Gesù Cristo tra capitalismo, carità e libertà

Sentendo per l’ennesima volta dire, in maniera capziosa e distorta, al classico uomo di sinistra pieno di prosopopea proletarista, che Gesù sarebbe, secondo la vulgata marxista, il primo comunista della storia solo perché predicava la carità verso il prossimo, ho fatto la riflessione che proprio Lui è stato, durante la sua vita terrena, il primo capitalista dell’era cristiana.
Il capitalista infatti è colui che crea ricchezza attraverso la trasformazione delle materie prime impiegando propri mezzi e risorse. Allora andando alle sacre scritture, nel vangelo secondo Giovanni si legge “tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare» e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono». Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.”
La compassione di Gesù e l’amore verso la propria madre che lo invitava ad agire in favore degli sposi lo spinsero a trasformare una materia prima, l’acqua, in un bene di consumo più importante, il vino servendosi del suo capitale, la propria divinità, che tutto può, a cominciare dal modificare la natura degli elementi che si piegano al suo volere.
Se poi prendiamo quanto riportano tutti e quattro gli evangelisti sul miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci allora il mio pensiero si fa ancora più netto. Gesù sfamò cinquemila uomini con 5 pani e 2 pesci, così come è descritto da Matteo 14,13-21, da Marco 6,30-44, da Luca 9, 12-17, da Giovanni 6, 1-14. Ecco cosa ci dice il testo di Giovanni Giovanni 6,1-14: Dopo questi fatti, Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!».
Ma non è l’unica volta che questo segno della Sua potenza si manifestò, anche in un’altra occasione quattromila uomini furono sfamati con sette pani e “pochi pesciolini”, così come scritto da Matteo 15,32-39 e da Marco 8,1-10. Ecco cosa ci racconta l’evangelista Marco: “in quei giorni, essendoci di nuovo molta folla che non aveva da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro: «Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono di lontano».Gli risposero i discepoli: «E come si potrebbe sfamarli di pane qui, in un deserto?». E domandò loro: «Quanti pani avete?». Gli dissero: «Sette». Gesù ordinò alla folla di sedersi per terra. Presi allora quei sette pani, rese grazie, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; dopo aver pronunziata la benedizione su di essi, disse di distribuire anche quelli. Così essi mangiarono e si saziarono; e portarono via sette sporte di pezzi avanzati. Erano circa quattromila. E li congedò. Salì poi sulla barca con i suoi discepoli e andò dalle parti di Dalmanùta.”
Sarebbe strano che chi riesce a trasformare la materia prima in prodotto finito, a sfamare migliaia di persone con poche risorse che in mano Sua diventano più che sufficienti definirlo “comunista”. Quanti regimi socialisti avete visto sfamare uomini e donne? Ne “Il libro nero del comunismo” curato da Stéphane Courtois troviamo che le vittime di questi regimi sono arrivate a 100 milioni, per non parlare delle violenze, delle repressioni e del terrore nell’Unione Sovietica di Stalin, nella Cuba castrista o nella Cina di Mao.
E quanto è pesato nella storia del novecento l’invidia sociale, tradotta in odio, verso i propri datori di lavoro, instillata da Marx, Engels e i loro epigoni Lenin e Stalin?
Di contro quanto affetto sincero c’è nel centurione romano che a Cafarnao gli venne incontro dicendogli «Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente» e Gesù gli rispose: «Io verrò e lo curerò».
Pertanto non possiamo non ricordare quale grande contributo sia stato quello del cristianesimo, in tutte le sue declinazioni, allo sviluppo del capitalismo come sistema economico e sociale. La religione dell’amore fraterno ha stravolto i rapporti tra servi e padroni nell’antica Roma, ha permesso la nascita delle corporazioni medievali con le prime forme di tutela degli aderenti ad esse, e quella dei primi banchi gestiti peraltro dai grandi ordini crociati, ha dato un impulso decisivo al rinascimento italiano con gli artisti pagati come meglio si poteva pur di avere i loro lavori ed infine alle rivoluzioni industriali, in cui i primi a giovare dei miglioramenti dei sistemi produttivi sono stati proprio i lavoratori che dalle campagne si sono spostati nelle città dove hanno trovato un minor carico di lavoro manuale e retribuzioni più alte, che di conseguenza hanno costretto i proprietari terrieri ad aumentarle ai propri operai per tenerli legati alla terra. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se Gesù stesso fosse stato avverso alla libera impresa fondata sul libero scambio e all’utilizzo delle risorse naturali che all’uomo sono state affidate non per contemplarle ma per goderne a differenza di quanto un certo ambientalismo vuole far credere.
Tutto l’avanzamento dell’Occidente, è stato un continuo rifarsi alla parabola dei talenti ”avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.” Un chiaro incitamento a operare e a rischiare per moltiplicare quelle risorse che ci vengono assegnate e da cui dobbiamo trarre il massimo secondo ognuno le sue potenzialità naturali.
D’altronde da diversi autori è stato approfondito il rapporto tra cristianesimo e capitalismo, anzi è ritenuto rilevante l’apporto dato proprio dai francescani allo sviluppo del libero scambio. Infatti scrive Dario Antiseri “la riflessione economica francescana diventa realtà concreta nei Monti di pietà e nei Monti frumentari dove la differenza tra le due istituzioni sta nel fatto che i Monti di pietà servivano a calmierare il costo del denaro a vantaggio delle forze lavoro, mentre con i Monti frumentari si intese calmierare il prezzo del grano, a favore della parte povera della classe degli agricoltori: venivano prestate derrate di cereali per la semina che, a raccolto avvenuto, venivano restituite alle condizioni stabilite, in sostanza a seconda del rendimento dell’annata. Attenti agli aspetti concreti dell’evangelizzazione, i francescani si erano resi conto dell’impossibilità per le famiglie meno abbienti di avere accesso al credito ad un equo tasso di interesse ed erano testimoni del dramma di tante famiglie precipitate in miseria perché strangolate da usurai ebrei e cristiani senza scrupoli. Sta proprio qui, appunto, la ragione principale della creazione dei Monti di pietà: istituzioni concepite come mezzo di cura della povertà, di lotta all’usura .
Fu frate Barnaba Manassei da Terni a fondare a Perugia il 13 aprile del 1462 il primo Monte di pietà. Frate Barnaba, tra il 1460 e il 1462, insieme a frate Michele Carcano da Milano, aveva predicato a Perugia contro l’usura, e «riuscì a convincere gli amministratori della città a dar vita a un banco di prestito su pegno, che usasse il tasso di interesse unicamente per conservare il cumulo di denaro necessario a mantenere il flusso dei prestiti. L’istituzione si formò con i proventi di donazioni e di elemosine (…) Faceva prestiti a mercanti ed artigiani ed escludeva prestiti per spese di lusso. Il tasso di interesse non superava il 6%» (Bazzicchi). Subito dopo quello di Perugia, l’istituzione dei Monti di pietà si diffuse in Umbria e nelle Marche per estendersi successivamente soprattutto nell’Italia del Nord. Nel 1463 il Monte di pietà fu fondato a Orvieto e a Gubbio; nel 1464 a Pesaro e l’anno dopo, nel 1465, a Foligno; nel 1466 a Norcia, a L’Aquila e Borgo San Sepolcro; nel 1467 a Terni; e il 14 giugno del 1468 ad Assisi. Qui, ad Assisi, a dare man forte al Monte di pietà fu fra Giacomo della Marca, il quale dimorò nell’eremo delle Carceri tra il 1468 e il 1471. Nell’estate del 1485 arrivò ad Assisi fra Bernardino da Feltre, il cui impegno di predicatore si profuse nella difesa dei Monti di pietà, e che pochi mesi prima, nel 1484, aveva fondato il suo primo Monte a Mantova. Monti di pietà sorsero nel 1469 a Spoleto e a Trevi, nel 1471 a Viterbo, nel 1473 a Bologna, nel 1483 a Milano e Genova, nel 1484 a Brescia e Ferrara, nel 1486 a Vicenza. In un secolo, dal 1462 al 1562, si potettero contare duecentoquattordici Monti di pietà. Con l’istituzione dei Monti di pietà i francescani si immersero nella concretezza della vita quotidiana della gente….Aspra è stata la discussione tra teologi, moralisti, giuristi di varie Università dell’epoca sul problema dell’interesse sul prestito. I teologi e moralisti domenicani e agostiniani erano contro ogni forma di interesse e addirittura anche contro il semplice rimborso spese. E pure tra i francescani l’argomento dell’interesse sul prestito fu oggetto di contese come dimostrano gli scontri che si ebbero nel capitolo generale dell’Osservanza di Firenze del 1493. E nel Capitolo generale che ebbe luogo a Milano il 13 luglio del 1498 si stabilì che non venissero eretti Monti di pietà senza la prescrizione di ricevere un tasso di interesse, seppur minimo. L’esperienza aveva già dimostrato, con il fallimento del Monte di pietà di Firenze, che i Monti non avrebbero affatto potuto sopravvivere senza la richiesta di un pur minimo interesse sul prestito.”
Inoltre è interessante la tesi di Stefano Zamagni in L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo secondo la quale “la famosa tesi di Max Weber secondo cui la Riforma incoraggiò – e non causò, si badi – lo sviluppo del capitalismo moderno attraverso l’etica protestante del lavoro e la nozione di vocazione collegata all’idea calvinista di predestinazione individuale. L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05 e 1920) si apre con una domanda ben specifica: “Quale concatenamento di circostanze ha fatto sì che proprio sul terreno Occidentale, e soltanto qui, si siano manifestati fenomeni culturali che pure… stavano in una linea di sviluppo di significato e validità universale?” Nel cercare una risposta significativa, il grande sociologo tedesco inizia con l’osservare come: “Il Protestantesimo ha l’effetto di liberare l’acquisizione della ricchezza dalle inibizioni delle etiche tradizionaliste; esso rompe le catene della ricerca del guadagno non solo legalizzandolo, ma vedendo in esso l’espressione diretta della volontà di Dio”. E’ in particolare la nozione Calvinista di ascetismo – a differenza di quanto accadeva nella vita monastica, l’ascetismo per Calvino significava impegnarsi nel mondo in modo produttivo controllando con la ragione le pulsioni passionali – che, secondo Weber, vale a stabilire la contiguità fra Protestantesimo e capitalismo moderno. Alla regola benedettina “ora et labora”, Calvino sostituisce la sua “laborare est orare” (“lavorare significa pregare”), con il che l’ascesi cattolica extramondana si fa ascesi intramondana nella spiritualità calvinista: è in ciò la genesi dello spirito del moderno capitalismo. La vicenda della Riforma costituisce un caso notevole, anche se non unico nella modernità, di eterogenesi dei fini. Lutero e gli altri esponenti della Riforma (salvo Calvino) erano ostili alle questioni economiche, né conoscevano il funzionamento delle istituzioni di mercato. La loro fu una lotta accesa contro la diffusa pratica, nella Chiesa Cattolica, di episodi di corruzione e di compravendita delle indulgenze. La Riforma non riguardò se non indirettamente la sfera dell’etica. Il suo oggetto fu piuttosto la teologia e la vita religiosa. Eppure, preoccupato di proteggere la religione dall’influenza delle forze del mercato, Lutero – secondo l’interpretazione corrente della tesi weberiana – avrebbe, affiggendo le 95 tesi sulla porta della cattedrale di Wittenberg, scritto un manifesto capitalista. C’è del vero in ciò? Non penso proprio. In primo luogo, giova precisare che, contrariamente a quanto asserito da non pochi interpreti, Weber mai ha sostenuto che il capitalismo ha tratto origine dalla Riforma. Scrive al riguardo il nostro: “Non si deve combattere per una tesi così pazzamente dottrinaria come sarebbe la seguente: che lo ‘spirito capitalistico’ sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma”. (Ib.p.162). Non è tanto il capitalismo, quanto il capitalismo moderno che, secondo Weber, esigeva una spiegazione delle sue origini o, meglio ancora, del suo rapido diffondersi nei paesi nord-europei. Si badi che a differenza di Lutero, la cui conoscenza dei problemi economici era alquanto limitata e la cui ostilità nei confronti delle pratiche capitalistiche era ben nota, Calvino era pienamente consapevole delle attività finanziarie che si praticavano nella sua Ginevra e delle loro implicazioni economiche e sociali. Quel che pare dunque ragionevole sostenere è che, sebbene valori borghesi quali la parsimonia, la perseveranza, la dedizione al lavoro duro etc., ricevettero tutti un riconoscimento esplicito dalla teologia di Calvino, il capitalismo moderno (nel senso di Max Weber) è più un risultato collaterale, che non l’effetto desiderato di quella prospettiva religiosa.”
Scrive Joseph Schumpeter “Già prima adombrata, essa fu per la prima volta espressa da sant’Antonino, il quale spiega che sebbene il danaro circolante possa essere sterile, il capitale monetario non lo è, perché esso rappresenta una condizione necessaria per intraprendere affari. Ora, è ben vero che il domenicano arcivescovo fiorentino sant’Antonino (1389-1459) accoglie nella sua Summa l’idea della funzione del prestito di danaro sia per i consumi che per gli investimenti vantaggiosi, richiamandosi all’autorevole proposta di san Bernardino da Siena (1380-1440), solo perchè costui, da parte sua, ripeteva le idee di due francescani: Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e Alessandro di Alessandria (1270-1314).
Nella Prima Quaestio del Tractatus de emptione et venditione l’Olivi tratta del valore economico. Il valore di una cosa, egli afferma, nasce dalla concorrenza di tre cause che sono: quelle proprietà che la rendono adatta meglio di un’altra a soddisfare i nostri bisogni; la scarsità e quindi la difficoltà ad essere reperita; la preferenza individuale di coloro che intendono usarla.
Nella terminologia di san Bernardino da Siena, nella trascrizione che egli fa dei passi dell’Olivi, il valore di una cosa è data dalla raritas, dalla virtuositas e dalla complacibilitas.
La raritas sta a significare la scarsità del bene economico rispetto alla domanda; la virtuositas “la sua capacità oggettiva di rispondere ad un bisogno”; e la complacibilitas è la preferenza che un soggetto dà ad un bene in vista dell’appagamento di un bisogno piuttosto che di un altro, stabilendo una gradualità tra questi. Con la complacibilitas l’Olivi introduce nella concezione del valore un elemento che risulterà poi nevralgico per il marginalismo e nella successiva e contemporanea teoria economica. In sintesi, annota ancora il Bazzichi, “il valore economico si determina in funzione dell’utilità – sia nella sua forma oggettiva (virtuositas) sia nella sua forma soggettiva (complacibilitas) – e in funzione della rarità. E precisa: è questa veramente la migliore e la più moderna tra le teorie del valore del Medioevo”.
Mi pare anche opportuno per completezza citare anche Murray Rothbard, esponente libertario della Scuola Austriaca di economia, secondo il quale fu il cattolicesimo e scoprire il capitalismo di libero mercato che all’inizio fu osteggiato proprio dai protestanti. Rothbard, ebreo e agnostico, nonostante non si convertì mai dichiarò se stesso “un ardente sostenitore del cristianesimo”. Nella sua storia del pensiero economico (Economic Thought Before Adam Smith), uscita postuma nel 1995, Rothbard ripensò il Medioevo cattolico come un periodo ricco e creativo della storia europea proprio anche perché il libero mercato nacque molto prima di Adam Smith, nel mondo cattolico e non in quello protestante. L’attenzione del nostro di Rothbard si rivolse in particolare a due francescani: al provenzale Pietro Giovanni Olivi (1248-1298), il vero scopritore della teoria soggettiva del valore; e a San Bernardino di Siena (1380-1444), il quale, oltre a fornire una magistrale analisi delle virtù e della funzione dell’imprenditore, riportò in auge la teoria soggettiva del valore sviluppata da Olivi, per non parlare dell’esaltazione che fa dei tardoscolastici della Scuola di Salamanca del Sedicesimo secolo per la loro difesa della proprietà privata, per le acute analisi dei fenomeni di mercato e monetari, per la dura critica dell’intervento del governo nell’economia come scrive Guglielmo Piombini in un articolo dal titolo eloquente “Quando i francescani scoprirono il capitalismo” pubblicato dalla Nuova Bussola Quotidiana.
Infatti Olivi afferma “di fronte alla proibizione canonica dell’usura, è lecito distinguere fra il prestito di una somma di danaro qualsiasi e il prestito di una somma di danaro inscritto o da inscriversi nel processo produttivo, cioè impiegato in un programmato o già realizzato investimento produttivo?…. Ciò che è destinato a qualche probabile lucro non solo deve rendere il suo stesso valore, ma anche un valore aggiunto”.
Come ha scritto Oreste Bazzichi (Alle radici del capitalismo. Medioevo e scienza economica) i francescani, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, sono stati pressoché gli unici a elaborare, sul piano dottrinale, una teologia economica e, conseguentemente, a esercitare nella prassi un’influenza positiva per il superamento delle difficoltà giuridico-morali all’attività di impresa come l’interesse e la produttività del denaro.
Condivido infine per concludere, il pensiero di Flavio Felice professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise: “San Bernardino da Siena, considerando che «se è legittimo perdere, deve essere legittimo vincere», giungeva alla conclusione che per fabbricanti e commercianti è legittimo ottenere un profitto. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizzava anche il Vescovo di Firenze Sant’Antonino, il quale affermava che «poiché ogni agente opera per ottenere un fine, lo scopo immediato dell’uomo che lavora nel settore dell’agricoltura, della lana, dell’industria o di attività simili è il profitto». Per san Tommaso d’Aquino tra i motivi che giustificano i profitti dobbiamo considerarne fondamentalmente cinque: provvedere alla famiglia del mercante; aiutare i poveri; stimolare il benessere del paese; remunerare il lavoro del mercante; migliorare la merce. Dunque, condanne e filippiche a parte, le virtù mercantili si impongono. Sta per formarsi un nuovo sistema economico, il capitalismo, che per avviarsi e svilupparsi, ha bisogno, se non di tecniche nuove, per lo meno di un uso massiccio di pratiche da sempre condannate dalla Chiesa, i cui anatemi però vennero in molti casi superati, da un lato, con l’interpretazione delle singole tipologie di prestito e di interesse (damnum emergens, lucrum cessans, poena conventionalis), dall’altro, da una sottile analisi che traghettò il concetto di “capitale monetario” dalla nozione di somma di denaro destinato agli affari (capita), a elemento vivo la cui forza risiede nel suo carattere seminale (caput).L’avvio di tale analisi spetta all’originale idea del teologo Francescano Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) sul capitale, sull’interesse e sul giusto prezzo; quest’ultimo venne analizzato dall’Olivi a partire da una teoria soggettiva del valore: la complacibilitas (desiderabilità). Alla base del pensiero economico oliviano c’è la sua teoria del capitale, una somma di denaro che, essendo destinato agli affari, contiene già in sé un “seme di lucro”; questa presenza seminale costituisce il valore in più (“superadiunctus”) che il debitore deve restituire insieme alla somma ricevuta in prestito. L’idea oliviana, ampliata e accolta dalla scolastica francescana, si fece strada ed ebbe larghissima diffusione e fece testo nel campo della teologia morale grazie ai sermoni e alle prediche del francescano San Bernardino da Siena e del domenicano Sant’Antonino da Firenze, finché la scuola teologica dei gesuiti nel XVII secolo la presenterà come dottrina comune dei moralisti, a cui attinse, più tardi, il filosofo morale Adam Smith. Si tratta di un contributo fondamentale all’analisi teorica dell’economia di mercato, di cui, peraltro, l’economia sociale di mercato di Röpke in Germania e di Einaudi e di Sturzo in Italia può essere considerata, in qualche misura, continuatrice ed erede. Che questo basti per parlare di “radici cattoliche” del capitalismo? Se per capitalismo intendiamo un modello di produzione fondato sul ruolo positivo svolto dalle imprese, dal mercato, dalla proprietà privata e dal libero, responsabile e creativo agire della persona, ancorato a un saldo sistema giuridico e a un chiaro orizzonte ideale, al centro del quale è posta l’opera del più affascinante, raffinato e prezioso fattore di produzione: il capitale umano, credo che sia difficile non cogliere proprio nella tradizione greca, romana e infine cristiana, le radici stesse del capitalismo.”
Il Capitalismo attuale deve molto alle sue radici medievali e cristiane, poichè esso si incentra sul diritto naturale alla proprietà e alla libera impresa, come espressione della creatività dell’uomo sviluppata nei secoli e voluta nell’atto creativo da Dio per noi credenti. D’altronde il vero capitalista, non è colui che accumula oro e denaro fine a se stesso, ma al contrario ama reinvestirlo e quindi rischiarlo nella propria azienda, come scrive nella Società Libera Friedrich von Hayek, per migliorare il proprio prodotto venendo incontro meglio alle esigenze del consumatore, l’unico signore del mercato, e anche per ampliare la propria attività aumentando sia la produttività che il livello di impiego, divenendo in tal modo un inconsapevole benefattore della comunità, la quale dal suo ingegno ne ha sempre tratto un notevole vantaggio sia sul piano materiale che su quello dell’autodeterminazione, perché il Capitalismo è Libertà. E Gesù Cristo è l’essere più libero dell’universo essendone l’unico Re.

Gesù Cristo tra capitalismo, carità e libertàultima modifica: 2021-03-10T00:09:19+01:00da torreecorona
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