui “superata”, cioè “insieme sorpassata e mantenuta”, sorpassata quanto alla sua forma, mantenuta quanto al suo contenuto reale. Perciò, dove Dühring vede solo “giuochi di parole”, si trova, considerando più attentamente le cose, un contenuto reale.

Finalmente, perfino la dottrina egualitaria rousseauiana, di cui la dühringiana è solo una cattiva copia falsificata, non viene alla luce senza che la hegeliana negazione della negazione debba far da levatrice, e per giunta quasi venti anni prima della nascita di Hegel. E ben lontana dal sentirne vergogna, ostenta quasi sfarzosamente nella sua prima presentazione il marchio della sua origine dialettica. Nello stato di natura e di selvatichezza gli uomini erano eguali; e poiché Rousseau vede nel linguaggio già una falsificazione dello stato di natura, ha completamente ragione nell’applicare, in tutta la sua estensione, l’eguaglianza degli animali di una specie determinata anche a questi uomini-animali che di recente Haeckel ha classificato, in via ipotetica, come alalì, cioè privi di linguaggio. Ma questi uomini-animali, eguali tra di loro, avevano una qualità che li rendeva superiori agli altri animali: la perfettibilità, l’idoneità ad uno sviluppo ulteriore; e fu questa la causa della disuguaglianza. Nel sorgere della disuguaglianza Rousseau vede dunque un progresso. Ma questo progresso era antagonistico, era ad un tempo un regresso.(…..).

Che cos’è dunque la negazione della negazione? Una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d’azione e un’importanza estremamente grandi; legge che, come abbiamo visto, si afferma nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica, nella storia, nella filosofia, e alla quale, malgrado ogni lotta e ogni resistenza, anche Dühring, senza saperlo, è obbligato, in qualche modo, ad obbedire. È evidente per se stesso che, riguardo al particolare processo di sviluppo che compie, per es., il chicco di orzo dalla germinazione sino alla morte della pianta che reca la spiga, io non dico assolutamente niente dicendo che è negazione della negazione. Infatti, se affermassi il contrario, poiché il calcolo integrale egualmente è negazione della negazione, affermerei solo l’assurdo che il processo biologico di una spiga di orzo sia calcolo integrale, o anche, ahimè!, socialismo. Ma questo è ciò che i metafisici continuano, nelle scuole, ad attribuire alla dialettica. Se di tutti questi processi io dico che sono negazione della negazione, li comprendo tutti insieme sotto questa unica legge del movimento e precisamente trascuro la particolarità di ogni singolo processo speciale. Ma la dialettica non è niente altro che la scienza delle leggi generali del movimento e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero.”

Interessante poi notare quale sia il concetto di Libertà che lo stesso autore dice di prendere in prestito dal suo maestro: “Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. “Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa.” La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esistenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dall’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quell’oggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. I primi uomini che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli stessi animali, ma ogni progresso verso la civiltà era un passo verso la libertà.”

E nella conclusione di questo trattato, ricolmo di attacchi, sberleffi ed ingiurie, immotivate e ricolme di odio e rancore rispetto a chi aveva osato contraddire le affermazioni spesso oniriche e non dimostrate ed indimostrabili di Marx, che Engels raggiunge l’apice, con un metodo che forse fino ad oggi ha fatto la fortuna del primigenio comunismo e dei suoi epigoni: l’invettiva senza quartiere per avere ragione dell’avversario in qualsiasi modo. Infatti termina il volume con queste sprezzanti parole nei confronti di Dühring ”e quando siamo alla fine del libro, ne sappiamo proprio quanto ne sapevamo prima e siamo costretti a confessare che la “nuova maniera di pensare“, cioè “i risultati e le vedute originali sin dalle fondamenta” e le “idee che creano un sistema” ci hanno certo presentato vari assurdi nuovi ma neanche una riga da cui avremmo potuto imparare qualche cosa. E quest’uomo che decanta le sue arti e le sue merci a suon di timpani e di trombe come il più volgare ciarlatano e dietro alle cui parole non c’è niente, ma proprio assolutamente niente, quest’uomo si permette di chiamar ciarlatani uomini come Fichte, Schelling e Hegel, il più piccolo dei quali è sempre un gigante di fronte a lui. Ciarlatano in effetti, -ma chi?”

Per dirla con le parole del filosofo Armando Plebe13 “per Marx, aggiungo io anche per molti suoi seguaci, Il Capitale non è un libro fra gli altri libri, bensì è il libro che rende inutile tutti gli altri libri”, è pertanto la bibbia del comunista combattente che non può essere confutata o discussa, ma solo applicata e chiunque non lo capisce deve prima essere attaccato, poi umiliato ed infine come vedremo in seguito perseguitato ed eliminato. Il punto essenziale sta tutto in queste parole di un altro marxista, György Lukàcs “il rapporto con Max è la vera pietra di paragone per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione stessa ed il proprio atteggiamento rispetto adesso.”14

Noi non abbiamo riguardi; non ne attendiamo da voi. Quando verrà il nostro turno, non abbelliremo il terrore15.”

Antonino Sala

1 Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1880.

2 Henri Claude de Rouvroy conte di Saint-Simon [1760-1825]: socialista utopista francese, profeta dell’industrialismo.

3 François Marie Charles Fourier [1772-1837]: filosofo e scrittore francese. Socialista utopista, progettò colonie comuniste come unità economiche indipendenti.

4 Robert Owen [1771-1858]: socialista utopista inglese. Fautore di un “nuovo mondo etico”, nella sua filanda di New Lanark introdusse per primo la riduzione del tempo di lavoro, un sistema di previdenza contro malattie e vecchiaia, comitati operai consultivi, etc.).

5 Immanuel Kant [1724-1804]: filosofo tedesco. Tentò di giungere alla sintesi tra razionalismo e idealismo. Chiamò il suo sistema: Idealismo trascendentale.

6 Johann Gottlieb Fichte [1762-1814]: filosofo tedesco, discepolo di Kant. Il suo sistema è detto: Idealismo soggettivo.

7 Georg Wilhelm Friedrich Hegel [1770-1831]: filosofo tedesco che influenzò tutto il pensiero europeo. Il suo sistema è detto: Idealismo oggettivo (perché il pensiero è un’azione del reale).

8 Hegel, Scienza della logica, 1812.

9 K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, 1848.

10 Friedrich Engels, Prefazione all’Anti-Dühring, 1885.

11 Karl Marx, Tesi su Feuerbach, 1845.

12 Giovanni Gentile, La filosofia di Marx, 1899.

13 Armando Plebe, Quello che non ha capito Carlo Marx, 1972.

14 György Lukács, La mia via al marxismo, 1957.

15 Karl Marx, Neue Rheinische Zeitung (La Nuova Gazzetta Renana: Organo di Democrazia), maggio 1849.

 

Intellettuali e socialismo di Friedrich August von Hayek (University of Chicago Law -1949)

Cari amici, vi sottopongo per riflettere sui tempi che stiamo vivendo, un importante articolo uscito nel 1949 del prof. Friedrich August von Hayek (1899–1992), premio Nobel per l’economia nel 1974, esponente di caratura mondiale del liberalismo e del minarchismo, socio fondatore del Mises Istitute. Un critico dell’intervento statale in economia. Allievo di Friedrich von Wieser, amico e collega di Ludwig von Mises e di Karl Popper. Hayek ha influenzato tutto l’ambiente del libertarismo, segnatamente Murray Rothbard della scuola anarcocapitalista, Robert Nozick e anche Milton Friedman (fondatore della scuola di Chicago); è senza dubbio il più eminente degli economisti della scuola austriaca moderna. Autore di La via della schiavitù (1944), pubblicato in Italia anche con il titolo Verso la schiavitù (The Road to Serfdom) e nel 1960 di La società libera (The Constitution of Liberty) oltre che di innumerevoli saggi e testi di fondamentale importanza per chi cerca un’altra via allo statalismo accentratore e massificante.
In questo saggio l’autore indica con il termine “socialista” quello che oggi noi potremmo in Italia definire con “di sinistra”, “progressista”, “democratico”, “egualitario”, “pauperista”, “radical chic”, “comunista”, “socialdemocratico”, “marxista”, “pentastellato” ed anche “populista”. Un ampio spettro di sinonimi che ci riportano ad una visione hegeliana della Stato e della società in cui la seconda è totalmente assoggettata al primo, da cui la si fa discendere e a cui deve obbedire, ed in cui l’uomo e la sua libertà sono limitate in nome di un interesse spacciato per “superiore”. Von Hayek delinea il profilo del filosofo e dell’intellettuale nel suo tempo ma che rimane ancora attualissimo, tracciandone influenza, virtù e vizi tipici. Infine ritengo preziose le indicazioni culturali per chi crede nella Libertà, che possono essere una traccia da seguire nel processo di riaffermazione del suo valore per lo sviluppo organico della società.

Buona lettura.
Antonino Sala

Intellettuali e socialismo di Friedrich A. von Hayek

(University of Chicago Law 1949)

In tutti i paesi democratici, negli Stati Uniti ancor più che altrove, prevale la convinzione che l’influenza degli intellettuali sulla politica sia trascurabile. Questo è senza dubbio vero per il potere degli intellettuali di far sì che le loro opinioni peculiari del momento influenzino le decisioni, della misura in cui possono influenzare il voto popolare su questioni su cui differiscono dalle opinioni correnti delle masse. Tuttavia, per periodi un po ‘più lunghi probabilmente non hanno mai esercitato un’influenza così grande come fanno oggi in quei paesi. Questo potere esercitano plasmando l’opinione pubblica.

Alla luce della storia recente è piuttosto curioso che questo potere decisivo dei rigattieri professionisti nelle idee non debba ancora essere riconosciuto più in generale. Lo sviluppo politico del mondo occidentale negli ultimi cento anni fornisce la dimostrazione più chiara. All’inizio il socialismo non è mai stato e da nessuna parte è stato un movimento operaio. Non è affatto un rimedio ovvio per il male evidente che gli interessi di quella classe esigeranno necessariamente. È una costruzione di teorici, derivante da certe tendenze del pensiero astratto con cui per molto tempo solo gli intellettuali avevano familiarità; e ha richiesto lunghi sforzi da parte degli intellettuali prima che le classi lavoratrici potessero essere persuase ad adottarlo come loro programma.

In ogni paese che si è mosso verso il socialismo, la fase di sviluppo in cui il socialismo diventa un’influenza determinante sulla politica è stata preceduta per molti anni da un periodo durante il quale gli ideali socialisti hanno governato il pensiero degli intellettuali più attivi. In Germania questa fase era stata raggiunta verso la fine del secolo scorso; in Inghilterra e in Francia, all’incirca nel periodo della prima guerra mondiale. A un osservatore casuale sembrerebbe che gli Stati Uniti siano giunti a questa fase dopo la seconda guerra mondiale e che l’attrazione di un sistema economico pianificato e diretto sia ora più forte tra gli intellettuali americani come non lo era mai stata tra i loro compagni tedeschi o inglesi. L’esperienza suggerisce che, una volta raggiunta questa fase, è solo una questione di tempo prima che le opinioni ora sostenute dagli intellettuali diventino la forza di governo della politica.

Il carattere del processo attraverso il quale le opinioni degli intellettuali influenzano la politica di domani è quindi di molto più che interesse accademico. Sia che desideriamo semplicemente prevedere o tentare di influenzare il corso degli eventi, è un fattore di importanza molto maggiore di quanto generalmente si intenda. Quella che all’osservatore contemporaneo appare come la battaglia di interessi contrastanti è stata infatti spesso decisa molto tempo prima in uno scontro di idee confinato a circoli ristretti. Paradossalmente, tuttavia, in generale solo i partiti di sinistra hanno fatto di più per diffondere la convinzione che fosse la forza numerica degli interessi materiali opposti a decidere le questioni politiche, mentre in pratica questi stessi partiti hanno agito regolarmente e con successo come se capito la posizione chiave degli intellettuali.

II
Il termine “intellettuali”, tuttavia, non trasmette immediatamente un’immagine fedele della grande classe a cui ci riferiamo, e il fatto che non abbiamo un nome migliore con cui descrivere quelli che abbiamo chiamato gli spacciatori di idee non è l’ultimo dei motivi per cui il loro potere non è compreso. Persino le persone che usano la parola “intellettuale” principalmente come termine di abuso sono ancora inclini a negarla a molti che indubbiamente svolgono quella funzione caratteristica. Questo non è né quello del pensatore originale né quello dello studioso o esperto in un particolare campo di pensiero. L’intellettuale tipico non deve essere né l’uno né l’altro: non deve possedere una conoscenza speciale di nulla in particolare, né deve essere anche particolarmente intelligente, per svolgere il suo ruolo di intermediario nella diffusione delle idee.

Finché non si inizia a elencare tutte le professioni e le attività che appartengono alla classe, è difficile rendersi conto di quanto sia numerosa, di come la portata delle attività aumenti costantemente nella società moderna e di quanto tutti siamo diventati dipendenti da essa. La classe non è composta solo da giornalisti, insegnanti, ministri, docenti, pubblicisti, commentatori radiofonici, scrittori di narrativa, fumettisti e artisti che possono essere tutti maestri della tecnica di trasmettere idee, ma di solito sono dilettanti per quanto riguarda la sostanza di quello che trasmettono è preoccupato. La classe comprende anche molti professionisti e tecnici, come scienziati e medici, che attraverso il loro rapporto abituale con la parola stampata diventano portatori di nuove idee al di fuori dei propri campi e che, per la loro conoscenza approfondita delle proprie materie, vengono ascoltati con rispetto dalla maggior parte degli altri. C’è poco che l’uomo comune di oggi impari su eventi o idee se non per mezzo di questa classe; e al di fuori dei nostri campi di lavoro speciali siamo sotto questo aspetto quasi tutti uomini comuni, dipendenti per la nostra informazione e istruzione da coloro che fanno del loro lavoro per tenersi al passo con le opinioni. Sono gli intellettuali in questo senso che decidono quali punti di vista e opinioni devono raggiungerci, quali fatti sono abbastanza importanti da esserci raccontati, e in quale forma e da quale angolazione devono essere presentati. Se mai impareremo i risultati del lavoro dell’esperto e del pensatore originale dipende principalmente dalla loro decisione. e al di fuori dei nostri campi di lavoro speciali siamo sotto questo aspetto quasi tutti uomini comuni, dipendenti per la nostra informazione e istruzione da coloro che fanno del loro lavoro per tenersi al passo con le opinioni.
Il profano, forse, non è del tutto consapevole fino a che punto anche la reputazione popolare di scienziati e studiosi sia fatta da quella classe e sia inevitabilmente influenzata dalle sue opinioni su argomenti che hanno poco a che fare con i meriti delle realizzazioni reali. Ed è particolarmente significativo per il nostro problema che ogni studioso possa probabilmente nominare diversi esempi del suo campo di uomini che hanno immeritatamente raggiunto una reputazione popolare come grandi scienziati solo perché detengono ciò che gli intellettuali considerano come opinioni politiche “progressiste”; ma devo ancora imbattermi in un singolo caso in cui una tale pseudo-reputazione scientifica sia stata conferita per ragioni politiche a uno studioso di tendenze più conservatrici. Questa creazione di reputazioni da parte degli intellettuali è particolarmente importante nei campi in cui i risultati degli studi di esperti non sono utilizzati da altri specialisti ma dipendono dalle decisioni politiche del pubblico in generale. Non c’è davvero un esempio migliore di ciò dell’atteggiamento che gli economisti professionisti hanno assunto nei confronti della crescita di dottrine come il socialismo o il protezionismo. Probabilmente non c’era mai stata una maggioranza di economisti, riconosciuti come tali dai loro pari, favorevoli al socialismo (o, del resto, alla protezione). Con ogni probabilità è anche vero che nessun altro gruppo simile di studenti contiene una percentuale così alta dei suoi membri decisamente contraria al socialismo (o protezione). Ciò è tanto più significativo in quanto negli ultimi tempi è altrettanto probabile che non sia stato un precoce interesse per i programmi socialisti di riforma che ha portato un uomo a scegliere l’economia per la sua professione. Tuttavia non sono le opinioni predominanti degli esperti, ma le opinioni di una minoranza, per lo più con una posizione piuttosto dubbia nella loro professione, che vengono riprese e diffuse dagli intellettuali.

L’influenza onnipervasiva degli intellettuali nella società contemporanea è ulteriormente rafforzata dalla crescente importanza dell ‘”organizzazione”. È opinione comune, ma probabilmente errata, che l’aumento dell’organizzazione accresca l’influenza dell’esperto o dello specialista. Questo può essere vero per l’amministratore e l’organizzatore esperto, se esistono persone del genere, ma difficilmente per l’esperto in un particolare campo di conoscenza. È piuttosto la persona la cui conoscenza generale dovrebbe qualificarla per apprezzare la testimonianza di esperti e per giudicare tra gli esperti di diversi campi, il cui potere è accresciuto. Il punto che per noi è importante, tuttavia, è che lo studioso che diventa presidente di un’università, lo scienziato che prende in carico un istituto o una fondazione, lo studioso che diventa un editore o il promotore attivo di un’organizzazione che serve una causa particolare, tutti cessano rapidamente di essere studiosi o esperti e diventano intellettuali, solo alla luce di certe idee generali alla moda. Il numero di tali istituzioni che allevano intellettuali e ne aumentano il numero e i poteri cresce ogni giorno. Quasi tutti gli “esperti” nella mera tecnica di ottenere conoscenza sono, rispetto alla materia che trattano, intellettuali e non esperti.

Nel senso in cui stiamo usando il termine, gli intellettuali sono in effetti un fenomeno della storia abbastanza nuovo. Sebbene nessuno rimpiangerà che l’istruzione abbia cessato di essere un privilegio delle classi possidenti, il fatto che le classi possidenti non siano più le più istruite e il fatto che il gran numero di persone che devono la loro posizione esclusivamente alla loro istruzione generale non possiedono quell’esperienza di funzionamento del sistema economico che dà l’amministrazione della proprietà è importante per comprendere il ruolo dell’intellettuale. Il professor Schumpeter, che ha dedicato un capitolo illuminante del suo Capitalismo, socialismo e democrazia per alcuni aspetti del nostro problema, non ha ingiustamente sottolineato che è l’assenza di responsabilità diretta per gli affari pratici e la conseguente assenza di conoscenza diretta di essi che distingue l’intellettuale tipico dalle altre persone che detengono anche il potere della parola parlata e scritta. Sarebbe tuttavia esagerato esaminare ulteriormente lo sviluppo di questa classe e la curiosa affermazione che è stata recentemente avanzata da uno dei suoi teorici secondo cui è stata l’unica le cui opinioni non erano decisamente influenzate dai propri interessi economici. Uno dei punti importanti che dovrebbe essere esaminato in tale discussione sarebbe fino a che punto la crescita di questa classe è stata stimolata artificialmente dalla legge sul diritto d’autore.

III
Non sorprende che il vero studioso o esperto e l’uomo di affari pratico spesso si sentano sprezzanti nei confronti dell’intellettuale, non siano inclini a riconoscere il suo potere e siano risentiti quando lo scoprono. Individualmente trovano che gli intellettuali siano per lo più persone che non capiscono bene niente in particolare e il cui giudizio su questioni che essi stessi comprendono mostra pochi segni di un sapere speciale. Ma sarebbe un errore fatale sottovalutare il loro potere per questo motivo. Anche se la loro conoscenza può essere spesso superficiale e la loro intelligenza limitata, ciò non toglie che sia il loro giudizio a determinare principalmente le opinioni sulle quali la società agirà in un futuro non troppo lontano. Non è esagerato affermare che, una volta che la parte più attiva degli intellettuali si è convertita a un insieme di credenze, il processo mediante il quale questi vengono generalmente accettati è quasi automatico e irresistibile. Questi intellettuali sono gli organi che la società moderna ha sviluppato per diffondere la conoscenza e le idee, e sono le loro convinzioni e opinioni che operano come il setaccio attraverso il quale tutte le nuove concezioni devono passare prima di poter raggiungere le masse.

È della natura del lavoro dell’intellettuale che egli debba usare le proprie conoscenze e convinzioni nello svolgimento del suo compito quotidiano. Occupa la sua posizione perché possiede, o ha dovuto affrontare quotidianamente, conoscenze che il suo datore di lavoro in generale non possiede, e le sue attività possono quindi essere dirette da altri solo in misura limitata. E proprio perché gli intellettuali sono per lo più intellettualmente onesti, è inevitabile che seguano la propria convinzione ogni volta che hanno discrezione e che dovrebbero dare una corrispondente inclinazione a tutto ciò che passa attraverso le loro mani. Anche quando la direzione della politica è nelle mani di uomini d’affari di opinioni diverse, l’esecuzione della politica sarà in generale nelle mani degli intellettuali, e spesso è la decisione sui dettagli che determina l’effetto netto. Lo troviamo illustrato in quasi tutti i campi della società contemporanea. Giornali di proprietà “capitalista”, università presiedute da organi di governo “reazionari”, sistemi di trasmissione di proprietà di governi conservatori, sono stati tutti conosciuti per influenzare l’opinione pubblica in direzione del socialismo, perché questa era la convinzione dei membri dell’organizzazione. Ciò è accaduto spesso non solo malgrado, ma forse anche a causa dei tentativi di chi è al vertice di controllare l’opinione pubblica e di imporre i principi dell’ortodossia.
L’effetto di questo filtraggio delle idee attraverso le convinzioni di una classe che è costituzionalmente disposta a certe visioni non è affatto limitato alle masse. Al di fuori del suo campo speciale l’esperto non è generalmente meno dipendente da questa classe e poco meno influenzato dalla loro selezione. Il risultato di ciò è che oggi nella maggior parte del mondo occidentale anche gli oppositori più accaniti del socialismo traggono da fonti socialiste la loro conoscenza sulla maggior parte degli argomenti su cui non hanno informazioni di prima mano. Con molti dei preconcetti più generali del pensiero socialista, il collegamento delle loro proposte più pratiche non è affatto ovvio immediatamente; di conseguenza, molti uomini che credono di essere determinati oppositori di quel sistema di pensiero diventano di fatto efficaci diffusori delle sue idee. Chi non conosce l’uomo pratico che nel suo campo denuncia il socialismo come “marciume pernicioso” ma, quando esce dal suo soggetto, rilancia il socialismo come qualsiasi giornalista di sinistra? In nessun altro campo l’influenza predominante degli intellettuali socialisti si è fatta sentire più fortemente negli ultimi cento anni che nei contatti tra le diverse civiltà nazionali. Andrebbe ben oltre i limiti di questo articolo rintracciare le cause e il significato del fatto estremamente importante che nel mondo moderno gli intellettuali forniscono quasi l’unico approccio a una comunità internazionale. È questo che spiega principalmente quale straordinario spettacolo che per generazioni il presunto “capitalista” Occidente ha prestato il suo sostegno morale e materiale quasi esclusivamente a quei movimenti ideologici nei paesi orientali che miravano a minare la civiltà occidentale e che, allo stesso tempo, le informazioni che il pubblico occidentale ha ottenuto sugli eventi nell’Europa centrale e orientale quasi inevitabilmente sono state colorate da un pregiudizio socialista. Molte delle attività “educative” delle forze americane di occupazione della Germania hanno fornito esempi chiari e recenti di questa tendenza.

IV
Una corretta comprensione delle ragioni che tendono a inclinare tanti intellettuali verso il socialismo è quindi estremamente importante. Il primo punto che coloro che non condividono questo pregiudizio dovrebbero affrontare francamente è che non sono né gli interessi egoistici né le cattive intenzioni, ma soprattutto le convinzioni oneste e le buone intenzioni che determinano le opinioni dell’intellettuale. In effetti, è necessario riconoscere che nel complesso l’intellettuale tipico è oggi più probabile che sia un socialista quanto più è guidato dalla buona volontà e dall’intelligenza, e che sul piano dell’argomentazione puramente intellettuale sarà generalmente in grado di fare un caso migliore rispetto alla maggior parte dei suoi avversari all’interno della sua classe. Se lo pensiamo ancora sbagliato. Niente potrebbe essere più importante che cercare di capire le fonti di questo errore per poterlo contrastare. Tuttavia, coloro che sono generalmente considerati come rappresentanti dell’ordine esistente e che credono di comprendere i pericoli del socialismo sono di solito molto lontani da tale comprensione. Tendono a considerare gli intellettuali socialisti come nient’altro che un gruppo pernicioso di intellettuali radicali senza apprezzare la loro influenza e, con tutto il loro atteggiamento nei loro confronti, tendono a spingerli ancora più in opposizione all’ordine esistente.

Se vogliamo comprendere questo particolare pregiudizio di un’ampia sezione di intellettuali, dobbiamo essere chiari su due punti. Il primo è che generalmente giudicano tutte le questioni particolari esclusivamente alla luce di alcune idee generali; il secondo, che gli errori caratteristici di ogni epoca derivano frequentemente da alcune autentiche nuove verità che ha scoperto, e sono applicazioni errate di nuove generalizzazioni che hanno dimostrato il loro valore in altri campi. La conclusione alla quale saremo condotti da una piena considerazione di questi fatti sarà che l’effettiva confutazione di tali errori richiederà frequentemente ulteriori progressi intellettuali, e spesso avanzerà su punti che sono molto astratti e possono sembrare molto lontani dalle questioni pratiche.

È forse il tratto più caratteristico dell’intellettuale il fatto di giudicare le nuove idee non in base ai loro meriti specifici, ma in base alla prontezza con cui si adattano alle sue concezioni generali, al quadro del mondo che considera moderno o avanzato. È attraverso la loro influenza su di lui e sulla sua scelta di opinioni su questioni particolari che il potere delle idee per il bene e il male cresce in proporzione alla loro generalità, astrattezza e persino vaghezza. Poiché conosce poco le questioni particolari, il suo criterio deve essere la coerenza con le altre sue opinioni e l’idoneità a combinarsi in un’immagine coerente del mondo. Eppure questa selezione dalla moltitudine di nuove idee che si presentano in ogni momento crea il caratteristico clima di opinione, la Weltanschauung dominante di un periodo, che sarà favorevole alla ricezione di alcune opinioni e sfavorevole ad altre e che farà sì che l’intellettuale accetti prontamente una conclusione e ne rifiuti un’altra senza una reale comprensione dei problemi delle questioni

Per certi versi l’intellettuale è davvero più vicino al filosofo che a qualsiasi specialista, e il filosofo è in più di un senso una sorta di principe tra gli intellettuali. Sebbene la sua influenza sia più lontana dagli affari pratici e corrispondentemente più lenta e più difficile da rintracciare di quella dell’intellettuale ordinario, è dello stesso tipo e alla lunga anche più potente di quella di quest’ultimo. È lo stesso sforzo verso una sintesi, perseguito più metodicamente, lo stesso giudizio di visioni particolari nella misura in cui si inseriscono in un sistema di pensiero generale piuttosto che per i loro meriti specifici, lo stesso sforzo per una visione del mondo coerente, che per entrambi costituisce la base principale per accettare o rifiutare idee. Per questo motivo il filosofo ha probabilmente un’influenza sugli intellettuali maggiore di qualsiasi altro studioso o scienziato e, più di chiunque altro, determina il modo in cui gli intellettuali esercitano la loro funzione di censura. L’influenza popolare dello specialista scientifico comincia a rivaleggiare con quella del filosofo solo quando smette di essere uno specialista e inizia a filosofare sul progresso della sua materia e di solito solo dopo che è stato preso dagli intellettuali per ragioni che hanno poco da fare con la sua eminenza scientifica.

Il “clima di opinione” di qualsiasi periodo è quindi essenzialmente un insieme di preconcetti molto generali in base ai quali l’intellettuale giudica l’importanza di nuovi fatti e opinioni. Questi preconcetti sono principalmente applicazioni a quelli che gli sembrano gli aspetti più significativi delle conquiste scientifiche, un trasferimento ad altri campi di ciò che lo ha particolarmente colpito nel lavoro degli specialisti. Si potrebbe fornire un lungo elenco di tali mode e slogan intellettuali che nel corso di due o tre generazioni hanno a loro volta dominato il pensiero degli intellettuali. Che fosse l’approccio “storico” o la teoria dell’evoluzione, il determinismo del diciannovesimo secolo e la convinzione nell’influenza predominante dell’ambiente rispetto all’ereditarietà, la teoria della relatività o la fede nel potere dell’inconscio – ognuna di queste concezioni generali è stata resa la pietra di paragone con cui sono state testate innovazioni in diversi campi. Sembra che quanto meno specifiche o precise (o meno comprese) siano queste idee, tanto più ampia potrebbe essere la loro influenza. A volte non è altro che una vaga impressione raramente espressa in parole che esercita così un’influenza profonda. Credenze come il controllo deliberato o l’organizzazione cosciente sono anche negli affari sociali sempre superiori ai risultati di processi spontanei che non sono diretti da una mente umana, o che qualsiasi ordine basato su un piano stabilito in precedenza deve essere migliore di quello formato dall’equilibrio delle forze opposte, hanno in questo modo influenzato profondamente lo sviluppo politico.

Solo in apparenza diverso è il ruolo degli intellettuali per quanto riguarda lo sviluppo di idee più propriamente sociali. Qui le loro peculiari propensioni si manifestano nel fare i simboli delle astrazioni, nel razionalizzare e portare agli estremi certe ambizioni che scaturiscono dal normale rapporto tra uomini. Poiché la democrazia è una buona cosa, più il principio democratico può essere portato avanti, meglio sembra loro. La più potente di queste idee generali, che hanno plasmato lo sviluppo politico negli ultimi tempi, è ovviamente l’ideale dell’uguaglianza materiale. Non è, tipicamente, una delle convinzioni morali sviluppate spontaneamente, applicate per la prima volta nelle relazioni tra individui particolari, ma una costruzione intellettuale originariamente concepita in astratto e di dubbio significato o applicazione in casi particolari. Tuttavia, ha operato fortemente come principio di selezione tra i corsi alternativi di politica sociale, esercitando una pressione persistente verso un assetto degli affari sociali che nessuno concepisce chiaramente. Il fatto che una particolare misura tenda a realizzare una maggiore uguaglianza è stato considerato una raccomandazione così forte da non prendere in considerazione altro. Poiché su ogni particolare questione, è questo un aspetto su cui coloro che guidano l’opinione hanno una chiara convinzione, l’uguaglianza ha determinato il cambiamento sociale anche più fortemente di quanto intendessero i suoi sostenitori esercitando una pressione persistente verso un assetto degli affari sociali che nessuno concepisce chiaramente.

Tuttavia, non solo gli ideali morali agiscono in questo modo. A volte gli atteggiamenti degli intellettuali verso i problemi dell’ordine sociale possono essere la conseguenza di progressi nella conoscenza puramente scientifica, ed è in questi casi che le loro opinioni errate su particolari questioni possono per un certo tempo sembrare avere alle spalle tutto il prestigio dei più recenti risultati scientifici successi. Non sorprende di per sé che un autentico progresso della conoscenza diventi in tal modo a volte fonte di nuovi errori. Se nessuna falsa conclusione derivasse da nuove generalizzazioni, sarebbero verità finali che non avrebbero mai bisogno di essere riviste. Sebbene di regola una tale nuova generalizzazione condividerà semplicemente le false conseguenze che se ne possono trarre con le opinioni che erano state sostenute prima, e quindi non condurrà a nuovi errori, è molto probabile che una nuova teoria, proprio come il suo valore è mostrato dalle nuove valide conclusioni alle quali conduce, produrrà altre nuove conclusioni alle quali ulteriori progressi dimostreranno di essere stati errati. Ma in tal caso apparirà una falsa credenza con tutto il prestigio delle più recenti conoscenze scientifiche che la supportano. Sebbene nel campo particolare a cui si applica questa convinzione tutte le prove scientifiche possano essere contrarie, tuttavia, dinanzi al tribunale degli intellettuali e alla luce delle idee che governano il loro pensiero, sarà selezionata come la visione migliore in armonia con lo spirito del tempo. Gli specialisti che raggiungeranno così la fama pubblica e un’ampia influenza non saranno quindi quelli che hanno ottenuto il riconoscimento dai loro pari, ma spesso saranno uomini che gli altri esperti considerano pazzi, dilettanti o persino fraudolenti, ma che agli occhi del grande pubblico sono diventati tuttavia i più noti esponenti della sua materia.

In particolare, non vi possono essere dubbi sul fatto che il modo in cui negli ultimi cento anni l’uomo ha imparato a organizzare le forze della natura ha contribuito molto alla creazione della convinzione che un simile controllo delle forze della società avrebbe portato miglioramenti nelle condizioni umane. Che, con l’applicazione delle tecniche ingegneristiche, la direzione di tutte le forme di attività umana secondo un unico piano coerente dovrebbe dimostrare di avere tanto successo nella società quanto lo è stata in innumerevoli compiti di ingegneria, è una conclusione troppo plausibile per non sedurre la maggior parte dei coloro che sono euforici per il raggiungimento delle scienze naturali. Si deve infatti ammettere sia che sarebbero necessari argomenti potenti per contrastare la forte presunzione a favore di tale conclusione, sia che tali argomenti non sono stati ancora adeguatamente enunciati. Non è sufficiente sottolineare i difetti di proposte particolari basate su questo tipo di ragionamento. L’argomento non perderà la sua forza finché non sarà stato definitivamente provato perché ciò che si è dimostrato così eminentemente riuscito nel produrre progressi in così tanti campi dovrebbe avere limiti alla sua utilità e diventare positivamente dannoso se esteso oltre questi limiti. Questo è un compito che non è stato ancora svolto in modo soddisfacente e che dovrà essere raggiunto prima che questo particolare impulso al socialismo possa essere rimosso.
Questo, naturalmente, è solo uno dei molti casi in cui è necessario un ulteriore progresso intellettuale se le idee dannose attuali devono essere confutate e il corso che percorreremo sarà alla fine deciso dalla discussione di questioni molto astratte. Non basta che l’uomo di affari sia sicuro, dalla sua profonda conoscenza di un campo particolare, che le teorie del socialismo che derivano da idee più generali si dimostreranno impraticabili. Può avere perfettamente ragione, eppure la sua resistenza sarà sopraffatta e tutte le dolorose conseguenze che prevede seguiranno se la sua non sarà supportata da un’efficace confutazione delle idees mere. Finché l’intellettuale avrà la meglio sull’argomento generale, le obiezioni più valide della questione specifica verranno spazzate via.

V
Questa non è tutta la storia, tuttavia. Le forze che influenzano il reclutamento nelle file degli intellettuali operano nella stessa direzione e aiutano a spiegare perché tanti dei più abili tra loro tendono al socialismo. Naturalmente ci sono tante differenze di opinione tra gli intellettuali come tra altri gruppi di persone; ma sembra essere vero che sono nel complesso gli uomini più attivi, intelligenti e originali tra gli intellettuali che più spesso tendono al socialismo, mentre i suoi oppositori sono spesso di calibro inferiore. Ciò è vero in particolare durante le prime fasi dell’infiltrazione delle idee socialiste; in seguito, sebbene al di fuori dei circoli intellettuali possa esserci ancora un atto di coraggio a professare convinzioni socialiste, la pressione dell’opinione tra gli intellettuali sarà spesso così fortemente a favore del socialismo che a un uomo si richiede più forza e indipendenza per resistervi che per aderire a ciò che i suoi simili considerano visioni moderne. Nessuno, ad esempio, che abbia familiarità con un gran numero di facoltà universitarie (e da questo punto di vista la maggior parte dei docenti universitari probabilmente deve essere classificata come intellettuali piuttosto che come esperti) può rimanere ignaro del fatto che i più brillanti e di successo oggi è più probabile che siano socialisti, mentre quelli che hanno opinioni politiche più conservatrici sono altrettanto spesso mediocri. Questo è ovviamente di per sé un fattore importante che guida le giovani generazioni nel campo socialista.

Il socialista, naturalmente, vedrà in questo solo una prova che la persona più intelligente oggi è destinata a diventare socialista. Ma questa è ben lungi dall’essere la spiegazione necessaria o addirittura più probabile. La ragione principale di questo stato di cose è probabilmente che, per l’uomo eccezionalmente capace che accetta l’ordine attuale della società, sono aperte una moltitudine di altre strade per influenzare e avere potere, mentre per i disamorati e gli insoddisfatti una carriera intellettuale è la più promettente percorso sia per l’influenza che per il potere di contribuire al raggiungimento dei suoi ideali. Ancor di più: l’uomo più conservatore e dotato di capacità di prim’ordine sceglierà in generale il lavoro intellettuale (e il sacrificio in ricompensa materiale che questa scelta di solito comporta) solo se ne godrà per se stesso. Di conseguenza è più probabile che diventi uno studioso esperto piuttosto che un intellettuale nel senso specifico della parola; mentre per le mentalità più radicali la ricerca intellettuale è il più delle volte un mezzo piuttosto che un fine, un percorso verso esattamente quel tipo di ampia influenza esercitata dall’intellettuale professionale. È quindi probabilmente il fatto, non che le persone più intelligenti siano generalmente socialiste, ma che una percentuale molto più alta di socialisti tra le menti migliori si dedica a quelle attività intellettuali che nella società moderna conferiscono loro un’influenza decisiva sull’opinione pubblica, un percorso verso esattamente quel tipo di ampia influenza esercitata dall’intellettuale professionista.
La selezione del personale degli intellettuali è anche strettamente connessa con l’interesse predominante che mostrano per le idee generali e astratte. Le speculazioni sulla possibile ricostruzione dell’intera società danno all’intellettuale una tariffa molto più di suo gusto rispetto alle considerazioni più pratiche e di breve periodo di coloro che mirano a un miglioramento frammentario dell’ordine esistente. In particolare, il pensiero socialista deve il suo fascino ai giovani in gran parte per suo carattere visionario; lo stesso coraggio di indulgere nel pensiero utopistico è a questo riguardo una fonte di forza per i socialisti, di cui purtroppo manca il liberalismo tradizionale. Questa differenza opera a favore del socialismo, non solo perché la speculazione sui principi generali offre un’opportunità per il gioco dell’immaginazione di coloro che non sono ostacolati da molta conoscenza dei fatti della vita odierna, ma anche perché soddisfa un legittimo desiderio di comprensione della base razionale di qualsiasi ordine sociale e dà spazio all’esercizio di quella spinta costruttiva per la quale il liberalismo, dopo aver ottenuto le sue grandi vittorie, ha lasciato pochi sbocchi. L’intellettuale, con tutta la sua disposizione, è disinteressato ai dettagli tecnici o alle difficoltà pratiche. Ciò che lo attrae sono le ampie visioni, l’ampia comprensione dell’ordine sociale nel suo insieme che un sistema pianificato promette. ma anche perché soddisfa un legittimo desiderio di comprensione della base razionale di ogni ordine sociale e dà spazio all’esercizio di quella spinta costruttiva per la quale il liberalismo, dopo aver ottenuto le sue grandi vittorie, ha lasciato pochi sbocchi.
Questo fatto che i gusti degli intellettuali fossero meglio soddisfatti dalle speculazioni dei socialisti si rivelò fatale all’influenza della tradizione liberale. Una volta che le esigenze fondamentali dei programmi liberali sembravano soddisfatte, i pensatori liberali si sono rivolti a problemi di dettaglio e tendevano a trascurare lo sviluppo della filosofia generale del liberalismo, che di conseguenza cessò di essere una questione viva che offriva spazio per la speculazione generale. Così per più di mezzo secolo sono stati solo i socialisti a offrire qualcosa di simile a un programma esplicito di sviluppo sociale, un’immagine della società futura a cui miravano e una serie di principi generali per guidare le decisioni su questioni particolari. Anche se, se ho ragione, i loro ideali soffrono di contraddizioni intrinseche, e ogni tentativo di metterli in pratica deve produrre qualcosa di completamente diverso da quello che si aspettano, questo non toglie che il loro programma di cambiamento sia l’unico che ha effettivamente influenzato lo sviluppo delle istituzioni sociali. È perché la loro è diventata l’unica esplicita filosofia generale di politica sociale detenuta da un grande gruppo, l’unico sistema o teoria che solleva nuovi problemi e apre nuovi orizzonti, che sono riusciti a ispirare l’immaginazione degli intellettuali.

Gli sviluppi effettivi della società durante questo periodo furono determinati non da una battaglia di ideali contrastanti, ma dal contrasto tra uno stato di cose esistente e quell’unico ideale di una possibile società futura che solo i socialisti sostenevano davanti al pubblico. Pochissimi degli altri programmi che si offrivano fornivano vere alternative. La maggior parte di loro erano semplici compromessi o case a metà strada tra i tipi più estremi di socialismo e l’ordine esistente. Tutto ciò che era necessario per far apparire ragionevole quasi ogni proposta socialista a queste menti “giudiziose” che erano costituzionalmente convinte che la verità dovesse sempre trovarsi nel mezzo tra gli estremi, era che qualcuno sostenesse una proposta sufficientemente più estrema. Sembrava esistere solo una direzione in cui potevamo muoverci,

VI
Il significato dell’appello speciale agli intellettuali che il socialismo deriva dal suo carattere speculativo diventerà più chiaro se confrontiamo ulteriormente la posizione del teorico socialista con quella della sua controparte che è un liberale nel vecchio senso della parola. Questo confronto ci condurrà anche a qualunque lezione possiamo trarre da un adeguato apprezzamento delle forze intellettuali che stanno minando le basi di una società libera.

Paradossalmente, uno dei principali handicap che priva il pensatore liberale dell’influenza popolare è strettamente connesso al fatto che, fino a quando il socialismo non è effettivamente arrivato, ha più opportunità di influenzare direttamente le decisioni sulla politica attuale e che di conseguenza non solo non lo è. è tentato in quella speculazione di lungo periodo che è la forza dei socialisti, ma in realtà ne è scoraggiato perché qualsiasi sforzo di questo tipo rischia di ridurre il bene immediato che può fare. Qualunque potere abbia per influenzare le decisioni pratiche lo deve alla sua posizione con i rappresentanti dell’ordine esistente, e questa posizione la metterebbe in pericolo se si dedicasse al tipo di speculazione che farebbe appello agli intellettuali e che attraverso di loro potrebbe influenzare gli sviluppi periodi più lunghi. Per sostenere il peso con i poteri forti, deve essere “pratico”, “ragionevole” e “realistico”. Finché si occupa delle questioni immediate, viene ricompensato con influenza, successo materiale e popolarità con coloro che fino a un certo punto condividono la sua visione generale. Ma questi uomini hanno poco rispetto per quelle speculazioni sui principi generali che modellano il clima intellettuale. In effetti, se si abbandona seriamente a una simile speculazione di lungo periodo, tende ad acquisire la reputazione di essere “malsano” o addirittura mezzo socialista, perché non è disposto a identificare l’ordine esistente con il sistema libero a cui mira.
Se, nonostante ciò, i suoi sforzi continuano nella direzione della speculazione generale, scopre presto che non è sicuro associarsi troppo da vicino a coloro che sembrano condividere la maggior parte delle sue convinzioni, e viene presto portato all’isolamento. In effetti, oggi ci possono essere pochi compiti più ingrati di quello essenziale di sviluppare il fondamento filosofico su cui deve basarsi l’ulteriore sviluppo di una società libera. Poiché l’uomo che lo intraprende deve accettare gran parte della struttura dell’ordine esistente, apparirà a molti degli intellettuali più speculativi semplicemente come un timido apologeta delle cose così come sono; allo stesso tempo sarà liquidato dagli uomini di affari come un teorico poco pratico. Non è abbastanza radicale per chi conosce solo il mondo dove “con disinvoltura abitano insieme i pensieri” e troppo radicale per coloro che vedono solo quanto “duramente nello spazio si scontrano insieme le cose”. Se approfitta del sostegno che può ottenere dagli uomini di affari, quasi certamente si screditerà con coloro dai quali dipende per la diffusione delle sue idee. Allo stesso tempo avrà bisogno di molta attenzione per evitare qualsiasi cosa che assomigli a stravaganza o esagerazione. Mentre nessun teorico socialista è mai stato conosciuto per screditare se stesso con i suoi simili anche con la più sciocca delle proposte, il liberale vecchio stile si dannerà con un suggerimento impraticabile. Eppure per gli intellettuali non sarà ancora abbastanza speculativo o avventuroso, e i cambiamenti e miglioramenti nella struttura sociale che dovrà offrire sembreranno limitati rispetto a ciò che concepisce la loro immaginazione meno contenuta.

Almeno in una società in cui i principali requisiti di libertà sono già stati conquistati e ulteriori miglioramenti devono riguardare punti di dettaglio comparativo, il programma liberale non può avere nulla del fascino di una nuova invenzione. L’apprezzamento dei miglioramenti che ha da offrire richiede una maggiore conoscenza del funzionamento della società esistente di quella che possiede l’intellettuale medio. La discussione di questi miglioramenti deve procedere su un piano più pratico di quello dei programmi più rivoluzionari, dando così un colore che ha poco fascino per l’intellettuale e tendente a portare elementi verso i quali si sente direttamente antagonista. Coloro che hanno più familiarità con il funzionamento della società attuale sono anche solitamente interessati alla conservazione di caratteristiche particolari di quella società che possono non essere difendibili in base a principi generali.

La difficoltà di trovare un sostegno genuino e disinteressato per una politica sistematica per la libertà non è nuova. In un passaggio che spesso mi ha ricordato la ricezione di un mio libro recente, Lord Acton molto tempo fa ha descritto come “in ogni momento gli amici sinceri della libertà sono stati rari, ei suoi trionfi sono stati dovuti alle minoranze, che hanno prevalso associandosi con altri i cui obiettivi differivano dai loro; e questa associazione, che è sempre pericolosa, è stata talvolta disastrosa, dando agli oppositori giusti motivi di opposizione … ” Più recentemente, uno dei più illustri economisti americani viventi si è lamentato in modo simile che il compito principale di coloro che credono nei principi fondamentali del sistema capitalista deve essere spesso quello di difendere questo sistema contro i capitalisti, anzi i grandi economisti liberali, da Adam Smith ad oggi, l’hanno sempre saputo.

L’ostacolo più serio che separa gli uomini pratici che hanno veramente a cuore la causa della libertà da quelle forze che nel regno delle idee decidono il corso dello sviluppo è la loro profonda sfiducia nei confronti della speculazione teorica e la loro tendenza all’ortodossia; questo, più di ogni altra cosa, crea una barriera quasi invalicabile tra loro e quegli intellettuali devoti alla stessa causa e la cui assistenza è indispensabile se si vuole che la causa prevalga. Sebbene questa tendenza sia forse naturale tra gli uomini che difendono un sistema perché si è giustificato nella pratica, e ai quali la sua giustificazione intellettuale sembra irrilevante, è fatale alla sua sopravvivenza perché lo priva del sostegno di cui ha più bisogno. Ortodossia di qualsiasi tipo, qualsiasi pretesa che un sistema di idee sia definitivo e debba essere accettato senza dubbio nel suo insieme, è l’unico punto di vista che necessariamente antagonizza tutti gli intellettuali, qualunque sia il loro punto di vista su questioni particolari. Qualsiasi sistema che giudichi gli uomini dalla completezza della loro conformità a un insieme fisso di opinioni, dalla loro “solidità” o dalla misura in cui si può fare affidamento su di essi per avere opinioni approvate su tutti i punti, si priva di un sostegno senza il quale nessuna delle idee può mantenere la sua influenza nella società moderna. La capacità di criticare le opinioni accettate, di esplorare nuovi panorami e di sperimentare nuove concezioni, fornisce l’atmosfera senza la quale l’intellettuale non può respirare. Una causa che non offre spazio a questi tratti non può avere alcun sostegno da parte sua ed è quindi condannata in qualsiasi società che, come la nostra, si basi sui suoi servizi. Qualsiasi sistema che giudichi gli uomini dalla completezza della loro conformità a un insieme fisso di opinioni, dalla loro “solidità” o dalla misura in cui si può fare affidamento su di essi per avere opinioni approvate su tutti i punti, si priva di un sostegno senza il quale nessuna delle idee può mantenere la sua influenza nella società moderna. La capacità di criticare le opinioni accettate, di esplorare nuovi panorami e di sperimentare nuove concezioni, fornisce l’atmosfera senza la quale l’intellettuale non può respirare. Una causa che non offre spazio a questi tratti non può avere alcun sostegno da parte sua ed è quindi condannata in qualsiasi società che, come la nostra, si basi sui suoi servizi. Qualsiasi sistema che giudichi gli uomini dalla completezza della loro conformità a un insieme fisso di opinioni, dalla loro “solidità” o dalla misura in cui si può fare affidamento su di essi per avere opinioni approvate su tutti i punti, si priva di un sostegno senza il quale nessuna delle idee può mantenere la sua influenza nella società moderna. La capacità di criticare le opinioni accettate, di esplorare nuovi panorami e di sperimentare nuove concezioni, fornisce l’atmosfera senza la quale l’intellettuale non può respirare. Una causa che non offre spazio per questi tratti non può avere alcun sostegno da lui ed è quindi condannata in qualsiasi società che, come la nostra, si basi sui suoi servizi. si priva di un supporto senza il quale nessun insieme di idee può mantenere la sua influenza nella società moderna. La capacità di criticare le opinioni accettate, di esplorare nuovi panorami e di sperimentare nuove concezioni, fornisce l’atmosfera senza la quale l’intellettuale non può respirare. Una causa che non offre spazio per questi tratti non può avere alcun sostegno da lui ed è quindi condannata in qualsiasi società che, come la nostra, si basi sui suoi servizi, si priva di un supporto senza il quale nessun insieme di idee può mantenere la sua influenza nella società moderna.

VII
Può darsi che una società libera come l’abbiamo conosciuta porti in sé le forze della sua stessa distruzione, che una volta raggiunta la libertà sia data per scontata e cessi di essere apprezzata, e che la libera crescita delle idee che è l’essenza di una società libera porterà alla distruzione delle fondamenta da cui dipende. Non c’è dubbio che in paesi come gli Stati Uniti l’ideale di libertà oggi ha meno fascino reale per i giovani di quanto non lo sia nei paesi in cui hanno imparato cosa significa la sua perdita. D’altra parte, c’è ogni segno che in Germania e altrove, per i giovani che non hanno mai conosciuto una società libera, il compito di costruirne una può diventare eccitante e affascinante come qualsiasi schema socialista apparso negli ultimi cento anni. È un fatto straordinario, sebbene molti visitatori abbiano sperimentato, che parlando agli studenti tedeschi dei principi di una società liberale si trova un pubblico più reattivo e persino entusiasta di quanto si possa sperare di trovare in una qualsiasi delle democrazie occidentali. Anche in Gran Bretagna sta già manifestandosi tra i giovani un nuovo interesse per i principi del vero liberalismo che certamente non esisteva fino a pochi anni fa.

Significa questo che la libertà viene valorizzata solo quando è perduta, che il mondo deve attraversare ovunque una fase oscura di totalitarismo socialista prima che le forze della libertà possano riprendere forza? Può essere così, ma spero che non sia necessario. Tuttavia, finché le persone che per periodi più lunghi determinano l’opinione pubblica continueranno ad essere attratte dagli ideali del socialismo, la tendenza continuerà. Se vogliamo evitare un simile sviluppo, dobbiamo essere in grado di offrire un nuovo programma liberale che faccia appello all’immaginazione. Dobbiamo rendere ancora una volta la costruzione di una società libera un’avventura intellettuale, un atto di coraggio. Ciò che ci manca è un’utopia liberale, un programma che non sembra né una mera difesa delle cose come sono né un tipo diluito di socialismo, ma un radicalismo veramente liberale che non risparmia le suscettibilità dei potenti (compresi i sindacati), che non è troppo rigorosamente pratico e che non si limita a ciò che oggi appare politicamente possibile. Abbiamo bisogno di leader intellettuali che siano disposti a lavorare per un ideale, per quanto piccole possano essere le prospettive della sua prima realizzazione. Devono essere uomini disposti ad attenersi ai principi e a lottare per la loro piena realizzazione, per quanto remota. I compromessi pratici si devono lasciare ai politici. Il libero scambio e la libertà di opportunità sono ideali che possono ancora suscitare l’immaginazione di grandi numeri, ma una semplice “ragionevole libertà di commercio” o un semplice “allentamento dei controlli” non sono intellettualmente rispettabili né suscettibili di suscitare entusiasmo, e che non si limita a ciò che oggi appare politicamente possibile.
La lezione principale che il vero liberale deve imparare dal successo dei socialisti è che è stato il loro coraggio di essere utopisti a far guadagnare loro il sostegno degli intellettuali e quindi un’influenza sull’opinione pubblica che rende ogni giorno possibile ciò che solo di recente sembrava del tutto remoto. Coloro che si sono occupati esclusivamente di ciò che sembrava praticabile nello stato d’opinione esistente hanno costantemente scoperto che anche questo è diventato rapidamente politicamente impossibile a causa dei cambiamenti nell’opinione pubblica che non hanno fatto nulla per guidare. A meno che non riusciamo a rendere le basi filosofiche di una società libera ancora una volta una questione intellettuale vivente, e la sua attuazione un compito che sfida l’ingegnosità e l’immaginazione delle nostre menti più vivaci. Ma se riusciamo a riguadagnare quella fiducia nel potere delle idee che era il segno distintivo del liberalismo al suo meglio, la battaglia non è persa. La rinascita intellettuale del liberalismo è già in atto in molte parti del mondo. Arriverà in tempo?

Friedrich A. von Hayek

La Libertà come essenza dell’Umanità: la risposta cristiana di Kierkegaard all’hegelismo

Ritratto di Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855)

“Le nature profonde non perdono mai la memoria di sé stesse e non divengono mai altro da quello che sono state.” Søren Kierkegaard.

Una delle risposte al pensiero assolutista di Hegel è quella che formulò Søren Kierkegaard più o meno negli stessi anni, elaborando una complessa ed articolata teoria su basi cristiane ed aristoteliche, che metteva al centro l’uomo come soggetto libero, autonomo dallo Stato e da ogni altra struttura umana. Kierkegaard infatti contesta il filosofo tedesco, affermando che l’esistenza è del singolo, e non può essere ascritta a nessuna entità sovraindividuale.
Il singolo è l’uomo che avendo preso coscienza della propria natura, vive una condizione di distacco e di consapevolezza superiore mettendosi in rapporto con l’Assoluto senza intermediazioni essendo sovraordinato al generale.
Scrive il prof. mons. Mariano Fazio della Facoltà di Filosofia del Pontificio Ateneo della Santa Croce di Roma in Acta Philosophica vol. 5 (1996), fasc. 2 -pagg. 221-249 “il singolo viene presentato dallo stesso Kierkegaard come la mia categoria. Sta di fatto che si può intendere l’intera produzione kierkegaardiana come un pensare soggettivamente il singolo. Pensiero etico carico di conseguenze pratiche, giacché il danese non pretendeva fondare una scuola filosofica ma soltanto rendere attenti, svegliare le coscienze. Il sistema onnicomprensivo non lascia spazio alla libertà: il sistema ridurrà la libertà a consapevolezza della necessità. La m e d i a z i o n e tra gli opposti, operata dalla dialettica hegeliana, sarà la vita dell’Assoluto, il processo necessario del suo divenire. Una mediazione dunque necessaria e non libera, dove le “libere” scelte individuali sono solo momenti dell’automanifestazione della vita assoluta dell’Assoluto. Assoluto che si identifica col mondo e con la storia universale. In questo contesto si capisce bene l’affermazione chiara e tonda di Kierkegaard: ogni confusione dei tempi moderni consiste nell’aver dimenticato la differenza assoluta, la differenza qualitativa tra Dio e il mondo.”
L’avere dato nel sistema hegeliano una connotazione divina allo Stato come manifestazione dello Spirito, ha creato tutti i presupposti perché si sviluppassero le linee di pensiero, sia con il nazismo che con il comunismo, che hanno schiacciato l’uomo e la sua libertà in nome dell’assolutizzazione dello Stato come entità eticamente superiore che in qualsiasi momento decide della vita e della morte delle persone secondo i principi ispiratori dello stesso, annullando la libertà dell’individuo ed anche la sua responsabilità. Questo processo deresponsabilizzando il singolo ha avuto gioco facile nell’imporgli scelte, che se anche non totalmente condivise, lo sollevavano dalla difficoltà, alle volte tragica, di scegliere liberamente tra il bene e il male.
Dice il filosofo danese in Timore e Tremore “il paradosso della fede consiste dunque nel fatto che l’individuo è superiore al generale, in modo che (per ricordare una distinzione dogmatica) oggi raramente impiegata, l’individuo determina il rapporto col generale mediante il suo rapporto con l’assoluto e non già il suo rapporto con l’assoluto mediante il suo rapporto col generale……L’eroe tragico rinuncia a se stesso per esprimere generale; Il cavaliere della fede rinuncia al generale per diventare individuo.” Egli introduce anche il significato dell’essere cavaliere, soggetto per antonomasia, capace di grandi imprese ma al contempo uomo solo con la sua fede e Dio come riferimento, ancorato all’Assoluto come scelta libera e nello stesso tempo obbligata per un animo superiore.
Afferma Kierkegaard sempre in Timore e Tremore “il cavaliere della fede sa che è cosa magnifica appartenere al generale. Sa che è bello ed utile essere l’individuo che si traduce nel generale e che, per così dire, offre di sé stesso una edizione pura, elegante, corretta al massimo, intelligibile a tutti; conosce il conforto di diventare comprensibile a se stesso nel generale, in modo da comprendere quest’ultimo e in modo che ogni individuo che comprenda lui stesso, comprenda anche il generale, ambedue trovando la loro gioia nella fiducia del generale. Sa come è bello essere nato quale individuo che nel generale ha propria patria, la propria dimora amica, sempre pronta a riceverlo quando voglia abitarla. Ma sa anche che sopra quella regione serpeggia un cammino solitario, stretto e ripido; sa quanto sia terribile essere nato solitario fuori dal generale, e camminare senza incontrare mai un solo compagno di strada. Sa perfettamente dove egli è, e come si comporta verso gli uomini. Per essi è un pazzo e nessuno può comprenderlo.” Questa solitudine è anche la sua salvezza, la possibilità per lui di raggiungere la pienezza della sua esistenza.
Inoltre Kierkegaard, si occupa principalmente di un aspetto dell’esistenza: il Singolo come individuo concreto. Egli ribalta la nozione hegeliana di “concretezza”: essa non è più la totalità, ma l’individuo. Dice Kierkegaard in La malattia mortale (Le grandi opere filosofiche e teologiche, trad. it. a cura di C. Fabro, Bompiani/RCS Libri spa – collana Il pensiero occidentale, Milano, 2013, p. 1689) “l’io è la sintesi cosciente di infinito e finito, che si mette in rapporto con sé stessa, il cui compito è divenire sé stessa, compito che non si può risolvere mediante il rapporto a Dio. Ma diventare sé stesso è diventare concreto. Diventare concreto, poi, non è né diventare finito, né diventare infinito, perché ciò che deve diventare concreto è una sintesi. Lo sviluppo deve quindi consistere nel distaccarsi infinitamente da sé stesso infinitizzando l’Io e nel ritornare infinitamente a sé stesso, rendendolo finito”.
Come già sosteneva Aristotele, l’esistenza è propria solo dell’individuo nella sua specifica concretezza possedendo anche aspetti particolari e irripetibili che lo caratterizzano personalmente, e che non si possono ascrivere alla sua essenza universale. Da questa idea ne discende l’irripetibilità di tutte le forme di vita, sia umana o animale piuttosto che vegetale, pensando come unico l’essere vivente lo libera dalla tirannia della massa e da quella di qualsiasi organizzazione sovraindividuale. La sua stessa vita è unica ed irripetibile e degna di essere vissuta pienamente. Questo principio se applicato alle nostre strutture politiche e sociali libererebbero l’individuo dalle costrizioni massificatrici e mistificatrici tipiche dei tempi contemporanei dove l’uomo viene ridotto o a elemento numerico all’interno di una più grossa categoria come per esempio quella dei proletari o dei cittadini soldato.
“Tutto ciò ch’è massa, dirà Kierkegaard nel 1854, è dal punto di vista cristiano eo ipso perduto; perché la massa dal punto di vista cristiano è la categoria della perdizione. La salvezza sarebbe nella massa soltanto quando tutti diventassero Singoli e non ci fosse affatto massa, soltanto allora sarebbe possibile che tutti potessero andar salvi.” “Non giova se forse tu volevi far finta che solo per umiltà ti sei intruppato nella massa, ch’eri troppo umile per voler essere un Singolo. Oh, amico mio, la sovranità divina non conosce che troppo bene gli imbrogli dell’uomo e che, anche sotto pretesto di umiltà, non si tratta che di diventare massa, perché nella “massa” sta la forza dell’uomo. Ma il Dio dell’amore è nello stesso tempo un sovrano infinitamente saggio: Egli conosce la rivolta sfacciata non meno bene della rivolta di questi furfanti i quali, sotto pretesto di umiltà e di modestia, si impadroniscono astutamente del potere […] Appena si fa avanti la massa Dio diventa invisibile: questa massa, onnipotente, può, si placet, sbattere il naso contro la porta d’ingresso, ma non va più avanti, perché Dio esiste solo per il Singolo: questa è la Sua sovranità. Non è con Lui come con la maestà umana a cui il maggiordomo va a riferire dicendo: “Sua Maestà dovrà mostrarsi al balcone, ci sono ora all’incirca 20.000 persone che attendono sulla strada!”. No, quando si assembrano 20.000 uomini en masse, Dio non si fa affatto vedere. Quando c’è il Singolo, sì, allora la Maestà divina (divina anche in questo e così al disopra di tutte le forme che non occorre alcun intermediario, oh che maestà e che amore infinito! neppure un Angelo fra Lui e questo Singolo) si fa subito vedere, perché essa esiste per il Singolo.”

La criticità e il limite del pensiero hegeliano è proprio quella di avere annullato l’individuo nella massa rendendolo schiavo della stessa, cosa che invece kierkegaard ha ribaltato talmente: non è più l’individuo che sta nella massa da cui trae la sua radice e la sua ragione d’essere ma è al contrario perché l’individuo dal Generale si libera si innalza sopra di esso e ad esso partecipa come cavaliere della Fede con distacco, ma nello stesso tempo con la consapevolezza di essere da solo in una battaglia esistenziale reale che lo vede protagonista come cavaliere dell’Assoluto. Questo passaggio è fondamentale, così l’individuo è la persona unica e irripetibile contro la massificazione generale, che lo vorrebbe chiavo o servitore.
Egli ritiene che siano l’elite, le minoranze e i gruppi a fare la storia ed in questo cambia totalmente la prospettiva hegeliana. Scrive infatti in Diario “in ogni campo e per ogni oggetto sono sempre le minoranze, i pochi, i rarissimi, i Singoli quelli che sanno: la Folla è ignorante.” Inoltre per lui il singolo non può essere sacrificato per la sopravvivenza della specie o del gruppo a cui appartiene, anche perchè ogni individuo è stato creato come immagine e somiglianza di Dio. Ma v’è di più, perché in questo contesto nasce l’esigenza per il filosofo di definire cosa contraddistingue l’uomo dagli altri esseri viventi ed è la libertà di scelta e di decisione, che lo differenzia dagli animali i quali sono condizionati dall’istinto.
Nei sistemi totalitari l’uomo viene annullato e ridotto allo stato animalesco, proprio perché gli viene negata la possibilità di decidere autonomamente sul bene e sul male, eliminando la responsabilità come categoria quindi deresponsabilizzando e liberandolo dall’angoscia della decisione. Ecco perché ogni sistema che si regge sulle fobie recondite dell’animo umano è ben saldo: di fronte alla paura spesso gli uomini preferiscono rifugiarsi in un illusoria promessa di protezione anche se difficilmente garantita, che reclamare la propria libertà. E il caso per esempio dei regimi comunisti, che nonostante tutti i tragici fallimenti a cui abbiamo assistito nell’arco degli anni, dall’URSS a tutte le repubbliche socialiste dell’Europa dell’est, ancora resistono in diverse parti del mondo, sia offrendo la certezza di un lavoro, anche se disumano e mal retribuito, sia mettendo in atto ogni possibile metodo repressivo di qualsivoglia opposizione, e terrorizzando la popolazione con lo spauracchio del libero mercato e la perdita della tutela del piccolo reddito statale o magari ipotizzando una immaginaria aggressione di uno stato nemico. Meglio la sicurezza, dice l’uomo della strada, che la libertà, perché la possibilità genera nell’uomo il sentimento dell’angoscia.
Allora Kierkegaard distingue tre possibilità di scelta: quella dell’esistenza estetica, etica o religiosa che si presentano al singolo come opzioni tra le quali egli può orientarsi, ma l’una esclude le altre cosicché, non c’è sintesi come conciliazione e armonia fra gli opposti, ma solo un salto tra un opposto e l’altro. La dialettica hegeliana si può esprime nella formula “et-et”, mentre quella kierkegaardiana in “aut-aut”, che implica una scelta esclusiva di uno degli opposti.
L’esistenza estetica è quella in cui l’uomo vive edonisticamente andando alla ricerca della bellezza e del piacere e a loro piega tutti gli altri aspetti della vita divenendo indifferente ai princìpi, ai valori morali e alle leggi etiche tradizionali. In questo contesto la sua esistenza ben presto declinerà nella noia ed appena cessa di ricercare il suo piacere ed inizia a riflettere sulla sua condizione effimera, viene assalito dalla disperazione, poiché coglie il suo vuoto esistenziale in cui manca sia un senso che un centro. Una volta raggiunta questa consapevolezza connessa alla vita estetica, egli può liberamente decidere di cambiare tipo di vita, passando a quella etica.
Nello stadio etico, l’uomo vive conformemente a ideali morali e si assume alcune responsabilità come quelli della famiglia, del lavoro, dell’impegno nella società ed affronta con serenità i sacrifici necessari per restare fedele ai suoi doveri.
Però anche la vita etica è limitata perché essa è caratterizzata da convenzionalismo e conformismo. Inoltre l’uomo “etico” non realizza completamente la sua autentica individualità, si perde nell’anonimato e non trova la sua personalità, pertanto è necessario il salto allo stadio religioso, come presa di coscienza di questa insufficienza, infatti l’etica pura propone degli ideali assoluti difficili da realizzare a differenza di quanto sostenuto da Hegel e pertanto arriva quindi alla conclusione di dover essere insoddisfatti della propria vita visto che in essa non troviamo qualcosa che sia assolutamente buono. Questa condizione può portare ad un immobilismo spirituale tipico dello scoraggiamento che può essere superato attraverso l’esperienza religiosa.
Kierkegaard descrive lo stadio religioso nell’opera Timore e Tremore nel quale l’uomo realizza veramente sé stesso come singolarità, come individuo in rapporto diretto con Dio, difronte al quale deve lasciare finzioni, mascheramenti ed illusioni, mostrandosi a Dio e a sé stesso nella sua vera individualità, in una dimensione interiore profonda e personale, in cui Dio può prescrivergli un ordine che sfida le leggi dell’etica come prova della sua fedeltà.
Il cavaliere della fede, come lo definisce lui, a questo punto si troverà in condizione di superiorità rispetto all’universale grazie al rapporto individuale che ha con l’Assoluto.
Ed ecco che compare il libero arbitrio e la libertà, perché essa è la possibilità di scegliere tra queste possibilità, perché la vita dell’uomo è fondata sulla scelta, sulla decisione tra possibilità diverse che caratterizzano l’esistenza della persona. La vita dell’animale è determinata dalle caratteristiche della specie a cui appartiene, secondo le sue necessità, invece, la vita dell’uomo è segnata dal libero arbitrio. Nell’esistenza umana nulla è necessario: tutto è possibile, a differenza di quanto sostiene Hegel. Infatti per il filosofo tedesco tutto avviene dialetticamente e necessariamente ed in modo inevitabile, per esempio l’uomo si costituisce prima come essere etico nello Stato; poi come essere estetico, religioso, e infine filosofico. Al contrario, per Kierkegaard, ogni passaggio avviene per libera scelta, per Hegel nel terzo momento i primi due sono conservati (anche se superati), invece, per il danese, attività estetica, etica e religiosa sono abbandonati in quanto contrapposti. Fra di essi c’è un abisso e un salto. La dialettica di Kierkegaard non ammette sintesi, cioè conciliazione e armonia fra gli opposti, ma solo passaggio brusco da un opposto all’altro, e i due opposti si escludono a vicenda senza conciliarsi. Per esempio, tra la vita religiosa e le altre forme di esistenza non c’è mediazione: non è possibile essere cristiani “fino a un certo punto”. O lo si è interamente o non lo si è. La dialettica hegeliana si può riassumere nella formula “et-et”, mentre la dialettica kierkegaardiana nella formula “aut-aut”, che sta a indicare la scelta esclusiva di uno degli opposti.
Afferma Roberto Garaventa, professore ordinario di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti Pescara, Dipartimento di Scienze Economico-Quantitative e Filosofico-Educative in La Libertà in Kierkegaard “la libertà è per Kierkegaard «infinita possibilità di potere», ovvero possibilità di scegliere tra molteplici (se non addirittura infinite) possibilità. La libertà è scelta…..L’uomo è chiamato a scegliersi, a dare cioè un’impronta e una direzione precisa alla sua esistenza, non solo perché è quello che è in base appunto alle sue scelte e alle sue decisioni, ma soprattutto perché per Kierkegaard, che è un filosofo cristiano, dalle sue scelte dipende il suo destino eterno. Il singolo non ha un’essenza predefinita, predeterminata o precostituita, ma è ciò che decide di essere, è ciò che si fa in base alle sue scelte e alle sue decisioni (concezione nonsostanzialistica del singolo). A differenza delle cose che sono soltanto ciò che sono e non possono essere diversamente (cioè non possono mutare), l’uomo è una realtà non-definita, non-determinata, che ha da scegliere tra infinite possibilità. Come diranno Heidegger e Sartre, se nelle cose l’essenza precede l’esistenza, nell’uomo l’esistenza precede l’essenza……La vita individuale non si esaurisce però nella partecipazione all’universalmente-umano, ma si costituisce soltanto nella decisione cosciente rispetto all’universale: con ogni singola scelta l’individuo individualizza l’ineludibile rapporto con l’universale…….Il singolo però è anche «una sintesi» di anima e di corpo, di eternità e temporalità, come si afferma ne Il concetto dell’angoscia, ovvero di finito e infinito, di necessità e possibilità, come si afferma ne La malattia per la morte, mentre lo spirito (l’Io, il Sé) è il terzo elemento sintetizzante, quello che è chiamato a porre la sintesi tra corpo e anima, tra temporalità e eternità, scegliendo se fondarsi sul finito o sull’Infinito, come si afferma ne Il concetto dell’angoscia, ovvero a porre in relazione finito e infinito, possibilità e necessità, fondandosi su Dio (sulla “potenza che l’ha posto”), come si afferma ne La malattia per la morte.
Infatti «una sintesi non è pensabile se i due elementi non si uniscono in un terzo. Questo terzo è lo spirito […] Lo spirito dunque è presente, ma come immediato, come sognante. Ora, in quanto è presente, esso è, in un certo senso, una potenza ostile, perché disturba continuamente il rapporto tra l’anima e il corpo: rapporto che sì esiste, ma anche non esiste, in quanto ottiene l’esistenza soltanto dallo spirito. D’altra parte esso è una potenza amica appunto perché vuole fondare il rapporto». Kierkegaard pensa però la libertà non astrattamente, ma nel suo farsi concreto….La scelta è quindi essenziale alla libertà: dove non c’è scelta, la libertà è un’illusione; dove dominano irresolutezza e arbitrarietà, la libertà è un’astrazione e una finzione…..Solo la libertà che si decide appassionatamente per il bene, solo la libertà che, superando l’indecisione e la paura, si risolve per Dio e si abbandona a Lui, si realizza conformemente alla sua essenza e alla sua destinazione.”
Una visione della realtà ribaltata rispetto ad Hegel in cui la responsabilità e la libertà sono proprie della persona indipendemente dalle condizioni al contorno e non ricevono legittimità dalla Stato ma dal rapporto dell’io con Dio. Difatti allacciandosi al pensiero di Aristotele, Kierkegaard afferma che “l’esistenza è sempre la realtà singola, l’astratto non esiste”. Il danese riporta la realtà alla sua vera essenza dicendo “se il pensare potesse dare la realtà nel senso di realtà, e non una realtà di pensiero nel senso di possibilità, bisognerebbe anche che il pensare potesse prendere esistenza, sottraendo all’esistenza l’unica realtà alla quale esso si rapporta come realtà, la sua propria […]: cioè, l’esistente dovrebbe col pensiero sopprimere se stesso nel senso della realtà, così da cessare anche di esistere. Oso pensare che nessuno vorrà accettare questa supposizione, che viceversa tradirebbe altrettanta fede superstiziosa nel puro pensiero come quella battuta di un pazzoide (che si legge in un poeta), che voleva scendere nel Dovre-Fjellme far saltare in aria con un sillogismo tutto il mondo. Si può essere distratti o si può diventare distratti per il continuo commercio con il pensiero puro; ma questa non è una cosa che possa riuscire, anzi fallisce completamente […] Io posso astrarre da me stesso, ma il fatto ch’io faccio astrazione da me stesso significa precisamente che nello stesso tempo io esisto”.
Scrive il prof. Mons. Mariano Fazio “nella Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole di Filosofia”, Kierkegaard tenta di demolire l’identificazione idealista tra pensiero ed essere. Secondo il nostro filosofo la speculazione cerca di raggiungere la realtà dall’interno del pensiero affermando che «il pensiero non è solamente in grado di pensare, ma di conferire realtà». Per Kierkegaard invece l’esistente non si lascia pensare. Intende qui per esistere l’esistenza etica del singolo: «Esistere (nel senso di essere quest’uomo singolo) è senza dubbio una imperfezione in confronto con la vita eterna dell’idea, ma è una perfezione rispetto al non essere affatto. Una simile condizione intermedia è press’a poco l’esistere, qualcosa che conviene a una natura intermedia quale è l’uomo». Kierkegaard ammette la possibilità di un sistema logico, ma nega assolutamente la possibilità di un sistema dell’esistenza…….Il singolo, perciò, non appartiene al mondo della necessità — logica, natura, storia universale — ma a quello etico della libertà.”
Secondo Kierkegaard “l’io è libero non perché si trasferisce e si annienta nell’Infinito, neppure perché si lascia essere […] nel finito, ma perché si erge come affermazione di capacità di scegliere l’Assoluto”.
Aggiunge il prof. Mons. Mariano Fazio “la sintesi tra anima e corpo viene denominata spirito. Lo spirito pone il rapporto tra anima e corpo, dove si desta l’autocoscienza. Quando l’uomo inizia a riflettere, dopo la tappa innocente dell’infanzia, lo spirito mette l’una di fronte all’altro, l’anima e il corpo: l’io conosce i loro significati, le loro determinazioni e le loro possibilità, la loro complementarietà e la loro opposizione. Inizia così il processo dell’autocostituirsi del singolo, dell’autoaffermazione.
L’io si costituisce in un doppio rapporto: corpo ed anima si devono mettere in rapporto attraverso lo spirito, ma lo spirito allo stesso tempo è un rapporto con se stesso. Nel suo doppio rapportarsi, l’io deve scegliere se fondare l’io su un terzo, cioè sulla potenza che ha posto lo spirito, Dio, o autofondarsi su se stesso. L’io che si fonda sull’Assoluto è libertà, l’io che ha scelto se stesso come autofondante è disperazione…..Dopo queste analisi, il singolo kierkegaardiano appare come:
a) un essere individuale: le uniche cose che esistono sono singolari, l’astratto non esiste;
b) dialettico: nell’uomo ci sono diverse componenti che si devono sintetizzare;
c) in divenire: la sintesi dello spirito non è qualcosa di dato, ma uno sforzo libero
etico-religioso per trovare l’unità nel fondarsi dell’io sull’Assoluto;
d) fondato e finalizzato teologicamente: il singolo si autoafferma come un se stesso solo davanti a Dio; il mancato fondarsi sull’Assoluto porta l’io alla disperazione e alla perdita di se stesso.”
Dice Kierkegaard in La malattia mortale “ l’uomo è spirito. Ma cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. E l’io cos’è? È un rapporto che si rapporta a se stesso oppure è, nel rapporto, il rapportarsi che il rapporto si rapporta a se stesso: l’io non è il rapporto, ma il rapportarsi a se stesso. L’uomo è una sintesi d’infinito e di finito, di tempo e di eternità, di possibilità e necessità, insomma una sintesi[…].
Infatti, la formula che descrive lo stato dell’io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto.”
In questa prospettiva nell’ordine umano, l’uomo è davvero libero e responsabile delle sue azioni anche volte al male a differenza di quanto afferma l’hegelismo, di cui il nostro dice in Diario “quante volte ho scritto che Hegel fa in fondo degli uomini, come il paganesimo, un genere animale dotato di ragione. Perché in un genere animale vale sempre il principio: il Singolo è inferiore al genere. Il genere umano ha la caratteristica, appunto perché ogni Singolo è creato ad immagine di Dio, che il Singolo è più alto del genere……No, l’errore è principalmente in questo: che l’universale, in cui l’hegelismo fa consistere la verità (e il Singolo diviene la verità, se è sussunto in esso), è un astratto, lo Stato, ecc.”
Scrive Cornelio Fabro, il maggiore studioso di Kierkegaard del Novecento e traduttore dei suoi Diari dalla lingua originale, in Tra Kierkegaard e Marx – Opere complete vol.9 “l’uomo moderno cerca un colloquio essenziale e non vuol più credere ai «surrogati della salvezza» in cui si è esercitato l’illuminismo, l’idealismo e il positivismo: la Ragione, l’Idea, la Scienza… e quanti altri assoluti l’uomo si è fabbricati con le sue mani, si sono infranti, lasciando l’uomo in preda allo smarrimento per l’incombente minaccia delle forze elementari dello spirito e della materia che ora si scatenano nel mondo. Le «libertà» quali sono prospettate dall’esistenzialismo e dal marxismo presentano le stesse incognite del potenziale della bomba atomica a cui resta sospesa la sopravvivenza della nostra civiltà: è alla libertà dell’uomo, alla sua decisione, che tocca decidere del suo essere e di quello del mondo. Si tratta soltanto di vedere se la decisione dell’uomo si consolida in se stessa, nel suo divenire, o se esige una dimensione metafisica e quindi teologica. Il marxismo e gran parte dell’esistenzialismo si accordano per la «chiusura» nell’immanenza, ma il loro discorso diventa sempre più solitario e l’uomo contemporaneo perde sempre più contatto col suolo fermo dell’Assoluto su cui i nostri avi hanno costruito l’arte e la civiltà che tuttavia ancora respiriamo. Dirà la seconda metà di questo nostro secolo se lo spirito avrà raccolto le sue energie per arginare le forze di risucchio della disperazione o se affranto si esporrà alla vertigine delle forze ch’egli può ben scatenare ma non dominare.”
La risposta di Kierkegaard è certamente affascinante sia dal punto di vista di un credente che anche da quello di un laico, perché riscoprire il senso dell’autentica libertà che si relazione con il proprio io, rende l’uomo ancora più consapevole delle proprie responsabilità, prima di fronte a se stessi e poi difronte al mondo. Ma poi, mi chiedo, quanti sono gli uomini che anelano questa libertà, che preferiscono essere responsabili più che sicuri? La libertà è per tutti o come nel mondo classico per alcuni capaci di apprezzarne il significato ed il valore? Questi interrogativi sono ancora per certi versi senza una definitiva risposta, se riflettiamo sul tempo che l’occidente sta vivendo, confinato nell’angolo della storia più buio, in cui le conquiste ottenute sono messe decisamente in discussione dalle emergenze sanitarie, economiche e sociali, tanto che i popoli sono costretti a rifugiarsi nelle proprie capanne di acciaio e cemento in città deserte, per sfuggire ad una realtà ottenebrata e rupestre, che sin dalla creazione è costituita di pericoli ed insidie, ma che un’illusione chiamato progresso aveva esorcizzato e scacciato dai nostri orizzonti, ma che è riaffiorata con tutta la forza di sempre riportando l’uomo alla sua condizione di “essere” nella creazione oggetto e soggetto, finito ed infinito ma non onnipotente.
Persino educare ed educarsi alla libertà è diventato quasi impossibile, se pensiamo che uno dei modelli istituzionali che viene considerato più efficace è quello della Cina maoista, in cui sull’altare della sicurezza viene sacrificata ogni libera coscienza.
Ed il lavoro, di cui si nega la necessità in vario modo, è messo in discussione, riducendo tutto a sfruttamento o degli uomini o delle risorse naturali e per alcuni andrebbe persino abolito e sostituito con un reddito universale, disconoscendo che esso dona valore alla vita e finalità a tante attività umane, giova pertanto citare quanto l’autore danese ci offre come riflessione “tanto più basso è il livello a cui si trova la vita umana, tanto meno si mostra la necessità di lavorare; tanto più in alto essa si trova, tanto più compare tale necessità. Questo dovere di lavorare per vivere esprime ciò che è comune al genere umano, ed esprime anche, in un altro senso, l’universale, poiché esprime la libertà. Appunto lavorando l’uomo si libera, lavorando diventa signore della natura, lavorando mostra d’essere superiore alla natura.”
“La superiorità dell’uomo su tutto il creato è una partecipazione della Provvidenza attraverso cui Dio governa l’universo, scrive Fazio, perché l’uomo può diventare, tramite il lavoro, la sua propria provvidenza. Leggiamo questo bellissimo brano di Aut-Aut: «È bello vedere i gigli del campo, i quali, sebbene non filino né cuciano, son vestiti in modo che nemmeno Salomone, in tutto il suo lustro, era così splendido; è bello vedere gli uccelli trovare senza affanno il loro cibo, è bello vedere Adamo ed Eva in un paradiso in cui possono avere tutto ciò che additano; ma tuttavia è ancora più bello vedere un uomo guadagnare con il suo lavoro ciò di cui abbisogna. È bello vedere una provvidenza che soddisfa tutto e si prende cura di tutto; ma è ancor più bello vedere un uomo che per così dire è la sua propria provvidenza. Per questo l’essere umano è grande, più grande d’ogni altra creatura, in quanto può prendersi cura di se stesso! È bello vedere un uomo possedere in abbondanza ciò che ha da sé guadagnato, conquistato; ma è anche bello vedere un uomo che fa un giuoco di destrezza, ancora più grande, vederlo trasformare il poco in molto». Il lavoro manifesta la libertà, e perciò la possibilità di lavorare è una espressione della perfezione dell’essere umano….Il dovere di lavorare è anche il dovere di sviluppare le potenzialità che ogni uomo ha.”
In questa visione non esiste lo sfruttamento ma la realizzazione di ciascuno secondo proprie propensioni e capacità. L’uomo non è solo signore della natura ma anche di se stesso perchè conquista la propria essenza attraverso la libertà, l’impegno e la responsabilità dice Kierkegaard “essere consapevoli del proprio dovere e della responsabilità che ne deriva è farsi signori di se stessi“.
L’uomo è “sintesi cosciente di finito ed infinito”, capace di grandi imprese ed eccezionali slanci, è unico, irripetibile e distinto. Ed innanzi tutto l’uomo è libertà, grazie ad essa realizza se stesso, e come disse l’ultimo Re d’Italia Umberto II mediante essa tutto è possibile senza di lei tutto è perduto.
Antonino Sala

Destra e sinistra di Hegel unite nella lotta…alle nostre libertà!

Ritratto di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831)

“Poiché lo Stato è spirito oggettivo, l’individuo esso medesimo ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è componente dello Stato” Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto.
Basterebbe ad un avveduto lettore questa affermazione del filosofo tedesco per comprendere quale è la teoria che da duecento anni, la prima edizione di Grundlinien der Philosophie des Rechts infatti è del 1820, impregna idee e processi politici che sono poi sfociati nei regimi totalitari del novecento, il nazismo ed il comunismo, e che oggi ancora sopravvivono in molti paesi, come in Cina o a Cuba solo per citarne alcuni. Ma la stessa visione del mondo è alla base anche di chi in nome della sicurezza in generale è sempre pronto a misure restrittive delle libertà individuali pensando di rappresentare, come scriveva Hegel, lo Spirito oggettivo in quanto stato. E questo ragionamento vale sia per quelli che da sinistra pensano che nelle nostre case sia giusto poter far entrare la polizia per verificare quante persone ci siano, che per quelli che hanno pensato altre misure di “tutela pubblica” nelle regioni amministrate dal centrodestra. Tutti e due questi modi di ragionare sono infatti figli dell’hegelismo ottocentesco, che si divise in destra e sinistra.
La stessa logica assolutistica che annienta la persona la troviamo sia nello Stato nazionalista che in quello socialista, perché secondo questa idea la libertà dell’uomo in quanto uomo non esiste, perché essa può esistere solo all’interno di uno dei due sistemi statali, per la grandezza della nazione o per quella del proletariato, ma in quanto autonoma e autocosciente è solo un arbitrio personale, una volontà di sopraffazione sia tra esseri umani che tra nazioni.
Nei Lineamenti ciò appare in tutta evidenza: il “reale” (cioè la società civile, la nazione, lo Stato prussiano) è “razionale”, cioè giusto, legittimo, per cui anche la moralità deve diventare oggettiva nella famiglia, nella società e nello Stato, per essere vera, quindi la persona deve annullarsi per affermare la ragione e la volontà dello Stato ed il diritto è un insieme di regole che la società si dà per impedire la conflittualità delle volontà. Esso rappresenta per lui la sintesi di famiglia e società civile, e costituisce il momento più alto dell’Eticità e anche se si colloca cronologicamente alla fine dell’ethos è già presente nella formazione della famiglia e della società civile, che non si realizzerebbero a pieno se non avessero come fine quello della nascita Stato.
Lo Stato nasce non da un contratto stipulato fra gli individui, poiché non sono gli individui a formare lo Stato, bensì è lo Stato a formare gli individui. In quanto momento della manifestazione dello Spirito nella storia, lo Stato è giusto, giuridicamente lecito, storicamente inevitabile che esista; è più importante degli individui e sopravvive ad essi (è il momento più alto, di sintesi dello Spirito oggettivo); non è indipendente dagli individui (primo momento dello Spirito Oggettivo è il singolo individuo), che nel tempo lo precedono, per cui vi è la coincidenza del diritto privato con l’etica pubblica; non esclude il singolo individuo dalla politica; la partecipazione del cittadino alla vita politica è un diritto-dovere del singolo cittadino.
Padre di una teoria che per certi versi anticipa quella hegeliana è Johann Gottlieb Fichte che scrive in Lo Stato commerciale chiuso (Der geschlossene Handelsstaat) pubblicato nel 1800 “si è finora solo in parte ed unilateralmente compreso l’ufficio dello Stato, come quello cioè di un istituto rivolto a conservare, per mezzo delle leggi, i cittadini nel possesso in cui ciascuno si trova. Si è trascurato il più importante dovere dello Stato, che è quello di porre prima ciascuno in possesso di ciò che gli spetta. Ma non è possibile adempiere questo dovere, se non quando sia distrutta l’anarchia commerciale, come si è distrutta gradatamente l’anarchia politica, e siasi chiuso commercialmente lo Stato, com’esso è chiuso nella sua legislazione e nei suoi attributi giudiziari…..Così solamente viene assicurato a ciascuno il suo – non quello che gli derivi dalla cieca fortuna, o dallo sfruttamento di altri, o dalla violenza – che che gli tocchi di diritto. Nello Stato secondo ragione tutti sono servitori del tutto, e partecipano con giustizia ai beni del tutto. Nessuno può arricchirsi in modo particolare, ma nessuno neppur impoverire. A tutti è garantita la durata di questa condizione, e anche al tutto una pacifica ed equabile stabilità”.
Scrive Hegel “lo Stato è l’incedere di Dio nel mondo, ciò che lo Stato è, il fondamento di esso è la potenza della ragione realizzante sé come volontà. Nel caso dell’idea dello stato non si devono avere dinnanzi agli occhi stati particolari, non particolari istituzioni, si deve piuttosto considerare per sé l’idea, questo Dio reale.” Per questo Hegel rigetta sia il contrattualismo, che il giusnaturalismo, perché è inaccettabile che esista un diritto prima e oltre lo Stato.
E’ significativo il commento che il 13 ottobre 1806 invia all’amico filosofo Friedrich Immanuel Niethammer su Napoleone Bonaparte appena entrato a Jena “[…] l’imperatore – quest’anima del mondo – l’ho visto uscire a cavallo dalla città, in ricognizione; è davvero una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina…”.
Lo Stato diventa nel suo sistema di pensiero la sostanza etica consapevole di sé, che modera le contrapposizioni della società civile, che dona un significato universale alla vita sociale di ogni persona. All’interno dello Stato si realizza l’unità dell’individuo, della società civile con lo spirito, di cui lo lo stesso diviene incarnazione storica.
Hegel nega una concezione contrattualistica o giusnaturalista dello Stato, perché crede che quest’ultimo non dipende e nemmena nasce dalla volontà degli individui, esso è assoluto ed ha la propria sovranità ed esercita il proprio potere da se stesso, non dal popolo, che senza lo Stato è “massa informe”, priva di personalità e determinazione, per lui la persona è portatore di diritti solo in quanto quanto membro dello Stato. Hegel arriva a sostenere che “l’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato”! Da qui il passo fu breve nel novecento sostenere che lo Stato, sia quello nazionalista che quello quello socialista, potesse anzi dovesse imporre alle persone la propria dittatura eliminando anche fisicamente chi si opponeva a questa visione in nome di un bene superiore.
Inoltre sostenne come forma di governo la monarchia ereditaria e corporativa, cioè dotata di un’assemblea delle rappresentanze delle classi (che sono: agricoltura, industria/commercio e professioni liberali), autoritaria (cioè con prevalenza del potere esecutivo su quello governativo e legislativo) e confessionale (nel senso che la chiesa dev’essere subordinata allo Stato), ancora oggi questa stessa impostazione la ritroviamo applicata in molti paesi socialisti asiatici, che hanno molti estimatori anche al di qua delle Alpi.
Per Hegel poi la storia costituisce una sorta di tribunale in cui avviene un “giudizio universale”, in virtù del quale i popoli che sono riusciti a imporsi saranno sempre giustificati, perché, nonostante i loro limiti, essi hanno portato avanti il progresso progresso della ragione in cui le grandi individualità “cosmico-storiche” (come Alessandro, Cesare, Napoleone…) non hanno fatto altro che incarnare meglio le esigenze della ragione, accettando elementi e presupposti di un certo darwinismo politico che sarà giustificatorio di immani tragedie umane del XX secolo.
In questo contesto va affrontato il tema della libertà dell’individuo che si riduce alla partecipazione della persona alla vita del proprio Stato senza lasciare niente o quasi al libero arbitrio e alla volontà personale. Scrive Davide Brusatori dell’ Università degli Studi di Milano – Bicocca in Libertà ed Eticita nella filosofia giuridica di G.W.F. nella rivista di filosofia e comunicazione Metábasis.it, rivista semestrale di filosofia e comunicazione “secondo Hegel la libertà vera e oggettiva non corrisponde a quella individuale del singolo soggetto: quest’ultima è soltanto il momento iniziale di un complesso processo di realizzazione concettuale della stessa idea di libertà, che si compie nelle istituzioni etiche del diritto positivo storicamente esistenti e trova il proprio perfezionamento definitivo nell’ordinamento politico dello Stato moderno……A differenza della visione kantiana che concepisce la legge come limitante la libertà, il filosofo idealista pensa che lo sviluppo del diritto non rappresenti un’obiezione all’esercizio della stessa, ma, piuttosto, sia l’orizzonte entro il quale l’idea di libertà si realizza pienamente e totalmente, definendolo das Reich der verwirklichten Freiheit il regno della libertà realizzata…….in Hegel, lo “Spirito Oggettivo” è la libertà che si realizza nelle istituzioni etico-politiche di un determinato popolo, storicamente esistenti e previste dall’ordinamento positivo.”
In questa visione la persona viene annientata, schiacciata, ridotta ad ingranaggio di un sistema politico burocratico in cui conta solo il grado di adesione alle finalità statuali.
Basta leggere i documenti politici di molti dei partiti italiani, sia di destra che di sinistra, che questa visione emerge chiaramente. E mentre, per esempio in Italia come anche all’estero, si sono implementate misure sempre più stringenti per le libertà personali, tutti i maggiori esponenti della politica nostrana si sono affrettati a dire che sono anche poco efficaci ed addirittura qualche presidente di regione si è affrettato ad emanarne anche in proprio, senza nemmeno avere un confronto con il governo centrale, il caso Campania è emblematico, il quale ha anche introdotto per DPCM la possibilità per le Regioni di modificare certe indicazioni solo in senso più restrittivo. Non si vuole entrare nel merito di questo o di quel obbligo, perché ciò esulerebbe sia le personali competenze che il fine di questo testo, ma solo mettere in luce la logica ed anche la facilità con cui queste indicazioni sono state accettate sia dalla politica di tutti gli schieramenti che dalla popolazione. Chi oggi parla di “rivoluzione liberale” dovrebbe fare i conti prima con il suo piccolo Hegel interiore e poi magari tirare fuori il coraggio di fare una vera opposizione in nome della Libertà, ma come scrive Marcello Veneziani “vi potete fidare di Salvini che nel giro di un anno, da agosto ’19 ad oggi le ha sbagliate in modo seriale quasi tutte, ha paurosamente oscillato un giorno facendo il liberista, un giorno il cattolico tradizionalista col rosario in mano, un giorno il comunista di ritorno col santino di Berlinguer (la Lega erede dei “valori “ del suo Pci); un giorno è nazionalista, un altro è padano, e poi un giorno filo-Trump (più Israele) e una notte filo-Putin, e si potrebbe continuare.” Servirebbe chiarezza e disposizione ad ascoltare ed a liberare la propria esistenza dall’improvvisazione del momento, che magari ti fa salire nei sondaggi ma poi ti tradisce ed inganna nel momento del governo o peggio del contrasto alle politiche neo stataliste dell’avversario quando stai dall’altro lato.
Tornando ad Hegel egli sostiene che la libertà vera e oggettiva, quella che chiama la “volontà essente-in-sé-e-per-sé”, è lo “Spirito Oggettivo”, ossia è la libertà che si realizza concettualmente negli istituti etici previsti dall’ordinamento positivo dello Stato si ispirano all’idea di libertà “nello stato.
Approfondisce Davide Brusatori “dal rapporto identitario fra l’idea di libertà e il concetto di totalità organica, è stato dedotto che nell’adempimento dei doveri etici l’uomo realizza la propria destinazione alla libertà. La libertà positiva implica l’eticità giuridica e quest’ultima, a sua volta, rappresenta la dimensione nella quale l’individuo sperimenta la propria liberazione dall’accidentalità dei condizionamenti naturali……l’eticità attribuisce un contenuto concreto e determinato alla volontà statuale espressa razionalmente nella legge: poiché, da un lato, l’esercizio delle virtù etiche assolve una funzione liberante nei confronti del singolo individuo e poiché, dall’altro, la totalità nell’etica si manifesta nella legge dello Stato, si deduce logicamente che la libertà, alla quale l’uomo è chiamato, si identifica nell’obbedienza alla legge positiva emanata dallo Stato….Come abbiamo visto, a differenza degli stadi precedenti che segnano le tappe iniziali del cammino progressivo della libertà, ossia il diritto astratto e la moralità nei quali l’uomo si trova in una condizione annichilente di isolamento soggettivo e di solitudine spirituale, nell’universo etico delle relazioni interpersonali egli sperimenta concretamente la propria affrancazione dal libito egoistico della sensibilità empirica, acquisendo per la prima volta la consapevolezza del valore incommensurabile della propria libertà. Poiché il formalismo, l’accidentalità e la limitatezza, insiti nei diversi contenuti offerti dall’esperienza pratica, sono stati rimossi definitivamente, ora la volontà libera, pur continuando ad essere la volontà della singolarità immediata, è anche una volontà pervenuta alla propria purificazione, aperta alla prospettiva dell’universalità e della libertà oggettiva. In base a queste ultime considerazioni emerge con profonda evidenza che l’intento di Hegel non è assolutamente quello di negare o di annullare la libertà soggettiva del singolo, ma, al contrario, è di ricondurla, con una sapienza quasi pedagogica, alla dimensione dell’eticità, elevandola allo Spirito Oggettivo, così riconciliandola con l’universale. Giova rilevare che per la volontà libera la determinazione universale non è soltanto il suo unico oggetto, ma è (soprattutto) anche il proprio fine esclusivo verso il quale essa è proiettata.”
Scrive Libero Federici dell’Università degli Studi di Macerata “trasposto sul piano politico, il soggetto che detiene la Zauberkraft di oltrepassare l’immediatezza dell’estrinseco per autoaffermarsi come irrelato, come immediatezza che contiene la mediazione stessa, ovvero come mediazione immediata stessa, viene designato da Hegel come un “grande uomo” dotato di potere superiore tale da trovare obbedienza negli altri anche contro la loro stessa volontà.
Questo uomo, che gli altri chiamano signore, ha una volontà che rispecchia l’intero, la totalità, presenta i tratti di una immediatezza assolutizzata che non trova più mediazione nelle volontà delle alterità: “Il grande uomo ha dalla sua parte la loro pura volontà, ed essi devono (müssen) anche se non vogliono. Questa è la superiorità del grande uomo: di sapere, di esprimere la volontà assoluta […]. Questo potere (Gewalt) non è dispotismo, bensì tirannia (Tyrannei), pura, spietata signoria (Herrschaft); ma esso è necessario e giusto, in quanto costituisce e conserva lo Stato come questo individuo reale”. Il grande uomo non è un despota, non agisce arbitrariamente. Le sue azioni non sono improprie ed indiscriminate, bensì il discrimine della volontà propriamente universale che definisce il primato del tutto. Egli è “puro potere”, la sua essenza potestativa è coestensiva ad ogni singola volontà; rispetto ad esse egli è l’in-sé, il loro in-sé. La sua violenza è imprescindibile e legittima, giustificata nell’irresistibilità della sua razionalità. Le alterità sono piegate all’incondizionatezza del dovere, l’unico loro potere è puro dovere essere, il loro essere è immediata alienazione. L’efferatezza della signoria universale del grande uomo si esplica per salvaguardare l’esistenza dell’intero, domina spossessando le singolarità del loro potenziale creativo politico. La forma estrema indicata da müssen chiama in causa l’obbedienza come necessario correlato.
L’importanza rivestita dall’azione dell’obbedire – e, naturalmente, dell’educazione all’obbedire – è fondamentale in quanto sposta il discorso dalla centralità della tirannia a quella della legge. “Con questa educazione all’ubbidienza – a riconoscere l’universale piuttosto che le volontà reali – la tirannia è diventata superflua, e le si è sostituita la signoria della legge. Il potere che esercita il tiranno è in sé il potere della legge; mediante l’ubbidienza non è più un potere estraneo, bensì l’universale volontà riconosciuta (gewusste)”. Sottoposti con violenza all’obbedienza al puro potere i singoli apprendono l’universale, incurvate forzatamente dalla necessità e dalla legittimità di un potere che le rende aliene a se stesse le alterità finiscono e per introiettare l’ordine della libertà. Questa metabolizzazione conduce alla deposizione della tirannia stessa e all’affermazione della controfigura della “signoria della legge”. Ora la legge non è più l’in sé del potere del tiranno, ma un essente in sé, essenza del pensiero e dell’essere, e tutto ciò grazie all’assimilazione, ottenuta con violenza, del valore emancipativo della volontà universale. La Gewalt che impone assolutamente l’obbedienza approda ad una concezione delle legge come rigenerazione etica dell’essere comune: “La signoria della legge, ora, non è questo dar-leggi, come se non ce ne fossero, bensì esse ci sono – e la relazione è il movimento verso l’essere-comune di quelli che sono stati educati all’ubbidienza; a fondamento sta questa essenza esistente”.
“L’universalizzazione della autocoscienza sottende giustificati e necessari momenti violenti, comporta un processo razionale per cui la costituzione dello Stato si configura come svolgimento sottomettente. Nonostante che le articolazioni statuali dei costumi, delle consuetudini, delle leggi e delle istituzioni formino ed informino l’umano fino a costituirne una “seconda natura”36, nella relazione intersoggettiva e statuale è inscritta violenza. Ciò significa dunque che l’antagonismo delle autocoscienze contiene e riflette un elemento violento, la legge di sviluppo dell’Io, che si gradua nei momenti concatenati di una totalità in cui “vero” e “intero” coincidono, presenta violenza e la proietta nell’origine fenomenica della realtà statale, la innalza e la universalizza nell’apertura dello Stato: dalla legge suprema del pensiero della logica si giunge alla logica del pensiero supremo dello Stato….” come dice F. Rosenzweig in Hegel e lo Stato, il Mulino, Bologna 1976 è “una visione orridamente grandiosa della nullità dell’individuo!”.
Lo Stato come incarnazione storica dello Spirito, la libertà concepita solo all’interno di esso, la violenza come necessario corollario per l’affermazione e la conservazione dello stesso e l’obbedienza e l’educazione ad essa come strumento essenziale per la realizzazione del potere della tirannia della legge costituiscono i presupposti culturali per la legittimazione razionale della nascita delle ideologie totalitarie sia di destra che di sinistra.
Purtroppo questa visione del mondo è stata così pervasiva, ed anche portentosa da infiammare ed alimentare per due secoli i partiti e la cultura politica del novecento arrivando fino ai giorni nostri. Infatti ancor oggi gli interventi dello Stato sono presenti nell’economia attraverso per esempio le nuove nazionalizzazioni come il caso Alitalia, nel mondo del lavoro ad esempio con il reddito di cittadinanza o imponendo lockdown e smart working alle aziende private, nella sanità (è il caso dei vaccini che si vorrebbero fa diventare obbligatori insieme ai metodi di tracciamento digitale), nella vita personale e privata dei cittadini persino pensando che sia giusto magari mandargli la polizia a casa dopo una delazione di un vicino per capire quante persone sono in quel momento presenti lì e se indossano una mascherina, calpestando l’articolo 14 della Costituzione della Repubblica Italiana che recita “il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale”, tra l’altro a proporre quest’ultima idea sono le stesse persone che qualche anno addietro pontificavano della Costituzione “più bella del mondo” la nostra e che adesso può anche essere sospesa.
Ma non mancano anche a destra esempi di puro statalismo hegeliano, basta leggere le dichiarazioni o le ordinanze dei presidenti delle regioni amministrate da loro come anche di alcuni sindaci “sceriffi” in questo tempo di Corona virus, non ci hanno risparmiato nulla: dalla chiusura degli esercizi commerciali, alla spesa in ordine alfabetico secondo il cognome, alla serrata delle scuole e delle università, dall’imposizione dell’uso delle mascherine anche all’aperto, ai “consigli” al popolo, per loro “ancora incosciente perchè bambino”, di autoimporsi la clausura. Questi sono solo esempi di quanto può essere efficace e longevo un pensiero seppur pernicioso ma ben strutturato come quello di Hegel.
Il problema è che non vedo la stessa capacità e forza di raddrizzamento della realtà nell’altro campo definiamolo per semplicità di esposizione “delle Libertà”. E dire che questo campo delle libertà è in cerca della giusta rappresentanza dopo il tracollo del partito di Silvio Berlusconi, che anche se con poca convinzione e forza, provò a mettere al centro le libertà, organizzando come alleanza di governo con la Lega di Umberto Bossi e l’Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, prima “Il Polo delle Libertà” poi “La Casa delle Libertà” ed infine “Il Popolo delle Libertà” per contrastare quello che allora era il fronte statalista formatosi nei centri culturali del disciolto Partito Comunista. Persino gli inni dei due partiti maggiori Forza Italia e Alleanza Nazionale erano un canto alla libertà e quello di AN che si chiamava proprio così aveva queste parole nella strofa iniziale “Libertà di credere nel domani, nel lavoro delle nostre mani -sono le parole dell’inno- nella nostra Italia che vuol crescere, nella nostra buona volontà. Libertà di camminare insieme, col coraggio di voler far bene. Ed il nostro cuore sempre si scalderà con la fiamma della libertà”, forse un pò troppo retorico ma bello.
Questa coalizione di centro destra, come sappiamo, arrivò al governo dell’Italia ma non riuscì ad attuare una vera svolta antistatalista, sia per ragioni politiche spicciole, che per fattori culturali interni al governo stesso, infatti i partiti alleati erano espressioni di quella visione hegeliana di cui abbiamo parlato sopra, come la Lega e Alleanza Nazionale per non parlare degli ultimi scampoli della Democrazia Cristiana che per tanti anni era stata al governo del paese imponendo politiche assistenziali e dirigiste tipiche proprio di quella visione, ma anche per manchevolezze personali e per spinte interne a Forza Italia guidate da ex socialisti che in essa trovarono ospitalità ed ascolto, capaci di mettere in sordina sia la “rivoluzione liberale” che quella “conservatrice”.
In tempi di pandemia, in pochi chiedono allo Stato di farsi da parte e lasciare più spazio all’iniziativa privata, uno di questi è il coraggioso e bravo giornalista Nicola Porro, nonostante per esempio le code infinite per i tamponi, anzi con la paura legittima di prendersi un terribile virus, ad esso si guarda con speranza e ansia quasi devozionale, appunto come diceva Hegel perché lo Stato è lo Spirito incarnato nel tempo e solo lui può salvare.
Addirittura si è arrivati all’ammonimento, uno dei tanti che quotidianamente osserviamo, che la responsabilità di un’altra “clausura” generalizzata sarebbe del popolo italiano che trasgredisce ai consigli degli esperti.
Il massimo è stata la proposta di un ministro che invocava le segnalazioni dei cittadini per potere inviare qualcuno a controllare presso il nostro domicilio qualora i presenti superassero il numero individuato dal Comitato tecnico scientifico governativo, come nella Cina comunista in cui il capo condominio non si occupa di pagare le bollette dello stabile ma della vita di chi ci abita. Quest’idea mi ha ricordato il film dal titolo Le vite degli altri (Das Leben der Anderen) uscito nel 2006 di Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero in cui nella Berlino Est nell’autunno del 1984 il capitano della Stasi Gerd Wiesler viene incaricato di spiare Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale e intellettuale, ritenuto responsabile di un un saggio anonimo sull’alta e anomala percentuale di suicidi nella DDR, pericoloso per l’ideologia del Partito di Unità Socialista di Germania (SED). Durante l’inchiesta segreta viene arruolata forzatamente l’amante del protagonista Christa-Maria che diventa la spia interna. Il film finisce con lo stesso agente Wiesler impietosito salvare lo scrittore che lo ricambierà, venuto a conoscenza del fatto, con un libro in cui lo ringrazia, questo a testimoniare che anche il più pervasivo dei sistemi può essere arrestato in qualche caso anche da un solo funzionario coraggioso e libero.
Ma serve avere ben chiaro che la soluzione a questi guasti non sono le elezioni invocate ad ogni piè sospinto, ma è mettere in crisi l’ideologia statalista hegeliana che ha visto come esponenti conservatori di punta Carl F. Göschler, Georg A. Gabler, Julius Schaller ed in Italia Augusto Vera che sosteneva “Finché una nazione vive nella sfera del suo essere sensibile e animale, essa non si muove; essa ripete ogni giorno la stessa vita e gli stessi eventi; essa prova sempre gli stessi bisogni. Che se non fosse possibile trascendere questa sfera, la storia stessa non sarebbe possibile. Queste poche considerazioni ci spingono adunque a riconoscere con più pieno convincimento che solo l’Idea o l’Assoluto è il motore delle nazioni e dell’umanità, ovvero il principio determinante della storia”, arrivando poi ad influenzare fortemente i processi culturali successivi infatti dice Gaetano Arfé in L’hegelismo napoletano e Spaventa, in «Società», “è con Spaventa soprattutto che la filosofia in Italia cessa d’essere esercitazione accademica e vacua speculazione, si avvia a diventare organica visione del mondo, da cui derivi e consegua una morale, si avvia cioè a diventare religione laica, dando inizio a quel largo movimento di distacco di intellettuali dalla Chiesa cattolica.”
E Sergio Landucci in L’hegelismo in Italia nell’età del Risorgimento, in «Studi storici», “con Spaventa e De Sanctis era giunta al culmine quella motivazione politica nazionale che fu la caratteristica in forza della quale il movimento sorto a Napoli superò i limiti di un episodio regionale. […] Da noi, al contrario che in Inghilterra (e in Francia), l’hegelismo non è stato solo un movimento accademico, di professori, ma è stato un elemento della vita civile della nazione nel momento culminante del suo Risorgimento.”
Ed a sinistra troviamo David Strauss, Bruno Bauer – che inizialmente era sulle posizioni della destra – e suo fratello Edgar, Max Stirner, Arnold Ruge, Moses Hess, ma anche gli stessi Karl Marx e Friedrich Engels, che proporranno una formulazione rivoluzionaria della dottrina hegeliana, che avrebbe poi portato al materialismo storico del marxismo e al socialismo reale come lo definì il presidente dell’URSS Leonid Il’ič Brežnev.
Per ribaltare tutte e due le visioni bisognerebbe ripartire dalla nozione di Libertà individuale, come dono di Dio per i credenti e propria della condizione umana e/o per gli irreligiosi come presupposto naturale alla stessa essenza dell’uomo, recuperando quella soggettività assoluta di fronte alle costruzioni del pensiero, che fingendo di liberarlo dalle sue paure ed afflizioni lo hanno ingabbiato in una prigione di cui egli stesso è diventato il guardiano e da cui teme di uscire.

Antonino Sala

Terza via blairiana di destra? Sovrana confusione tra i sovranisti!

La recente nomina di Giorgia Meloni come presidente del ECR Party, il partito dei conservatori e riformisti europei, alla quale faccio i miei auguri per il ruolo che ricoprirà, apre dopo le sue controverse dichiarazioni una seria riflessione sulla confusione che regna sovrana tra i sovranisti conservatori o riformisti che siano. Infatti la neo presidente ha subito dichiarato in un intervista a la Stampa “io rappresento la terza via blairiana di destra”.

A cosa si riferisce? Esiste una terza via blairiana di destra? Alla socializzazione moderata della società proposta dalla sinistra degli anni 90? Sarà stata attratta dalle idee della Rerum Novarum di Papa Leone XIII del 1891? Questi interrogativi nascono spontanei perché è evidente che un esponente di un partito che si dice erede della tradizione politica della destra storica identitaria pre e post fascista, dovrebbe avere ben chiaro che l’espressione utilizzata da lei “terza via blairiana di destra” è un ossimoro, forse utile per prendere qualche titolo di giornali ma assolutamente disorientante per tutto il resto.

Ma andiamo con ordine: atteso che personalmente credo che già sia una contraddizione in termini la nomazione del partito europeo “Conservatori e riformisti” di cui è stata eletta presidente, in quanto il conservatorismo ed il riformismo non sono conciliabili ontologicamente, filosoficamente e politicamente.

Il riformismo infatti nasce come via più moderata rispetto al comunismo marxista, con l’intenzione di cambiare gradualmente sia il sistema capitalistico, ritenuto comunque ingiusto, sia il movimento rivoluzionario ritenuto troppo estremo per raggiungere risultati concreti.

Si definiscono riformisti i partiti di sinistra socialdemocratici e socialisti (nonché alcuni partiti vicini al liberalismo sociale come il partito Democratico americano e quello italiano) che si propongono di correggere (con vari strumenti come le proposte di legge in parlamento e i referendum) i difetti dell’economia capitalista o di superare il capitalismo come nel caso del socialismo.

Nella storia italiana della fine del XIX secolo il riformismo ha influenzato l’evoluzione del movimento socialista, di cui ha rappresentato la corrente più moderata, e i cui sostenitori ritenevano possibile una collaborazione fra i ceti proletari e la borghesia nell’ambito delle istituzioni parlamentari. Leonida Bissolati ed Ivanoe Bonomi vennero espulsi dal Partito Socialista per l’appoggio dato al governo Giolitti in occasione della guerra italo-turca, fondando il Partito Socialista Riformista.

Fra gli esponenti più significativi del riformismo italiano del novecento ricordo Filippo Turati, Claudio Treves, Giacomo Matteotti, Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Giuseppe Saragat, Bettino Craxi, Claudio Martelli, Gianni De Michelis. Nella seconda metà degli anni ’50, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria e la fine dell’alleanza con il PCI, lo stesso PSI progressivamente si aprì alla linea riformista della socialdemocrazia europea, dando vita ai governi di centro-sinistra insieme alla DC di Aldo Moro e Amintore Fanfani, al PSDI e al PRI.

Sotto la guida di Bettino Craxi il PSI completò la propria maturazione in senso riformista aderendo all’idea di un socialismo liberale e tricolore, così negli anni ’80 un socialista, Bettino Craxi, assunse l’incarico di Presidente del Consiglio, inaugurando i governi del pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI).

Detto questo se passiamo in rassegna cosa vuol dire conservatorismo ci troviamo difronte all’esatto opposto, scriveva François-René de Chateaubriand ideatore del termine stesso, il “conservatore” è colui che sostiene la religione, monarchia, libertà, la Carta e la gente rispettabile. E’ conservatore colui che in una società in continuo cambiamento come la nostra ha dei solidi valori di ancoraggio, la possibilità di aggrapparsi orgogliosamente a quello che non muta. Egli è colui che non accetta i presupposti radicali della rivoluzione francese, avversando le idee utopistiche di società perfette, credono nella libertà individuale e nel mercato, sono intransigenti in tema di ordine sociale e legalità e nutrono un particolare rispetto per tradizione, famiglia e proprietà privata.

Il fondatore del conservatorismo inglese fu Edmund Burke, che ne sosteneva uno meno intransigente rispetto a quello di Chateubriand. Robert Arthur Talbot Gascoyne-Cecil, III marchese di Salisbury esponente del del Partito Conservatore e Primo ministro del Regno Unito per tre volte soleva dire “Il conservatorismo consiste nell’impedire alle cose di accadere finché non siano prive di pericoli”.

Il conservatore cerca quindi di conciliare l’ordine preesistente (come la monarchia e, in un certo senso, anche l’aristocrazia) con le novità portate dalla rivoluzione francese (ad esempio diritto di voto e diritti dell’uomo), mantenendo un equilibrio che può essere minacciato dai reazionari (volti cioè a restaurare il vecchio ordine) quanto dai rivoluzionari (che pretendevano di migliorare le condizioni del popolo con mezzi radicali e violenti).

Dalla metà del XX secolo i conservatori si sono caratterizzati per la loro opposizione ad aborto, matrimoni omosessuali, eutanasia e droghe, così come per il supporto al libero mercato, ai tagli fiscali e alla fiducia nella proprietà privata.

In definitiva i caratteri tipici odierni sono famiglia, patriottismo, libero mercato, sicurezza, giustizia sociale, legalità, meritocrazia, sussidiarietà, tradizione.

Nel solco del conservatorismo italiano vanno inseriti i liberali di Malagodi, i monarchici di Covelli e una parte dei missini di Almirante, i post missini di Democrazia Nazionale guidati da Enesto de Marzio e poi successivamente anche Gianfranco Fini con la sua Alleanza Nazionale che rappresentò un tentativo di coniugare istanze tradizional conservatrici con quelle liberal, le tesi di Fiuggi ne sono un esempio. Ma un ragionamento più approfondito lo merita Democrazia Nazionale, nata come scissione del Movimento Sociale Italiano ma naufragata nelle urne. Essa fu il primo tentativo di portare la destra post fascista al governo dell’Italia insieme alla Democrazia Cristiana.

Scrive Gianni Scipione Rossi a commento del libro di Giuseppe Parlato, “La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale”, Luni, Milano 2017, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX “con la morte prematura del segretario (del MSI Arturo Michelini), l’anno successivo, la guida del partito fu affidata – e Parlato nel ricostruisce le ragioni – a Giorgio Almirante, che riuscì, grazie alla crisi del centro sinistra e alla battaglia parlamentare contro l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, a imprimere una svolta movimentista, sia pure con elementi di ambiguità culturale e programmatica che costituirono il brodo di coltura degli avvenimenti successivi.

Nelle vicende interne al Msi, Almirante rappresentava le suggestioni identitarie del neofascismo, opposte alla prospettiva di una storicizzazione del regime messa in campo – pur con accenti diversi – da esponenti del partito quali Ernesto De Marzio, Nino Tripodi, Pino Romualdi. Con il ritorno alla segreteria, Almirante tentò di gestire le diverse componenti proponendo da un lato il Msi come “alternativa al sistema” partitocratico; dall’altro come fulcro di una alleanza dei moderati anticomunisti, sulla scia della “grande destra” micheliniana. Da qui la nascita della Destra Nazionale, aperta a personalita’ estranee al neofascismo, che tuttavia nelle elezioni politiche del 1972 – a causa della capacità della Democrazia Cristiana di recuperare il “voto utile” in senso anticomunista – non riuscì a conquistare un consenso tale da renderla politicamente indispensabile.

In fondo da quella vittoria “dimezzata” – in un’Italia spazzata dal terrorismo – nasce la crisi interna del partito che porterà alla sci ssione del 1976, paradossalmente grazie all’intuizione di Almirante di ampliare il progetto della Destra Nazionale accelerandolo con la più ambiziosa Costituente di Destra, che servì agli scissionisti come strumento regolamentare per la costituzione di gruppi parlamentari autonomi.”

Dice Marcello Veneziani di Democrazia Nazionale nella prefazione a “I Percorsi della Destra”, libro uscito nel 2003 per Controcorrente, nel quale Massimo Anderson, intervistato da Gennaro Ruggiero, racconta la storia della destra, i suoi percorsi, la politica e la cultura, dal secondo dopoguerra ad oggi “avevano ragione loro, i demonazionali, a giudicare negativamente il ricorso alla retorica dei comizi e alla liturgia dei nostalgismi di parata, che poi copriva un maniacale elettoralismo, e a ritenere indispensabile per la destra ripensarsi attraverso le categorie della politica, il confronto libero e civile con gli altri e con il dissenso interno. Di Democrazia Nazionale, probabilmente, furono sbagliati i tempi e i modi; anche se, bisogna dirlo, il meglio della classe dirigente andò via dal partito. Però era giusta l’intuizione che rileggo nelle parole di Cerullo e nell’intervista di Anderson a Ruggiero di far nascere una destra in grado di incidere nella realtà italiana e di non vedere fiction sentimentale per scopi elettorali. Legittima la loro rivendicazione di paternità rispetto ad Alleanza Nazionale; a Fiuggi loro ci andarono quasi vent’anni prima.”

Alleanza Nazionale e il suo primo ed ultimo presidente Gianfranco Fini, fu l’esperimento successivo e riuscito, di portare la destra post-fascista al governo dell’Italia. Importante fu il Congresso di Fiuggi del 27 gennaio 1995 con il quale si scioglieva definitivamente il MSI e nasceva la nuova formazione politica su base più aperta alla società e senza incapacitanti nostalgie del passato e con tesi ben strutturate sulla tradizione delle destra europea. Determinanti per il prosieguo del cammino di AN furono la I conferenza programmatica di Verona del 27, 28 febbraio e 1 marzo ’98 e la II conferenza programmatica di Napoli del 23 e 25 febbraio 2001.

Le tesi di Napoli furono attenzionate anche a sinistra tanto che Marialba Pileggi, militante e dirigente del PCI, scrive su Critica marxista e sul Manfesto “Il programma economico di Napoli rappresenta la novità di An. Si tratta di una vera e propria trasformazione : An per la prima volta accetta totalmente globalizzazione e liberismo. L’Italia globale diviene simbolo di una nuova coscienza nazionale finalizzata alla competizione di mercato. Fiuggi e Verona si fondono in un partito di Programma che ha al suo centro la cultura dell’impresa come valore e risorsa ( e solo al suo interno i diritti dei lavoratori) e la ridefinizione geopolitica del Mezzogiorno dai margini al centro dello scambio economico. Sono questi alcuni titoli per il rilancio dell’Italia tra le grandi potenze economiche. Una ambizione sostenuta dalla pratica dell’interclassismo, dalla fedeltà ai principi della tradizione di popolo di An, e da un senso dello Stato del quale si intende ridefinire il principio di sovranità. “Se uno Stato pretende di tagliare fuori dalla propria storia la globalizzazione essa lo taglierà fuori dallo Stato, se uno Stato avrà un approccio di esclusione, rimarrà esso stesso escluso dal percorso dell’avventura della civiltà.” Accettazione totale del liberismo non significa in alcun modo definizione e progetto di una democrazia politica orientata a contenere e superare le ineguaglianze sociali e civili che derivano dal primato del mercato e dai suoi fallimenti. Al contrario Fini oppone alle sfide sociali e democratiche del liberismo decisionismo intransigenza sui valori : la diffidenza nei confronti del conflitto sociale ( priorità del capitale, la spinta alle privatizzazioni, la trasformazione dello statuto dei lavoratori in Statuto del lavoro, istituzionalizzazione del sindacato etc.); la sostituzione dell’universalismo (dal Welfare State al Welfare di comunità) con l’organicismo comunitario come unica fonte di diritti sociali; l’assunzione nella forma più intollerante dei valori dell’integralismo cattolico (sacralità della vita, immutabilità, della famiglia tradizionale, piena sintonia tra scuola e convinzioni morali e religiose, discriminazione dell’omosessualità, proibizionismo, etc.). In altre parole, di fronte alla realtà della globalizzazione liberista Fini abbandona un patrimonio morto e irrecuperabile, l’eredità statalista, protezionista, centralista, corporativa del tradizionale pensiero economico nazionalista e fascista solo per offrire le soluzioni culturali, istituzionali, politiche del comunitarismo organicistico e autoritario delle Destre europee attuali.

An dunque è davvero un attore politico moderno in continua trasformazione, e per questa ragione va tenuto sotto osservazione. I suoi riti di passaggio ci dicono che non evolve secondo una destra tradizionale, ma in direzione di una destra europea, adeguatamente attrezzata e pronta a rispondere alle trasformazioni contemporanee della relazione tra economia e politica, tra capitalismo e democrazia nelle forme proprie della “rivoluzione conservatrice”. Ben lontana dall’essere costituzionalizzata dalla palingenesi di Fiuggi, An spinge il senso comune diffuso e gli orientamenti politici delle sue aree di consenso popolare e giovanile a separarsi da un progetto democratico capace di concepire le sfide del presente e , per queste ragioni, essa costituisce uno degli elementi di fragilità della democrazia italiana.” Questo a testimoniare come la destra avesse al suo interno energie culturali non indifferenti, capaci di esaltare i propri sostenitori e di preoccupare i propri avversari. Certamente l’articolo della Pileggi non fu scritto per lusingare Fini e i dirigenti di An, anzi per mettere in guardia un certa sinistra del pericolo che stavano correndo: una destra europea, di governo e solo di piazza, non facile da demonizzare.

Di tutt’altra natura la telefonata di felicitazioni a Giorgia Meloni da parte di Gentiloni, che a ben vedere, dopo la sua esternazione sulla terza via blauriana e sul Recovery Found, ha il sapore amaro di un “ben venuta tra di noi”. Vecchio trucco della sinistra: prima la lusinga, poi il colpo giusto al centro destra in quanto tale, vedi gli elogi pubblici a Gianfranco Fini in funzione anti Berlusconi e poi la mazzata a tutta la coalizione che da quel momento non ha più potuto governare; ora sembra il turno di Giorgia Meloni questa volta in contrapposizione a Matteo Salvini, reputato troppo forte elettoralmente e troppo politicamente scorretto per sedersi con i gentleman progressisti di Capalbio.

Attenta presidente “Timeo danaos dona ferentes.”

Il terzo tentativo di rifondare una destra capace di stare ai posti di comando è Fratelli d’Italia, nata direttamente da Alleanza Nazionale, di cui ha ereditato simbolo e una parte di classe dirigente, purtroppo senza le tesi di Fiuggi, Verona e Napoli. E’ animata sembra solo da un patriottismo, tempo addietro avremmo detto da parata oggi da social network, e da una leader che si mostra sorridente accanto ad un vessillo tricolore ogni piè sospinto magari augurando buona domenica agli amici virtuali di facebook con in mano una tazzina di caffè, e dopo avere evocato la famosa terza via di Blair. Condivido però la riflessione di Marcello Veneziani sulla Meloni “al di là della consacrazione europea, prima donna italiana leader di un gruppo europeo, la Meloni è in crescita politico-elettorale costante. Grandi risultati, merito a mio parere di due fattori: il primo, assoluto, è l’efficacia di Giorgia come leader, la sua linearità, la sua coerenza, la sua maggior tenuta politica dentro e fuori del centro-destra, il suo essere donna ma come si dice “cazzuta”. Il secondo, sommerso, è il rifugio degli elettori in un’identità politica storicamente solida benché controversa, venuta da una storia, in un paesaggio di parvenu e mutanti, trasformisti e nullivendoli…il problema del partito della Meloni è che la Sorella d’Italia è figlia unica. Ma per un partito così cresciuto, così lanciato, scarsa è la sua classe dirigente, scarsi i canali di accesso e di selezione, scarsa la sua capacità di intercettare e candidare figure venute da altri mondi e dalla mitica “società civile”. E soprattutto è introvabile “il mondo della destra”. Come si esprime un cittadino di destra, oltre lo sfogatoio dei social; in cosa si riconosce, dove si riflette il suo modo di pensare? Dove trova i suoi ambiti di riferimento, dove ritrova il suo mondo, nella società, nella cultura, nell’economia, nel volontariato, nelle associazioni, chi intravede di amico nella pubblica amministrazione, tra le figure pubbliche, nella fiction e nella vita quotidiana? Dico questo perché la malridotta sinistra non avrà un leader ma solo un fratello di fiction (altro che fratello d’Italia), vale a dire il commissario Montalbano; non avrà una linea politica credibile, avrà un alleato imbarazzante e un premier comprato usato su e-Bay, ma un mondo vasto ce l’ha e ha ramificazioni nei poteri diffusi e nella casta dirigente del Paese. Invece il cittadino che la pensa come la Meloni non ha riferimenti di alcun tipo, se non le opinioni della Meloni.” E’ questo avviene, aggiungo io, per alcune ragioni: la prima il suo mondo è troppo chiuso, purtroppo per lei, in un settarismo infantilistico da ex Fronte della Gioventù, dove non si discutono tesi politiche o visioni del mondo ma si consumano piccole faide interne per qualche spazio politico in più ed ogni nuovo ingresso viene visto e trattato con sospetto tant’è che non si conoscono altri volti di FdI oltre il suo che non siano Ignazio La Russa, Guido Crosetto e Francesco Lollobrigida (suo cognato); la seconda, al livello centrale gli interlocutori non sembrano all’altezza dei compiti che dicono di volersi accollare e pertanto anche i ceti intellettuali e produttivi si guardano bene dall’avvicinarsi anche se magari nel segreto dell’urna la votano; terzo Fratelli d’Italia non ha una piattaforma programmatica definita, non inutilmente retorica, seria ed attuabile sulla scuola e l’università, la cultura, l’economia, il lavoro, l’assetto istituzionale e quant’altro sia capace di convincere pienamente.

Detto questo per capire di cosa parla la presidente del ECR Party bisogna chiarire cosa è stata questa terza via britannica. Essa si riferisce ad alcune posizioni politiche impegnate nell’elaborazione di una posizione intermedia tra destra e sinistra, al fine di realizzare un impossibile, a mio avviso, compromesso tra le politiche economiche liberiste e quelle ispirate al socialismo; tra le politiche economiche di stampo keynesiano, che avevano precedentemente generato dubbi a causa di un eccessivo interventismo da parte dello Stato, e quelle neoliberiste sviluppatesi a partire dagli anni ottanta, in una fase ormai avviata alla globalizzazione, combinandole fra loro e sviluppate da alcuni partiti socialdemocratici e della sinistra liberale.

Lo sviluppo delle idee della terza via avvenne grazie al supporto di intellettuali come Anthony Giddens (rettore della prestigiosa London School of Economics), David Marquand, Geoff Mulgan, David Held e David Goodhart. Giddens afferma che la terza via rifiuta la concezione tradizionale del socialismo, ma accetta altresì quella presentata da Anthony Crosland come una dottrina etica che vede i governi socialdemocratici come acquisitori di un socialismo etico autosufficiente, e sul superamento della fase marxista nella lotta per l’abolizione del capitalismo.

In Italia la terza via, sotto vari nomi, è stata proposta sia da partiti centristi classici di stampo post-democristiano sia da partiti laici come lo storico Partito Socialista Italiano nella sua fase finale. Oggi diversi politici si rifanno a questa corrente sia nel Partito Democratico che nel Movimento 5 Stelle (La sera del 12 ottobre 2019, durante la kermesse Italia 5 Stelle svoltasi a Napoli, Luigi Di Maio, allora capo politico del M5S, affermò di essere un sostenitore della terza via), come anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che in un intervista rilasciata a Claudio Sardo il 22 novembre 2012 ebbe a dichiarare “il nostro orizzonte è una Terza Via tra la spirale austerità-recessione e la vecchia ricetta keynesiana” Penso però che Blair, Clinton e con loro Schroeder, Prodi, Jospin, D’Alema diederono allora un nuovo indirizzo alla sinistra mondiale. La storia non si ripete, anche perché in quel tentativo ci furono cose buone ed errori. Ma penso che dovremmo provare una nuova Terza Via.”

La differenza con la Terza via italiana e fascista, ha consistito nella ricerca di un’ alternativa, piuttosto che di una conciliazione, tra comunismo e capitalismo attraverso il corporativismo: avendo come orizzonte l’autarchia, il protezionismo e la sovranità monetaria.

Allora perché usare una locuzione così, ossimorica, controversa ed ambigua come terza via “blairiana”? Cosa ha in comune la destra italiana con queste posizioni che fanno riferimento alla sinistra mondialista e alla socialdemocrazia? Secondo me nulla, perché sono semplicemente antitetiche ed opposte. Solo per piacere a sinistra o come sostiene Massimo Weilbacher “esempio di sudditanza al bon ton politicamente corretto e di subalternità culturale al verbo dominante”?

Se poi andiamo alla politica blaireina credo che il quadro si faccia più confuso di quanto non sia fino ad ora. Infatti Tony Blair è stato propugnatore di una politica progressista in termini assoluti su famiglia, aborto, droga, interventismo militare, stato sociale e tante altre regressioni. E’ stato a fianco di Bill Clinton nel tentativo di creare il centro sinistra mondiale, trascinando verso il baratro progressista tutte le nazioni su cui potevano esercitare la loro influenza come l’Italia, e lo è stato anche in tutte le guerre scatenate in quegli anni, dal Kosovo all’Iraq, alla faccia della sinistra pacifista.

In Italia ha poi trovato grandi sostegni a sinistra con Walter Veltroni che fu persino oratore ufficiale al congresso laburista a Blackpool il 2 ottobre di ventiquattro anni fa, “l’ unico straniero (Veltroni) chiamato alla tribuna nei cinque giorni di discussione. Non è stato un saluto, ma un vero e proprio discorso dedicato alla sinistra del 2000…..La sinistra che conquista il centro, che è la chiave del progetto politico di Blair (e forse anche la “forse” destra di FdI?)” scrisse Maurizio Ricci su Repubblica il 3 ottobre 1996 e Veltroni disse parlando di Blair “è un uomo della nuova sinistra perché è capace di ascoltare, è flessibile nelle soluzioni, ma c’ è in lui una radicalità di valori, cioè convincimenti molto profondi” (ovviamente di sinistra).

Cosa c’entra allora la sinistra laburista evocata dalla Meloni e l’autentica destra? Cosa hanno in comune? Ripeto nulla!

Purtroppo questo è un vecchio vizio di una certa destra disordinata e confusionaria sempre alla pesca delle occasioni, un modo più o meno mediatico di far parlare di sé quello di dire delle cose che all’uditorio di sinistra sembrano più educate e quindi più politicamente accettabili, ma solo in apparenza.

Quel che è peggio e che questo atteggiamento avvelena i pozzi a cui si abbevereranno le future generazioni che a loro volta causeranno altri errori in un loop senza termine di cui purtroppo è vittima, spero, inconsapevolmente anche la presidente di Fratelli d’Italia; significa inquinare il terreno su cui crescono gli alberi dai frutti pessimi che ben conosciamo, come quando Almirante nominò presidente del Fronte Universitario d’Azione Nazionale (movimento universitario dei giovani di destra) e poi responsabile del settore cultura del MSI il filosofo marxista Armando Plebe che si autodefiniva un illuminista scettico sostenitore d’un anarchismo intellettuale, il risultato? Gli errori di un sincretismo politico ti tal genere si perpetuarono nelle altre generazioni fino ad arrivare a noi. Un episodio raccontato dallo stesso Plebe in un suo libro è significativo: durante la campagna contro il divorzio aveva ricevuto una telefonata dal segretario missino in cui gli chiedeva di scrivere un libretto sull’argomento, chiuso il telefono richiamò Almirante chiedendogli se lo doveva elaborare pro o contro. Sta tutto qui! la cultura politica non si inventa, fortunatamente.

Altro esempio di confusione a destra, ma più recente? La proposta di introdurre un’ora di religione musulmana facoltativa e alternativa a quella cattolica a firma di Adolfo Urso, viceministro allo Sviluppo economico in quota An del governo Berlusconi ed oggi senatore del partito della Meloni. Ma poi perché solo un ora di islam? perché discriminare la moltitudini di religioni e credenze che sono presenti sul territorio italiano? perché non un ritorno all’antica religione dei Quiriti o fare una mezzora di Hare Krishna o di scintoismo o di qualsiasi altra cosa che assomigli ad un culto, visto che Urso ci propone una società amorfa e privata delle proprie radici? La Meloni non è per il presepe e il Crocifisso nelle scuole, anche se vengono trattati non come esperienza spirituale ma come arredi, o al massimo come elementi della tradizione popolare, un po’ come un piatto tipico della gastronomia locale “vai in Italia? Mangia la pizza a Napoli e le arancine a Palermo…vi immaginate voi che rivolta ci sarebbe se le dovessero abolire per legge e sostituirle con il cuscus o con il kebab?

Per i cantori del conservator-riformismo europeo quali sono gli elementi spirituali da salvaguardare della Tradizione Italiana dalla corruzione, contaminazione direbbero Blair & co., secondo questi ideologi? E poi a quel linea conservatrice i Fratelli di Giorgia fanno riferimento? A quello risorgimentale di Cavour e Minghetti? A quello cattolico? A quello liberale? Verso dove vanno, al seguito di Trump su posizioni antiabortiste e prolife? E così di seguito. Francamente non si capisce.

Purtroppo a queste domande si potrebbe rispondere solo, come ho già scritto, con una grande assemblea programmatica che abbia come relatori le migliori intelligenze italiane in svariati settori, dalla filosofia all’economia, che abbiamo però un autentico orientamento culturale tradizional conservatore, e dove i leader e i loro guru della comunicazione, dovrebbero solo ascoltare nel loro interesse e in quello delle future generazioni, visto che di fronte a loro si agita comunque e sempre lo stesso spettro della rivoluzione e dell’abile sinistra che è presente e viva nel corpo sociale del popolo e di volta in volta, grazie alle sue scuole di pensiero, riesce a mascherarsi, a seconda dei casi, di pacifismo, egualitarismo, altruismo, femminismo, ed altri “ismi” che vi lascio immaginare. I centri di formazione della classe dirigente hanno fatto e faranno la differenza sia in guerra che in pace.

Per parte mia continuerò a proporre analisi e spunti programmatici non ideologici che possano essere utili al dibattito intorno al modello di società e cultura per l’Italia di oggi e di domani.

“Se la strategia è sbagliata, la situazione non migliora aumentando i mezzi e le truppe.“ Carl von Clausewitz, “Della Guerra”.

Antonino Sala

Demosortecrazia, Demarchia e Aleocrazia contro la Democrazia rappresentativa e parlamentare. La Democrazia a sorteggio: un’idea vecchia ma un proposito sempre attuale.

Il tema del funzionamento della democrazia elettiva è uno di quelli che appassiona gli studiosi di scienze politiche da sempre, infatti nei secoli si sono cimentati nella definizione degli aspetti che la caratterizzano sia dal punto di vista positivo che da quello negativo. Oggi torna di attualità perché Beppe Grillo, dopo la batosta delle elezioni regionali in cui il suo movimento è precipitato a percentuali di molto inferiori rispetto alle precedenti elezioni nazionali, ha tirato fuori la possibilità che in futuro si possano scegliere i deputati o i ministri ed in generale coloro i quali debbono rivestire incarichi pubblici tramite sorteggio e non più attraverso regolari elezioni a suffraggio universale.
Sarebbe facile ridurre tutto ad una delle sue solite sparate e farsi solo quattro (amare) risate ma, come ha recentemente dimostrato l’esito del referendum per la riduzione del numero di parlamentari c’è ben poco da ridere. Invece la ritengo una questione seria su cui è necessario riflettere anche perché, piaccia o non piaccia il Movimento 5 Stelle, è stato e continua ad essere il grimaldello con cui si stanno demolendo alcune delle certezze politiche e sociali che non si pensava potessero essere messe in discussione, a cominciare dal funzionamento dei gruppi parlamentari diretti con la piattaforma Rousseau.
D’altronde lo stesso comico ha dichiarato sul suo blog qual è la logica che lo muove “il caos è nella nostra natura, è nella natura dell’uomo. È nel caos che vengono fuori le belle idee. È un procedimento che sta andando avanti, un cambiamento, e ci siamo già dall’altra parte.”Tutto tende al caos, all’entropia. L’entropia è la nostra matrice oggi.” “ Ma cosa c’è di meglio di riprogettare l’economia, l’energia, i rapporti…” e potrei continuare con le citazioni grillesche che testimoniano quale siano le sue intenzioni e sopratutto quale orizzonte caotico vorrebbe per l’Italia, che in parte ha già cominciato a profilarsi con l’introduzione del reddito di cittadinanza slegato dal lavoro e che lo stesso capo pentastellato vorrebbe trasformare in “un reddito di base universale, per diritto di nascita, destinato a tutti, dai più poveri ai più ricchi”, un assurdità per molti filosofi, politici, sociologi, ed economisti, ma sostenuta però da Mark Zuckerberg (Facebook), Bill Gates (Microsoft) e Elon Musk (Tesla) tra i più ricchi ed influenti uomini del mondo.
La teoria su una democrazia del sorteggio venie da lontano e per questo non va sottovalutata ne derisa, come lo fu quella sulla decrescita felice di cui oggi anche a causa del Covid 19 vediamo i risultati. Già nell’antica Grecia nel 508 a.C. si ricorse al sorteggio, era la Demosortecrazia, tra i cittadini per nominare un organo collegiale, chiamato Bulè, composto da cinquecento membri.delle città stato dove però la possibilità di farne parte era relegata a una ristretta cerchia di uomini liberi; a Roma ai consoli venivano affidate le provincie di competenza a sorteggio ma anche lì era un ballottaggio tra due uomini eletti dai comizi; e Venezia fu nota per l’uso del sorteggio che ha contraddistinto la sua lunga e stabile vita. Il meccanismo usato consisteva nell’elezione di un consiglio di grandi dimensioni che veniva poi ridotto tramite il sorteggio. In seguito i sorteggiati eleggevano un altro consiglio di grandi dimensioni che veniva ridotto ancora una volta per sorteggio; il processo continuava iterativamente per molti cicli.
Oggi per esempio nelle province canadesi di British Columbia e di Ontario gruppi di cittadini sono stati selezionati tramite sorteggio per creare delle assemblee cittadine per la riforma elettorale con il compito di studiare ed indicare cambiamenti opportuni ai sistemi elettorali da adottare nelle province.
Recentemente è stato coniato un termine per indicare questo sistema alternativo a quello del voto, ed è Demarchia, in cui la maggioranza dei rappresentanti politici è selezionata tramite sorteggio, Il termine compare per la prima volta nel lavoro del filosofo Friedrich von Hayek. Egli non parla di sorteggio ma oppone il termine a democrazia, che è diventato nel tempo sinonimo di potere illimitato della maggioranza.
Hayek inoltre definisce quale ruolo secondo lui lo dello Stato dovrebbe avere “assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato”. Sottolinea, inoltre, che “un sistema che invoglia a lasciare la relativa sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente, quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere”.
Von Hayek contrappone gli odierni modelli di ordinamento democratico, che egli reputa oggetto di una degenerazione, ad un ipotetico modello demarchico da lui prefigurato, analizzando quella che secondo lui è una diversità di prospettiva di fondo nell’approccio alla politica sottesa nel significato etimologico dei due termini. La sua proposta, chiamata appunto demarchia, è di carattere minarchico (dal greco potere minimo) in cui il potere dello Stato è ridotto al minimo per evitare ingerenze lesive della libertà del cittadino e la costituzione di caste-gruppi oligarchici al potere. La proposta è descritta in opere quali Legge, legislazione e libertà e Libertà economica e governo rappresentativo.
Questo termine è stato usato per primo da John Burnheim in relazione al sorteggio. Nel suo libro Is Democracy Possible? L’alternativa alla politica elettorale (1985) per descrivere un sistema politico senza stato o burocrazie e basato invece su gruppi di decisori scelti a caso. Nel 2006 Burnheim ha pubblicato una seconda edizione con una nuova prefazione in cui indirizzava il lettore a sottolineare che “un sistema politico organizzato dalla negoziazione tra autorità specializzate funzionerebbe molto meglio di uno basato sull’autorità centralizzata”.
La demarchia come la concepisce Burnheim ha due caratteristiche che la distinguono dalle altre proposte di selezione a sorte in politica: in primo luogo, l’insistenza nel porre aree politiche distinte sotto autorità mutuamente indipendenti che risolverebbero i problemi di coordinamento tra di loro mediante negoziazione o arbitrato piuttosto che dettato dall’alto. Lo scopo di ciò è porre rimedio al difetto delle democrazie esistenti in cui le questioni sono risolte secondo le strategie di potere dei politici piuttosto che nel merito del caso; in secondo luogo, che il comitato responsabile di ogni organo politico dovrebbe essere statisticamente rappresentativo di coloro che sono maggiormente influenzati dalle loro decisioni. La speranza è che questo porti a decisioni migliori, non solo a un pio desiderio di rotazione populista.
Nel 2016 John Burnheim ha pubblicato “The Demarchy Manifesto: for better public policy” in cui suggerisce un approccio pratico ai problemi attuali, volto a separare il processo di “illuminare, articolare e dare effetto all’opinione pubblica” su questioni politiche selezionate dal sistema dei partiti elettorali. Prevedeva la creazione di una fondazione pubblica, finanziata da contributi privati, per condurre il procedimento, basandosi sulla completa trasparenza e ampiezza partecipativa del suo procedimento per giustificare la sua pretesa di articolare un punto di vista che meritava di essere visto come un’opinione pubblica seria su una serie di questioni importanti. La chiave per la completa apertura è un sito web a cui chiunque lo scelga può contribuire, dedicato a decidere il modo migliore per affrontare un problema specifico. I contributori dovrebbero fare appello a considerazioni che la maggior parte delle persone accetterebbe come direttamente rilevanti per il problema particolare. I redattori tenterebbero di vedere che tutte le considerazioni che la gente comune o gli esperti potrebbero avere fossero dibattute a fondo, stabilendo le considerazioni che una buona soluzione dovrebbe tenere in considerazione. Quella discussione dovrebbe portare alla chiarezza su quali fatti e valori siano rilevanti, ma lasciare comunque molto disaccordo sul peso relativo che viene loro attribuito nell’articolare una decisione accettabile. Un secondo piccolo organismo sarebbe incaricato di tentare di arrivare a un compromesso pratico tra considerazioni contrastanti. Il suggerimento è che questo dovrebbe essere un piccolo comitato, statisticamente rappresentativo degli interessi più fortemente avvantaggiati o svantaggiati da ciò che deve essere deciso. Il libro cerca di legare questa proposta con un approccio realistico alle questioni più generali dei beni pubblici, dell’incertezza pratica, dei processi sociali e dei problemi globali.
Recentemente la proposta è stata rilanciata da David Grégoire Van Reybrouck scrittore, storico e archeologo belga di lingua fiamminga, che dal 2011 al 2012, è stato uno dei promotori ed organizzatori della G1000, un’iniziativa che riunisce un migliaio di belgi delle due principali comunità linguistiche per cercare una migliore organizzazione della democrazia nel paese, arrivando a teorizzare la democrazia per sorteggio, in un sistema misto con procedure elettive e assemblee deliberative di cittadini estratti a sorte nel nel suo libro del 2014, Contro le elezioni (Tegen verkiezingen) tradotto anche in italiano.
Van Reybrouck in un intervista del 2014 al Corriere della ha dichiarato parlando dei 5S “Sono d’accordo sul fatto che la nostra democrazia ottocentesca non sia più adatta ai tempi, ma non condivido le soluzioni che loro propongono”, “Seguo con interesse alcuni esperimenti di estrazione a sorte, che negli ultimi anni sono stati condotti un po’ ovunque nel mondo, dalla provincia canadese della British Columbia all’Islanda al Texas a, più recentemente, l’Irlanda. Qui si è appena conclusa la Convenzione costituzionale, che ha visto collaborare per un anno 66 cittadini tirati a sorte con 33 eletti. Quest’assemblea inedita è riuscita ad avviare senza scossoni la riforma di 8 articoli della Costituzione irlandese”, ed alla domanda dell’interlocutore su quali competenze avrebbero i futuri eletti risponde “E perché, quale competenza hanno oggi la maggior parte dei deputati nei nostri Parlamenti? I migliori di loro usano la legittimità offerta dallo status di eletti per chiedere informazioni e consigli agli esperti, e infine decidere a ragion veduta. Niente che non potrebbe fare una persona tirata a sorte. Con il vantaggio fondamentale che i cittadini tirati a sorte sarebbero forse più inclini a dare priorità al bene comune, e non alla propria rielezione” d’altronde come dargli torto se guardiamo infatti i curricula per esempio di molti dei cinquestelle, ma anche di altri sia di destra che di sinistra, fatto causato però dalla legge elettorale che non prevede le primarie ma la cooptazione delle segreterie di partito. Tutto ciò ha prodotto il fatto che i nostri rappresentanti sono scelti più per servire i capi del partito che il popolo sovrano. Altro esempio illuminante: i segretari dei maggiori partiti italiani non hanno nemmeno una laurea: né Zingaretti del PD, né Salvini della Lega, né la Meloni di Fratelli d’Italia, bisogna arrivare a Silvio Berlusconi per trovare un dottore. Anche su questo bisognerebbe fare una profonda riflessione, come sul cosiddetto merito, infatti per chi ha dedicato la propria vita agli studi, alla ricerca o alla professione è molto difficile accettare di essere governato da un personale politico poco attrezzato culturalmente e accademicamente, e tutto ciò contribuisce alla perdita costante di credibilità della classe politica.
Sono lontani i tempi in cui i figli dei Re d’Italia erano educati rigidamente nelle accademie militari per prepararsi al duro compito di guidare lo Stato. Un giorno il colonnello di Stato Maggiore Egidio Osio, precettore del futuro Vittorio Emanuele III d’Italia, appena insediato nel suo ruolo disse al piccolo principe “si ricordi che il figlio di un Re, come il figlio di un calzolaio, quando è asino è asino”. Frase che condivido appieno.
E tutto questo porta al discorso di Grillo,che in sintesi dice “visto la scarsa qualità dei nostri rappresentanti e il loro attaccamento alla poltrona che a sua volta produce pessimi risultati sul piano dell’azione politica la soluzione è nominarli a tempo determinato per sorteggio”, prima però bisogna delegittimarli, poi ridurli di numero ed infine sostituirli con qualcos’altro.
Con che cosa? La Democrazia deliberativa, nulla di nuovo sotto il sole in termini assoluti. Infatti anche se essa nasce nelle poleis arriva ai ai giorni nostri attraverso Marx, perché essa avendo come presupposto l’allargamento della base che decide e legifera è l’effetto pratico delle teorie contemporanee egualitariste di stampo anche marxiste più spinte.
È opportuno a questo proposito specificare che nel linguaggio corrente italiano il verbo «deliberare» è sinonimo di «decidere», ma viene comunemente utilizzato principalmente in ambito istituzionale/amministrativo (es. delibera comunale). In realtà l’origine latina del termine (de-liberare, da libra bilancia) letteralmente significa «ponderare completamente» ovvero assumere una decisione nel merito di una questione, ma solo dopo averla discussa ed esaminata a fondo, «soppesando» attentamente i pro e i contra dei diversi possibili corsi d’azione, comprese le conseguenze, i vincoli, le opportunità, i valori e gli interessi in competizione, gli eventuali scambi e sacrifici in gioco.
Autori che si sono occupati della teoria della democrazia deliberativa sono Jürgen Habermas esponente di punta della Scuola di Francoforte di orientamento neo-marxista e Costantino Mortati ma anche John Rawls, John Dewey e Hannah Arendt, John Stuart Mill e persino guarda caso proprio Jean-Jacques Rousseau da cui prende il nome la famosa piattaforma pentastellata ideata da Casaleggio. Tuttavia, per esteso per la prima volta la ritroviamo in un saggio moderno di Joseph Bessette (Deliberative democracy. Tha Majority Principle in Repubblican Government, pubblicato nel 1980 dall’American Enterprise Institute nella raccolta di saggi dal titolo How Democratic is the Constitution?).
Presupposto per questo cambio di prospettiva è che la Democrazia rappresentativa è ormai in una crisi irreversibile, che genera al proprio interno una crescente delusione, verificabile attraverso l’astensionismo, l’indifferenza e la sfiducia nei confronti del sistema politico-istituzionale, il calo dei militanti politici nei partiti e il conseguente emergere di movimenti contestatari come il M5S.
La democrazia deliberativa, che dovrebbe sostituire quella rappresentativa, si fonda su alcuni principi quali: accettazione della diversità; uguaglianza, infatti si ripropone di andare oltre il dato formale, ricercando le condizioni per un’eguaglianza effettiva (uno vale uno); neutralità, tutto avviene in ambiente asettico senza il coinvolgimento di gruppi di opinione ma individualmente come un voto su una piattaforma web. Queste attività poi dovrebbero essere promosse, finanziate e gestite da organizzazioni terze non coinvolte, al fine di contenere possibili distorsioni e diseguaglianze derivanti dalla struttura di potere, magari come è avvenuto in Italia da un fondazione o un’associazione, ad esempio Rousseau per intenderci, gestita da professionisti a loro modo indipendenti e neutrali.
Ma come avviene poi il reclutamento effettivo di coloro che debbono rivestire cariche pubbliche?A tal fine esistono tre tipi di reclutamento prevede questo sistema: una selezione mirata, su invito dedicato, rivolta soprattutto agli esperti o ai portatori di interesse, con particolare riguardo alla neutralità; con le “porte aperte” a chiunque, ma meglio ai “cittadini attivi” o direttamente interessati come gli attivisti iscritti alla piattaforma; con un campionamento stratificato usando una tecnica statistica che dovrebbe “garantire” un microcosmo rappresentativo della popolazione. Grillo e Casaleggio padre, come è facilmente intuibile, non si sono inventati nulla, hanno solo messo in pratica questi principi neo-marxisti egualitari, mischiandoli anche con alcuni elementi nazional popolari, come la proposta (oramai abbandonata) di ritorno alle monete nazionali, necessari per attrarre quelle non poche persone del classico elettorato di destra, che oggi si dicono delusi e traditi dal movimento. Hanno sbagliato prima nel non aver capito cosa ci fosse veramente dietro queste proposte, continuano a sbagliare anche oggi quando avallano alcune idee, come la riduzione dei parlamentari, perché la carica rivoluzionaria del Casaleggio pensiero è rimasta intonsa, anzi forse si è potenziata con l’azione di governo prima con la Lega ed oggi con il Partito Democratico.
Come facilmente si vede ci sono tutti i presupposti culturali per stravolgere l’assetto istituzionale di uno Stato con un largo consenso. Ma il vero problema risiede nel controllo di un tale sistema, che oggettivamente è demandato a poche persone “neutrali ed indipendenti” che non hanno il compito della rappresentanza popolare ma solo della sua gestione.
Difronte ad un impianto simile, che grazie alla decrescita, felice per pochi ma infelice per i più, alla delegittimazione della democrazia rappresentativa e del parlamentarismo, alla crisi spirituale, economica e sociale, ha cominciato a prendere forma, non vedo una risposta altrettanto efficace e convincente da parte del polo “popolare, conservatore, identitario e nazional patriottico” che aggrappato ai sondaggi che lo danno maggioritario, spera in un ribaltamento della situazione grazie all’arma “segreta” delle prossime elezioni nazionali. Senza elaborare una nuova via sarà inevitabilmente costretto comunque nel tempo a soccombere anche stando al governo, come nella storia delle rivoluzioni è avvenuto e mentre l’orchestra suona questo Titanic affonda, con i cosacchi già dentro il Palazzo d’Inverno a fare strame di tutto e tutti.
Per queste ragioni ho lanciato l’idea di un assise nazionale delle migliori intelligenze, sia di destra che di una sinistra aperta al confronto, proprio per proporre un modello prima culturale e poi politico in cui al centro ci sia l’uomo e le sue libertà naturali e da opporre alla dilagante avanzata della demagogia destrutturante, che oggi propone l’Aleocrazia (definizione inventata da Carmelo Maria Durante) come panacea di tutti i mali delle nazioni occidentali,.
Vincere un’elezione non modifica la sensibilità o il costume dei popoli, ma la cultura si.

Antonino Sala

Referendum? Questo è solo l’inizio! Salvini, Berlusconi e Meloni & Co. convochino un’assise delle migliori intelligenze d’Italia prima che sia troppo tardi

Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti

Il risultato del referendum del 20 e 21 settembre 2020 ci consegna un Parlamento ridotto, un’idea di democrazia rappresentativa indebolita ed un Italia sempre più incagliata nelle secche della demagogia. Seguo con attenzione ed apprensione il dibattito che si è scatenato sul duplice risultato delle elezioni e quello che denoto è l’assenza di una seria analisi da parte delle forze di centrodestra sul perché di un risultato magro, anche se in parte premiante vedi il caso delle Marche, nonostante ci fossero tutte le premesse perché si potesse raggiungere un obbiettivo molto più ampio.
Credo che sostenere in quella maniera acritica la riduzione dei parlamentari sia stato un grave errore politico da parte sia della Lega che di Fratelli d’Italia ed in parte di Forza Italia, non solo perché in assenza di una vera ed organica riforma del nostro sistema istituzionale che prevedesse l’abolizione del bicameralismo perfetto e l’introduzione del presidenzialismo o del premierato, ma perché avallare una delle battaglie più riconoscibili e radicali dei 5 stelle ha significato abdicare al ruolo di guida per una nazione.
La politica infatti non può essere solamente interpretazione dell’ultimo sondaggio di opinione, ma dovrebbe avere la forza ed il coraggio di indicare vie alternative alle facili scorciatoie populiste ed essere capaci di sfidare il proprio avversario sul piano del confronto e della proposta. Cosa che i principali attori del centrodestra, Salvini, Berlusconi e Meloni per primi, non hanno voluto o saputo fare, consegnando così la vittoria reale e morale ai pentastellati di Di Maio, che seppur ridotti nelle percentuali alle elezioni regionali hanno concretizzato una delle loro proposte storiche con la complicità dei suddetti. Ricordo a me stesso che l’obbiettivo di Grillo era quello di modificare l’assetto istituzionale della Repubblica non raggranellare qualche consigliere regionale in più, ed in questo da buon rivoluzionario riconosco che ci è riuscito anche sacrificando qualche milione di voti, come avrebbe fatto un generale sovietico sul campo di battaglia difronte ad una storica e possibile vittoria.
Non aver combattuto perché il 30% di No divenisse maggioranza, aggiunge una nota di amarezza proprio per le percentuali conquistate dai partiti di centrodestra alle contestuali regionali. È stata un’occasione persa per dimostrare la capacità di traino dei leader “sovranisti” su questioni fondamentali, e l’allineamento all’avversario ha avuto il sapore di una ennesima Caporetto delle forze nazional patriottiche e conservatrici, come loro stessi si definiscono. Questo scenario ha poi determinato anche un allentamento della tensione negli ultimi giorni, che ha permesso il recupero da parte dei candidati presidenti del PD in Toscana e Puglia, l’elettorato infatti lasciato in balia delle più facili pulsioni demagogiche si è orientato sull’usato sicuro non intravedendo dall’altro lato una proposta chiara che facesse da propulsione della campagna elettorale regionale. Infatti da un alto si invocava la spallata al governo PD 5S e le relative elezioni anticipate in caso di vittoria del centrodestra e dall’altro si indicava il SI al referendum che come immediata conseguenza avrebbe determinato il consolidamento del Conte bis, perché era fin troppo scontato che poi si sarebbe parlato di legge elettorale e ridefinizioni dei collegi, certamente non una questione da poco che richiederà tempo, con tra l’altro l’incombente semestre bianco per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica in cui non è costituzionalmente consentito sciogliere le camere. Una confusione di idee ed azione che ha poi surrettiziamente orientato gli elettori verso i candidati uscenti del PD che non solo hanno giovato della gestione della crisi sanitaria dovuta al Covid19, ma hanno saputo approfittare dell’incertezza della proposta avversaria. Il risultato? La conferma degli uscenti, la vittoria del SI al referendum sostenuto anche dal PD e il consolidamento del governo giallo rosso.
Qualcuno dirà “abbiamo confermato gli uscenti di centrodestra e conquistato le Marche”, a parte la capacità di Toti e Zaia ed anche loro hanno beneficiato dell’effetto Coronavirus, proviamo a ragionare in termini numerici: la Campania ha una popolazione di 5.802.000 anime, la Puglia di 4.029.000, la Toscana 3.730.000 per un totale amministrate dalla sinistra di 13.561.000; invece le Marche di 1.525.000, la Liguria di 1.551.000, il Veneto 4.906.000, la Valle d’Aosta 125.666 per un totale governate dal centrodestra di 8.107.666. Risulta così evidente lo squilibrio tra coloro che subiranno la politica di Zingaretti & Co. e gli altri. L’avanzata del cdx si riduce ad una piccola regione con un numero ridotto di abitanti, rimanendo in mano alla sinistra quasi il doppio degli abitanti nonostante gli sforzi e l’impegno dei candidati e dei leader.
Questo dovrebbe spingere ad un ulteriore riflessione i leader e se mai le riuniranno, anche solo come sfogatoio interno a cui i militanti hanno diritto, le loro direzioni nazionali: si può pensare di vincere le prossime elezioni nazionali in questa situazione? È possibile un ribaltamento in termini di politica culturale in Italia? Secondo me no!
Ragionare per territori e non per abitanti ridurrà di molto le prospettive di un riscatto, vista anche l’idea dell’attuale maggioranza di far passare una legge elettorale proporzionale dove conteranno di più il numero di voti totali, e da che mondo è mondo il 20% in Campania è molto di più del 40 nella Marche, signori miei.
Condividendo le analisi a caldo sia di Marcello Veneziani che di Francesco Giubilei ed in parte di Paolo Mieli, su gli ultimi scenari e sui protagonisti nel campo moderato, e leggendo le dichiarazioni dei vari capi partito del centrodestra mi rendo conto che c’è poca volontà di guardare in faccia la realtà per trovare una linea coerente con la propria identità ma soprattutto di attrarre e guidare quella maggioranza silenziosa di centro destra che in gran parte non è andata a votare o che si è ritrovata, come il sottoscritto, tra i NO a questa riforma.
Il presidente della Liguria Toti ha rilasciato subito dopo la sua rielezione una intervista molto efficace, nella quale sostiene che bisogna aprire il campo dei moderati a tutte le forze che si riconoscono in una base ideale comune e che in determinati momenti della storia d’Italia hanno fatto la differenza in termini elettorali. Aggiungo anche che in questa tornata elettorale al centro destra è mancato il centro, cioè una autentica forza liberale e popolare che facesse da valore aggiunto alla coalizione, come lo era Forza Italia ed il CDU, inoltre sia Salvini che la Meloni, dovrebbero agire non per intercettare il consenso ma per crearlo intorno alle loro proposte, che per certi versi tardano ad arrivare su cultura, economia, scuola, università, ricerca scientifica, lavoro, eccetera eccetera.
Non bastano gli auguri sorridenti di “una buona domenica” su Facebook, serve ben altro per contrastare l’ideologia del transumano, teorizzata nel “Manifesto per una politica accelerazionista” di Alex Williams e Nick Srnicek, o il pensiero neosocialista che si annida nelle statalizzazioni di molta economia reale ad opera del governo, vedi il caso Alitalia.
Sarebbe utile ripartire, prima che sia troppo tardi, dal contrasto sul piano ideale e culturale, per formare una classe dirigente capace di riportare a casa tanti moderati che hanno preferito votare ad esempio De Luca del PD al 69% in Campania piuttosto che Caldoro rimasto al palo di un 18% con Lega al 5,65%, Fratelli d’Italia al 5,98% e Forza Italia al 5,16%; francamente uno scenario inquietante in una terra che ha sempre dato molto credito alle forze nazional conservatrici e liberali, sin dal referendum Monarchia Repubblica del 2 giugno 1946, che vide il Re Umberto II trionfare in tutto il Sud.
Certo non mancano le note positive come la rielezione di Zaia con percentuali altrettanto elevate, ma siamo sicuri che questo poi sia un bene per la coalizione? O comincerà anche lì una lotta fratricida per la leadership interna prima alla Lega e poi alla casa dei moderati? Mi auguro di no. E poi le istanze autonomiste del Veneto saranno ancora più galvanizzate dal risultato tanto da essere poi un altro spauracchio per coloro che credono nell’unità nazionale italiana e che magari spaventati preferiranno votare a sinistra? Si riuscirà a fare sintesi tra le rivendicazioni di autonomie locali e le istanze centrali in una visione tradizionale non demagogica? Emergerà una classe dirigente all’altezza di questo compito? I candidati sono stati e saranno premiati per la loro qualità e non per le loro appartenenze consortili o familistiche.
La mia proposta? Salvini, Berlusconi e Meloni & Co., aprano una nuova fase costituente per un auspicabile rinnovamento del centro destra, perché comunque continua a non sfondare, e convochino una grande assise nazionale di intellettuali d’area ma anche di battitori liberi non allineati, di intelligenze plurime, di imprenditori audaci, di artisti, di designer, di protagonisti della moda italiana, di sportivi, di esperti di geopolitica, sicurezza internazionale e di quanto altro fa grande l’Italia, in cui però devono ritagliarsi il ruolo di auditori pronti a fare sintesi tra le varie proposte, senza per forza improvvisare il solito sermoncino nazional patriottico antimmigrazionista liberal conservatore, buono per un comizio di chiusura in piccolo paese della Brianza o della Sicilia, ma assolutamente inutile a delineare il futuro della coalizione e più in generale dell’Italia.
Altrimenti cari amici, prepariamoci a vederne delle belle, perché questo referendum sarà solo l’inizio.
Antonino Sala

Partiti personali e Libertà individuali

In questi giorni in cui si discute sul referendum costituzionale del 20 e 21 settembre 2020 per la conferma del taglio del numero di parlamentari, ho cercato di capire se all’interno dei partiti si fosse aperto un dibattito interno, se ci fossero assemblee degli iscritti, direzioni nazionali e territoriali, insomma se ci sia stata la possibilità di esprimere il proprio parere anche in opposizione al “leader” di turno sia a destra quanto a sinistra. A parte la riunione della direzione del PD di cui si conosceva però l’esito, negli altri nemmeno quella, casualmente per la maggior parte schierati per il SI alla faccia della tanto sbandierata democrazia. Questo fatto necessita di una riflessione su cosa siano quelli che tutti chiamano partiti, se i dirigenti lo siano veramente e se i parlamentari esercitino il loro ruolo senza vincolo di mandato come recita la Costituzione o se, come sembra, pensando più che alle prossime generazioni alle prossime rielezioni.
La riduzione del numero dei parlamentari se fosse stata inserita in un piano di riforma complessiva, che armonizzava tutta una serie di storture che con rimaneggiamenti vari della costituzione hanno portato al disequilibrio istituzionale attuale, sarebbe potuta essere anche condivisibile insieme però al presidenzialismo o al semipresidenzialismo, all’eliminazione del bicameralismo perfetto, alla reintroduzione delle provincie e all’abolizione o più morbidamente all’accorpamento delle regioni a statuto ordinario in macro aree, riducendone il numero e la spesa che da quando sono state istituite è cresciuta a dismisura come preconizzato nel 1970 dal segretario del Partito Liberale Giovanni Malagodi e da Giorgio Almirante segretario del Movimento Sociale Italiano, che insieme ai monarchici di Alfredo Covelli presenti in Parlamento fecero una dura battaglia contro la loro istituzione. Infatti avevano ragione e il risultato è sotto gli occhi di tutti, grazie ai governi del centrosinistra di allora.
Oggi in pochi hanno avuto il coraggio di schierarsi contro questa riduzione della rappresentanza popolare, a differenza dei molti che ne hanno abbracciato lo spirito o per convinzione, o per compiacere l’elettorato che spesso però è orientato dai grandi media, o ancora per piaggeria verso il proprio leader nel terrore di perdere la possibilità di essere candidato o ricandidato per l’ennesima volta.
Tutto questo perché i partiti non sono più tali, sono diventati agglomerati personali o al massimo comitati elettorali, in cui è difficile fare emergere il dissenso interno, discutere apertamente di tesi culturali, politiche ed istituzionali: sono divenuti “non luoghi della discussione” da cui sono banditi tutti coloro che non si allineano alle decisioni dei capi e dove non si riuniscono, come si faceva una volta, le direzioni o si convocano i congressi per elaborare tesi ed improntare idee. Questo deficit democratico è avvertito inconsapevolmente dai cittadini, che per tutta reazione cominciano a pensare che forse non conviene più mantenere una classe politica del genere ed è meglio mandarli a casa, innescando così una pericolosissima deriva liberticida, che potrebbe anche sfociare nell’arrivo di un uomo solo al comando, osannato e idolatrato acriticamente.
Personalmente non desidererei per l’Italia un “capo” solitario che disegna in solitudine i destini della nazione anche se fosse Caio Giulio Cesare o Napoleone Bonaparte redivivo, perché chiunque esso sia sarebbe comunque un essere con tante debolezze e troppe ambizioni per decidere della vita e della morte di 60 milioni di persone. Preferisco la collegialità, la pluralità e non disdegno nemmeno la pletoricità, perché sono convinto che avere a disposizione più informazioni, pareri e contributi di cui si possa fare sintesi sia la migliore via per la vita di uno Stato civile e libero.
Nell’antica Roma il Senato decideva sulle questioni rilevanti liberamente dopo lunghi ed estenuanti dibattiti ed il numero dei suoi componenti crebbe dai 100 Patres di Romolo, ai 300 in epoca repubblicana fino a 600 durante l’Impero e non fu mai abolito.
Poi noi siciliani abbiamo già provato cosa significa la riduzione dei parlamentari che all’ARS sono passati da 90 a 70 e non mi pare che la situazione sia migliorata, nonostante gli sforzi del presidente della regione Nello Musumeci e di pochi altri volenterosi, anzi è peggiorata perché si sono acuiti i contrasti di potere perché più concentrati e si sono tacitate le possibili voci di dissenso interne ai vari partiti, ed infine sono scomparse le rappresentanze delle piccole formazioni politiche che era un segno di pluralismo, lasciando però inalterati i privilegi.
Oggi a parte qualche singolo coraggioso esponente sia di centro destra, come Silvio Berlusconi anche se camaleonticamente, Giancarlo Giorgetti della Lega palesemente ed in maniera più sfumata Guido Crosetto di Fratelli d’Italia, che di centro sinistra come Walter Veltroni e Carlo Calenda, quasi tutti gli altri esponenti dei partiti più grandi sono apertamente favorevoli alla riforma.
Le decisioni ultime sono state prese dai leader, anche contro la logica, vedi la posizione di Fratelli d’Italia per il Si incomprensibile anche dal punto di vista strategico non solo da quello politico perché, dopo aver chiesto da anni le elezioni anticipate adesso sostiene il SI che se vincerà farà arrivare la legislatura e quindi il governo fino alla fine del mandato, in quanto bisognerà riscrivere la legge elettorale nonché i collegi e nel contempo scatterà il semestre bianco per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica che inevitabilmente sarà scelto dall’attuale maggioranza escludendo proprio loro da questo come da altri processi decisionali importanti.
Tutto questo avviene perché si è fatto passare il messaggio che è inutile il dibattimento e il ragionamento per decidere, basta la fedeltà al leader di turno che conosce tutto e statuisce per tutti, poi il resto sono solo slogan in tv e battute sui social network, senza proposte, idee e valori ormai retaggio di un’epoca passata. Bastano i “garanti”, qualcuno autodefinitosi tale in maniera palese secondo il quale “le dittature paradossalmente funzionerebbero meglio delle democrazie” e altri manifestatesi tali, anche se in maniera surrettizia avendo inserito il proprio nome nel simbolo elettorale così da far intendere chi comanda veramente. Tutti pensando però che non ci sia la necessità di alcun confronto argomentativo, per loro giova solo la devozione acritica al capo nella speranza di guadagnarsi la sua riconoscenza, su questo illuminante Giulio Cesare che sosteneva “generalmente, gli uomini prestano fede volentieri a ciò che desiderano”, come un posto in Parlamento. D’altronde per molti di costoro il modello di stato ideale è quello della Repubblica Popolare Cinese in cui le libertà personali come le intendiamo noi occidentali sono relativamente importanti a differenza di quanto si crede in gran parte d’Europa, in Israele e negli Stati Uniti d’America dove invece per certi versi sono il fondamento dello stato stesso.
Personalmente credo che in politica non debbano esserci “garanti”, ma ogni parlamentare dovrebbe avere come tale il proprio sovrano interiore o meglio, per coloro che si dicono cristiani, la propria libera coscienza, anche se comprendo che in questi tempi così sovvertiti e pieni di ansie in tanti preferiscono il rifugio deresponsabilizzante e rassicurante di una gendarmeria piuttosto che quello aperto, antidogmatico, in parte convulso ed entusiasmante al tempo stesso, ed a lungo termine più fruttuoso di una agorà ateniese o preferibilmente di un Senato Romano in cui ogni persona può alzarsi in piedi per esporre le proprie ragioni, nel rispetto delle altrui convinzioni, senza la paura di essere espulso per lesa maestà e dove quelli che ascoltano corrono il rischio pure di imparare qualcosa.
Adesso è il momento per dirla ancora con Giulio Cesare di non “aver paura che della paura” e forse con l’aiuto del buon Dio qualche speranza di rinascita per l’Italia ancora permane, se avremo, in pochi o in molti non importa perché la chiamata è personale, il coraggio di levarci contro la tirannide del pensiero unico omologante, in favore di un pensiero critico e libero, contro l’idea deresponsabilizzante “dei pochi eletti al potere” investiti del compito di gestire la nostra vita, a cui però la massa infuriata in cerca di colpevoli sarebbe pronta, come durante la rivoluzione francese del 1789, a tagliare la testa pur di assolvere se stessa, a sua volta istigata da altri demagoghi pronti a prendere il posto dei precedenti.
Per questo credo nella democrazia rappresentativa e nel Parlamento, come luogo dove essa prende forma e si esplica, come nella migliore tradizione romana e siciliana visto che nel luglio 1140 re Ruggero II di Sicilia convocò in Ariano l’assemblea generale dei suoi feudatari (curia procerum) allo scopo di emanare i regi statuti, le “constitutiones”, fondamento di un regno che durò 700 anni.

Antonino Sala