Francesco Ferrara: l’economista, il politico ed il liberista siciliano da riscoprire

Francesco Ferrara
(Palermo 1810 – Venezia 1900)

Autorevole economista e uomo politico di forti convinzioni liberali. Ricoprì diversi incarichi sia accademici che politici, tra cui: professore di Economia politica all’Università di Torino e di Pisa (novembre 1859-agosto 1860); deputato alla Camera dei Comuni (Sicilia) (1848-1849); socio nazionale dell’Accademia dei Lincei di Roma (26 ottobre 1876); prima deputato e poi senatore del Regno d’Italia e ministro delle Finanze nel 1867.
Fu fondatore nel 1874 della Società Adamo Smith insieme a Pareto ed Ubaldino Peruzzi che la presiedette, ad alcuni uomini della destra come Carlo Alfieri, Giovanni Arrivabene, Gino Capponi, Francesco Genala, Bettino Ricasoli, Guglielmo de Cambray Digny ed alcuni della sinistra come Salvatore Majorana Calatabiano, Agostino Magliani; ai banchieri e uomini di finanza come Pietro Bastogi e Carlo De Fenzi; ai professori e grandi notabili come Angelo Marescotti, Pietro Torrigiani, Francesco Protonotari, Francesco Carrara e Sidney Sonnino.
Nel 1848, durante i moti siciliani fu inviato a Torino per proporre al secondogenito di Carlo Alberto di Savoia la nomina a re di Sicilia. Il suo nome è legato ad una nuova definizione del costo di riproduzione, che è considerato il passaggio dalla teoria classica del valore, basata sull’effettivo costo di produzione, a quella soggettivistica fondata sull’utilità marginale tipica della scuola austriaca.
Ferrara, come già aveva fatto Henry Carey (il principale economista della scuola americana del XIX secolo e capo consigliere economico del presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln), che lui stesso aveva fatto conoscere in Italia attraverso la Biblioteca dell’economista, collega il fatto economico a un approccio dichiaratamente individualista, superando la teoria di stampo marxista del valore-lavoro. Il valore, da fatto accertabile mediante il conteggio delle ore di lavoro necessario per la produzione, diventa il risultato di un giudizio dei soggetti sulle alternative al ricorso a quel bene, alternative che passano per i surrogati di esso. La conclusione è che tanto più elevato è il numero dei surrogati, tanto più ci si avvicina alla concorrenza perfetta. Il prezzo di un bene inoltre, secondo il palermitano, non è influenzato, come per esempio nel caso di un’opera d’arte, dal costo di produzione espresso in unità orarie.
Così per lui il processo di formazione del valore di un bene passa per tre momenti: il giudizio di ‘utilità’ da parte di chi ricerca quel bene; il giudizio di ‘costo’ per chi lo produce; il giudizio di ‘merito’ da parte di chi confronta l’utilità con il costo. Ferrara afferma “quando dunque si abbiano de’ mezzi materiali di misurare con l’intensità del bisogno proprio l’utilità d’un oggetto, colla pena del travaglio proprio il suo costo, si avrà il mezzo di misurare il valor di cambio, il quale non si riduce che ad affermare la convenienza reciproca di questi elementi già noti.” Il mercato poi fa il resto trasponendo in termini monetari queste valutazioni. Ecco la vicinanza al marginalismo. Inoltre egli postula la negazione che si possa trovare una classe sociale, la borghesia, che si sia appropriata di un sovrappiù indebitamente.
Ferrara ritiene inoltre inutile aumentare la quantità circolante di moneta quando la fiducia degli operatori economici è debole, anticipando di fatto la cosiddetta trappola della liquidità di Keynes, secondo cui l’offerta di moneta è sterile quando le aspettative degli imprenditori sono negative, poiché l’immissione nel mercato di denaro verrebbe depositata invece di essere utilizzata in investimenti produttivi.
Dal punto di vista strettamente politico, le istituzioni, nella sua visione, sono tanto più forti ed onorate quanto più sono il frutto di una contrapposizione politica trasparente, con partiti che sono portatori di idee alternative. E per questo si schiera contro ogni ipotesi terzopolista, diremmo oggi, tant’è che scrisse “il ludibrio de’ terzi partiti è sempre pronto a mostrarsi colla pretesa di far consistere la verità in una transazione qualunque, e sciogliere il problema insolubile di un giusto mezzo a scoprirsi fra una verità e un errore.”
Nel 1851 citando l’aforisma di Bastiat per cui lo Stato […] è “la gran finzione per mezzo della quale tutti si sforzano di vivere a spese di tutti”, aggiungeva “i protezionisti non sono che una frazione di questo tutti. Essi voglion la legge, ma in tutto ciò che favorisca l’interesse della loro casta. I comunisti e i socialisti […] sono un’altra frazione del medesimo tutti.”
Per l’economista siciliano poi lo Stato quando viene occupato da una fazione in maniera stabile diventa strumento del governo e nel 1858 scriveva “cos’è infatti un governo? […] Nulla è di ciò che certe nebulose filosofie, o le velleità del socialismo o del comunismo, pretenderebbero di darci ad intendere; non è un essere a parte, superiore, staccato, diverso da ciò che noi stessi siamo. È una frazione di noi medesimi […] In fin dei conti ogni governo è una minoranza […].” Ecco il motivo per cui credeva nel fatto che tutti i governi dovessero avere dei limiti fissati dalla legge proprio per evitare derive pericolose per la libertà.
Nel 1884 il nostro autore esprime quale secondo lui è la forma ideale di governo e di stato “l’ufficio del governare una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante industrie, uno de’ tanti mestieri che, prendendoli nel loro insieme, danno l’idea dell’attività sociale. Tutti quanti siamo, […] produciamo permutiamo, consumiamo utilità più o meno incarnate in una materia[…] Da ciò, una classe di produttori, addetti a procurare quella tale utilità, che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo.
Se governare è produrre, le innate leggi della produzione devono inesorabilmente regnare nel mestiere de’ governanti, quanto e come regnano su chi coltiva la terra e ne porta i frutti al mercato. L’utilità sociale che il Governo produca non può, da lui medesimo o da lui solo, estimarsi; chi può misurarla, gradirla o rifiutarla, attribuirle un valore, sarà colui che la compri e la consumi, la nazione. Sì, noi, nazione-governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella meriti quel prezzo che il produttore-governo, per mezzo delle imposte di cui ci aggrava, pretenda di farcela costare […]. Tale è la portata dell’espressione che noi usiamo, libertà economica […].”
“Il cittadino si identifica con il consumatore dei servizi pubblici, valutati secondo la loro utilità (anche se all’economista siciliano manca la nozione di incremento al margine); la società civile coincide con il mercato dei produttori e dei consumatori; il governo stesso nasce da un processo di divisione del lavoro. Luigi Einaudi, riportando questo brano (Einaudi 1953a, 28), osserva che l’essenza del ragionamento non sta tanto nel contrattualismo politico, quanto nell’estensione del calcolo economico all’operatore pubblico. A noi oggi l’articolo di Ferrara appare soprattutto una sorprendente anticipazione delle concezioni neo-liberali della public choice.
In questo modo infatti Ferrara riteneva di aver definitivamente saldato fra loro insieme liberalismo politico e liberismo economico. L’assimilazione dell’economia pubblica a quella privata, entrambe soggette alla medesima legge del valore come costo di riproduzione (calcolato sullo sforzo di ottenere il surrogato più prossimo), consentiva all’economista siciliano – rilevava ancora Einaudi – di definire a contrario i casi in cui fra prelievo e spesa non vi è perfetta corrispondenza, in quanto il primo risulta per i contribuenti più oneroso di quanto non sia vantaggiosa la seconda. Casi, questi ultimi, che un altro grande economista liberale, Antonio de Viti de Marco, avrebbe poi fatto rientrare nel suo schema dello Stato ‘assoluto’ o monopolista, e che lo stesso Einaudi avrebbe identificato nei due profili dell’imposta grandine e dell’imposta taglia.
Einaudi poteva ben concludere che Ferrara aveva fondato, si può dire in un colpo solo, i due indirizzi principali della cosiddetta Tradizione finanziaria italiana, attenta alla patologia oltre che alla fisiologia del rapporto Stato-contribuente. Scriveva infatti nel 1872 l’economista siciliano “Il sistema rappresentativo ha questo grave difetto, che può facilmente convertirsi in uno strumento di illusione (corsivo aggiunto) […]. Un gran numero di esempi ci offre la storia moderna per insegnarci come sia facile abusare della buona fede dei popoli e ci spiega il segreto per cui vi furono dei governi che, tutto calcolato, trovarono il loro conto a soffrire le assemblee deliberanti, come mezzo per liberarsi dalla odiosità del sovraimporre i popoli, e di riservarsi il piacere delle grandi spese […]. Quando l’amministrazione ha reso inevitabile una spesa, le maggioranze si sentono trascinate a consentirla. È così che la rappresentanza del popolo diviene la più difficile e delicata delle funzioni sociali. (Ferrara 1934; riportato in Einaudi 1953a)[1]”
Ferrara fu un fiero oppositore del socialismo e dello storicismo marxista, e un propugnatore di un idea di progresso che si dipana senza un percorso definito e pianificato al di fuori di una via obbligata. Per lui un economista dovrebbe ispirarsi al pensiero di Adam Smith per indagare le condizioni concrete che permettono lo sviluppo di una nazione e per individuare la presenza o meno di quegli elementi dinamici, come li avrebbe poi chiamati Maffeo Pantaleoni, che sono il vero motore di ogni avanzamento economico.
“Indubbiamente Ferrara anticipò quest’ultimo nel ritenere che l’ineguaglianza dei punti di partenza – fra gli Stati come fra gli individui – è di per sé un fattore di progresso. È un fatto positivo per lui che gli uomini non nascano tutti uguali, né per doti naturali né per risorse economiche. Il processo di divisione del lavoro ha il suo motore in questa naturale ineguaglianza. Lo scambio stesso ha origine dalla diversa dotazione di risorse, come insegna la teoria ricardiana dei vantaggi comparati, di cui Ferrara vede giustamente l’applicabilità (Perri 1984). (….) La ineguale distribuzione delle risorse materiali e intellettuali fra gli uomini, così come la diversa attitudine alla procreazione (Ferrara segue Malthus), sono i più potenti motori del progresso umano.”[2]
Scrive Ferrara “nulla quaggiù ci è dato godere se non comperandolo per via di travagli e di dolori […]“.
Si oppose ad ogni forma di posizioni dominanti, anche a quelle bancarie, perché riteneva che “privilegi di corpo, monopoli, coalizioni, limiti alle ore di lavoro […] han provato […] che quando con artifici estrinseci si vuol deviare l’industria dal suo corso naturale, il lavoro non regge alle sproporzionate condizioni che gli s’impongono, cede, si dissipa […] e l’operaio non avrà sospeso lo stato della sua penuria che per toccare i limiti della fame.”
“Coerentemente, afferma Riccardo Faucci, Ferrara evita di indicare verso quale settore indirizzare di preferenza i fattori produttivi per avvicinare l’economia italiana a quella europea più avanzata. Egli non sembra suggerire, come invece aveva fatto Smith (1922, II, cap. 5), di puntare anzitutto sullo sviluppo dell’agricoltura, per poi passare gradatamente alla manifattura, al commercio interno e finalmente a quello estero. Qui, oltre che da Smith, il nostro economista si discosta dall’insegnamento dei principali scrittori italiani di economia del suo tempo, da Lambruschini a Ridolfi a Jacini, non a caso tutti ‘agraristi’.
Coerente con la sua concezione del sistema economico come sistema globale, Ferrara tace sulla questione, allora al centro del dibattito, sulle migliori forme di conduzione dell’impresa agricola. Questa voluta assenza di una qualsiasi strategia di sviluppo gli deriva dal condividere il liberismo assoluto di Bastiat. Non è quindi da sorprendersi se Ferrara, che per amicizie personali e per non breve residenza a Firenze potrebbe essere considerato un toscano ad honorem, non spende una parola a favore della mezzadria.
Per la medesima ragione il suo liberismo è diverso da quello della generazione successiva dei De Viti De Marco, dei Giretti e dei Salvemini, che indicavano nelle industrie di trasformazione dei prodotti agricoli, oltre che nell’agricoltura di qualità (uva, olio, agrumi), la fonte principale dello sviluppo che il Mezzogiorno – e con esso l’Italia intera – avrebbe potuto conseguire. In questo senso, si potrebbe osservare che il maggiore economista meridionale dell’Ottocento non è stato un meridionalista.”
Certamente fu federalista ma mai localista né un rivendicazionista piagnone che tanto vanno di moda oggi.
In buona sostanza un personaggio eclettico ma scomodo, che non le mandava a dire, dalla visione chiara dei problemi economici, critico della superficialità di alcune posizioni del suo tempo che gli facevano apparire come “in economia, le teorie son tronche, le loro applicazioni rischiano di fallire, ed è impossibile di vederne i limiti, l’estensibilità, i pericoli, i tarli, se si trascuri di studiarne la storia.”
Un pensatore attuale, sicuramente da leggere e riscoprire come economista e come politico, da collocare in compagnia di Carl Menger ed Eugen von Böhm-Bawerk nel pantheon della libertà.

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[1] Riccardo Faucci, Francesco Ferrara, il primo degli economisti cafoscarini, in Le discipline economiche e aziendali nei 150 anni di storia di Ca’ Foscari a cura di Monica Billio, Stefano Coronella, Chiara Mio e Ugo Sostero, 2018.
[2] idem.

 

Francesco Ferrara: l’economista, il politico ed il liberista siciliano da riscoprireultima modifica: 2021-07-25T23:33:36+02:00da torreecorona
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