Statolatrismo, Utopismo, Gnosticismo: il vero volto del marxismo. Auguri di buon anno.

Cari amici, nell’augurarvi un buon 2021 ricco di grazie e benedizioni celesti, vi consegno un’ulteriore personale riflessione che spero possa interessarvi.

Ancora auguri a voi e alle vostre famiglie e che San Michele arcangelo ci protegga e ci guidi.

 

Statolatrismo, Utopismo, Gnosticismo: il vero volto del marxismo.

“Anassagora per primo disse che il Nous fece il mondo; ma solo con la Rivoluzione francese l’uomo giunge a riconoscere che il pensiero deve governare la realtà spirituale. Questa fu un inizio glorioso celebrato da tutti gli esseri pensanti. Una nobile commozione dominò quel periodo, un entusiasmo dello spirito scosse il mondo, come se finalmente fosse avvenuta una conciliazione del divino col mondo.” (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia,1837).

 

“Lo Stato è il mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo. Come Cristo è il mediatore che l’uomo carica di tutta la sua divinità, di tutto il suo pregiudizio religioso, così lo Stato è il mediatore nel quale egli trasferisce tutta la sua mondanità, tutta la sua spregiudicatezza umana.” (Karl Marx, Sulla questione ebraica, 1844).

 

“Finora la ragione e la giustizia effettive non hanno regnato nel mondo perché non le si era intese esattamente. Mancò l’uomo geniale (Marx) che ora è sorto e ha capito la verità; ed è apparso ora e solo ora la verità è nota per un puro caso fortuito anziché necessariamente in seguito allo sviluppo storico.” (Friedrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, 1880)

 

 

Le tre citazioni  riportate sopra fanno immediatamente cogliere al lettore, quale sia il substrato che avvolge e ispira il pensiero marxista: l’idealismo hegeliano, in cui è il pensiero razionale, che si dipana attraverso la dialettica, forma la realtà ed essa al suo svolgersi deve uniformarsi, anzi è la razionalità stessa che produce ogni realtà, negando tutto ciò che da esso non può ovviamente promanare, come l’immaginazione o la spiritualità. La totalità immaginata da Hegel e poi ripresa da Marx è l’immenso prodotto di grovigli dialettici inesplicabili ed inspiegabili, ma che secondo loro autoproducono la realtà. C’è quasi un esoterismo di fondo in tutto questo ragionamento che impedisce all’uomo comune di capirne il perché, a cui è relegato solo il compito precipuo di adeguarsi in nome della fede in questo “grande” uomo, Marx, come appunto sottolinea Engels, che ha compreso tutto, anzi ha colto la verità, e l’ha resa fruibile a tutti gli altri esseri del cosmo. Un “alter Christus”, laico, laido e profano, che ha portato la sua rivelazione, a cui il popolo dei proletari deve obbedire per fede senza discutere, altrimenti, come vedremo successivamente, grazie a Lenin, a Mao e ai loro epigoni, il suo posto sarà quello di una grande fossa comune o di un bel “confortevole” gulag in Siberia o un campo di lavoro “democratico” in Cina per essere rieducato secondo la nuova verità comunista. La diretta conseguenza di un tale fideismo, dell’assoluta indiscutibilità delle tesi marxiane e dell’accettazione pedissequa dei suoi dettami, è stata quella di far passare come realizzabile l’idea utopistica di un paradiso in terra per i lavoratori. Certamente elaborata molto attentamente, grazie all’utilizzo di una retorica sofisticata e di una dialettica altrettanto complicata, impenetrabile dai più, ma molto sfruttabile dagli spregiudicati dirigenti politici che hanno poi messo in pratica “pro domo” alcune delle idee del filosofo tedesco.

Ma come scrisse Paul Claudel[1] “chi cerca di realizzare il paradiso in terra, sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile inferno.” Infatti le conseguenze dell’utopia marxista sono sotto gli occhi di tutti.

Va detto però che la nascita dell’idea di Utopia in generale, ha radici più antiche di Marx, il termine fu coniato con l’accezione attuale da Tommaso Moro, infatti compare come titolo della sua opera Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia del 1516, nella quale descrive un’immaginaria isola-regno in cui è instaurata una società ideale retta dal un “principe” saggio. L’etimologia viene dal greco οὐ (“non”) e τόπος (“luogo”) che significa “non-luogo” unitamente al un gioco di parole con l’omofono inglese “eutopia”, derivato dal greco εὖ (“buono” o “bene”) e τόπος (“luogo”), che vuol dire “buon luogo”, e quindi avendo un identico suono in lingua inglese gli studiosi sostengono che l’isola di Tommaso Moro abbia il significato di luogo buono o bello ma irraggiungibile. L’opera si divide in due libri: città reale e città perfetta. Nella prima l’autore fa un’analisi sulla situazione politica ed economica dell’Inghilterra del suo tempo; nella seconda descrive il regno immaginario di di Utopia, dove la proprietà privata è vietata per legge ed i beni sono in comune, il commercio non esiste; tutto il popolo viene impegnato a lavorare la terra circa sei ore al giorno; dove non mancano leggi liberticide specialmente in materia sessuale e matrimoniale; dove, anche se vige la libertà di culto, la maggior parte dei saggi predilige la divinità chiamata Mitra che, secondo le leggende, ha creato l’intero universo e coincide con la natura. Mitra è un’antica divinità persiana, dio del sole, dell’onestà, dell’amicizia e dei contratti, famoso tra gli gnostici e probabilmente è per questa motivazione che viene nominato da Moro. La città è progettata in maniera tale che tutti gli edifici siano costruiti in egual modo, in cui la schiavitù è riservata per chi commette dei reati, e dove è pianificato anche il numero dei figli, come nella Cina attuale, i quali verranno “allevati” in sale comuni come polli in batteria. Non vi sembri strano che tutti i regimi che si ispirano a inverosimili utopie paradisiache terraquee finiscano poi tutti a realizzare perfetti lager dove imprigionare l’uomo e dove una burocrazia asfissiante pervade tutti gli aspetti della vita, a cominciare da quelli affettivi. Ma anche Tommaso Moro a i suoi predecessori come per esempio Platone con la sua Repubblica dei filosofi, nella quale delineava uno stato di stampo collettivistico, caratterizzato dall’abolizione di ogni forma di proprietà privata, e da un totalitarismo che doveva regolare l’esistenza delle persone, la cui vita non conta nulla di per sé, se non in funzione della Repubblica, in cui era ammessa anche l’eugenetica, cosicché è lo stato a scegliere le persone da far sposare in modo tale da avere una discendenza perfetta, cosa che poi fu anche messa in pratica da Himmler per la scelta delle mogli delle sue SS. E’ stato Karl Popper con i due volumi de La società aperta e i suoi nemici usciti nel 1945 a Londra e tra 1973 e il 1974 in Italia grazie a Dario Antiseri, a smascherare questa impostazione totalitaria di Platone, ricevendone anche rimbrotti ed insulti dai pretoriani del pensiero unico totalitario, sol per il fatto che si metteva in discussione il dogma di uno stato retto da “illuminati”, che avendo capito tutto, ed in nome del bene comune,  avrebbero anche potuto tutto, Popper affermava infatti  “la lezione che noi dovremmo apprendere da Platone è esattamente l’opposto di quello che egli vorrebbe insegnarci…lo sviluppo stesso di Platone dimostra che la terapia che raccomandava è peggiore del male che tentava di combattere. Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra…”[2]

Stesse spinte utopistiche si erano manifestate in diverse epoche storiche, infatti secondo molti studiosi “tracce” di utopia si possono riscontrare anche in alcune opere di Aristofane, Plutarco, Ovidio e Orazio.

Subito dopo Utopia di Tommaso Moro, viene pubblicato La Città del Sole (1602) di Tommaso Campanella, La Nuova Atlantide (1622) di Francesco Bacone, Novae Solymae libri sex (1648) di Samuel Gott e altre opere minori.

Infatti alcuni testi successivi a quelli di Moro auspicavano una sorta di comunismo idealistico. Tra questi: Viaggio in Icaria (1840) di Étienne Cabet, La Razza Futura (1871) di Edward Bulwer-Lytton e Notizie da Nowhere (1890) di William Morris. Col passare del tempo la parola utopia assume il significato di “chimera”, “impossibile”, “irrealizzabile”ecc. Al contempo l’utopia diviene anche una critica della realtà, assumendo le caratteristiche di un’idea tesa al raggiungimento della felicità dei popoli. Questa idealizzazione ha portato allo sviluppo di una sorta di socialismo idealistico, che Marx definisce socialismo utopistico, considerato precursore del comunismo e dell’anarchismo, e di cui si possono annoverare le opere di Robert Owen, Saint-Simon, Fourier e altri minori.

Ma colui che è ritenuto il più importante utopista anarchico è Pierre Joseph Proudhon, il quale, tuttavia, ci appare per molti versi meno utopista di chi lo utopista lo aveva definito anche in maniera dispregiativa come  Marx.

«Guai, dice Proudhon, se arrivassimo a un tipo di società dove non ci fossero più contraddizioni, non ci fossero più conflitti, in cui tutti gli esseri fossero soddisfatti: verrebbe a mancare l’attenzione verso soluzioni migliori, l’attenzione verso il perfezionamento continuo della società. Proudhon, quindi, è senz’altro un critico del perfettismo, un critico del messianismo rivoluzionario, vale a dire dell’idea che qui ed ora, sulla terra, sia possibile trovare una organizzazione sociale tale per cui tutte le imperfezioni della condizione umana e tutte le imperfezioni della vita in comune siano, quasi magicamente, eliminate. Da questo punto di vista, Proudhon è senz’altro assai poco utopista. È molto più utopista Marx, proprio perché la meta finale di Proudhon e il modello di società che aveva in mente, tutto sommato, era un modello abbastanza realistico, che si basava su due idee fondamentali: 1) il mutualismo e l’autogestione 2) l’idea del federalismo» (Luciano Pellicani).

Continuando la nostra analisi ci imbattiamo in Joseph Déjacque che sosteneva che l’utopia è «un sogno non realizzato, ma non irrealizzabile» e grazie al progresso scientifico è possibile superare l’attuale civiltà, figlia della barbarie, esaurita da secoli di corruzioni, ed immaginare in un mondo futuro, che Déjacque colloca nel 2858, la realizzazione dell’«Utopia anarchica».

Ecco una descrizione della società utopica secondo i suoi canoni ideali: «Presso i figli di questo nuovo mondo, non vi è né divinità né papato, né regalità, né dei, re o preti. Non volendo essere schiavi, non vogliono padroni. Essendo liberi, hanno solo il culto della Libertà, così la praticano sin dall’infanzia e la professano in tutti i momenti, e fino agli ultimi istanti della vita. La loro comunione anarchica non ha bisogno di bibbie o di codici; ciascuno di essi porta in sé la sua legge e il suo profeta, il suo cuore e la sua intelligenza. Non fanno ad altri quello che non vorrebbero altri facessero a loro, e fanno agli altri ciò che vorrebbero altri facessero loro. Volendo il bene per sé, fanno il bene degli altri. Non volendo che si attenti alla loro libera volontà, non attentano alla libera volontà degli altri. Amando, amati, vogliono crescere nell’amore e moltiplicarsi attraverso l’amore. Uomini, restituiscono, centuplicato, all’Umanità ciò che, bambini, sono ad essa costati in cure; e al loro vicino, le simpatie che gli sono dovute: sguardo per sguardo, sorriso per sorriso, bacio per bacio e, al bisogno, morso per morso. Sanno che hanno una madre comune, l’Umanità, che sono tutti fratelli, e che la fraternità li obbliga. Hanno coscienza che l’armonia non può esistere se non con il concorso delle volontà individuali, che la legge naturale delle attrazioni è la legge degli infinitamente piccoli come degli infinitamente grandi, che nulla di ciò che è sociale può muoversi se non dalla società, che essa è il pensiero universale, l’unità delle unità, la sfera delle sfere, immanente e permanente nell’eterno movimento; e dicono: al di fuori dell’anarchia non vi è salvezza! E aggiungono: la felicità è del nostro mondo. E sono tutti felici, e tutti incontrano sul loro cammino le soddisfazioni che cercano. Bussano, e tutte le porte si aprono; la simpatia, l’amore, il piacere e le gioie rispondono ai battiti del loro cuore, alle pulsazioni del cervello, ai colpi di martello delle braccia; e, in piedi sulle soglie, salutano il fratello, l’amante, il lavoratore; e la Scienza, come un’umile schiava, li guida innanzi, nel vestibolo dell’Ignoto. […] In questa società anarchica, la famiglia legale e la proprietà legale sono istituzioni morte, geografie di cui si è perso il senso: una e indivisibile è la famiglia, una e indivisibile è la proprietà. In questa comunione fraterna, libero è il lavoro e libero è l’amore. Tutto ciò che è opera del braccio e dell’intelligenza, tutto ciò che è oggetto di produzione e di consumo, capitale comune, proprietà collettiva, appartiene a tutti e a ciascuno. Tutto ciò che è opera del cuore, tutto ciò che è essenza intima, sensazione e sentimento individuali, capitale particolare, proprietà corporale, tutto ciò che è uomo, infine, nella sua accezione propria, qualunque sia la sua età o il suo sesso, si appartiene[3]». Tutto questo per dire che queste istanze utopiche sono state sempre presenti nell’immaginario intellettuale rivoluzionario, tanto che ad esso si può associare Rousseau, che nel Contratto sociale ha avanzato idee di uguaglianza nei diritti e una certa centralizzazione del potere, ma anche altri tre pensatori che si sono caratterizzati per aver sostenuto l’abolizione della proprietà privata: Jean Meslier, Étienne-Gabriel Morelly e Dom Deschamps. Inoltre è pensabile che i movimenti ottocenteschi siano intrisi delle posizioni assunte da taluni con le lotte rivoluzionarie repubblicane, in particolare dall’esperienza della rivoluzione francese con il movimento dei Montagnardi e dei Sanculotti, ma anche con le rivolte contadine che dal Medioevo si ripetevano ciclicamente contro l’aristocrazia terriera; talvolta assumendo posizioni equalitariste.

Nel XIX secolo comunque nacque il socialismo di Robert Owen in Inghilterra, mentre in Francia il sansimonismo conquistava spazio come corrente politico-religiosa che divulgava il pacifismo e la comunione dei beni in una società che avrebbe dato a ogni individuo il ruolo a lui più congeniale. Nello stesso filone “utopico” si inserì Auguste Blanqui, e successivamente Pierre-Joseph Proudhon, il teorico dell’anarchia e del socialismo libertario, che Karl Marx definì socialista conservatore o borghese nel Manifesto del Partito Comunista, e gli altri “socialisti utopici” già citati.

In ogni caso possiamo trovare una certa analogia tra il socialismo originario e la matrice dell’illuminismo, sia in rapporto agli aspetti esteriori che connettono le due dottrine nei tratti unificanti della lotta all’oscurantismo e per l’emancipazione dell’umanità, sia in relazione alle corrispondenze di alcuni personaggi in entrambi i contesti, come Filippo Buonarroti e Adam Weishaupt.

Il termine socialismo utopistico, venne coniato da Marx per distinguere e contrapporre il suo socialismo scientifico, che voleva essere incentrato su basi logiche, storiche, sociali ed economiche rigorose, certe e verificate (da lui), ma che però né preparò l’avvento.

La presenza di un utopica via della felicità per il proletariato è stato sempre presente nel socialismo, con tutte le conseguenze del caso, da lì il passo è stato breve verso forme di governo assolutiste perchè è stato subito chiaro, anche allo stesso Marx, che per realizzare questo suo paradiso in terra, bisognava espiantare con la violenza tutto ciò che era naturale, come la religiosità, la libertà di pensiero, la proprietà privata, la famiglia, che lui voleva destrutturata, soprattutto con l’uso sistematico della violenza, di cui si doveva far carico lo stato contro ogni possibile impedimento. Infatti uno dei migliori e terribili interpreti dell’uso della violenza ad uso politico fu Lenin, che riuscì a demolire l’Impero degli Zar e a sostituirlo con un ben più atroce regime comunista.

Marx aveva inoltre lanciato la sua crociata contro ogni religione, definita “oppio dei popoli”, vedendo in essa un ostacolo alla liberazione del proletariato, una di quelle sovrastrutture artificiali che tenevano il lavoratore schiavo del sistema. E per potersi affrancare da essa, pensa, che debba essere sempre lo Stato ad intervenire per sradicarla dal cuore degli uomini, non solo con la soppressione ma anche con l’annientamento. Scrive infatti nel 1844 “ma il comportamento dello Stato verso la religione, e particolarmente dello Stato libero, non è tuttavia altro che il comportamento degli uomini che formano lo Stato, verso la religione. Ne consegue che l’uomo per mezzo dello Stato, politicamente, si libera di un limite, innalzandosi oltre tale limite, in contrasto con se stesso, in un modo astratto e limitato, in un modo parziale. Ne consegue inoltre che l’uomo, liberandosi politicamente, si libera per via indiretta, attraverso un mezzo, anche se un mezzo necessario. Ne consegue infine che l’uomo, anche se con la mediazione dello Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre implicato religiosamente, appunto perché riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un mezzo. La religione è appunto il riconoscersi dell’uomo per via indiretta. Attraverso un mediatore.(…..) Hegel definisce perciò molto esattamente il rapporto dello Stato politico con la religione, quando dice: “Affinché lo Stato giunga ad esistere come la realtà morale autocosciente dello spirito, è necessario che esso si distingua dalla forma dell’autorità e della fede; ma tale distinzione compare solo in quanto la parte ecclesiastica in se stessa perviene alla separazione; soltanto così al di sopra delle Chiese particolari lo Stato ha ottenuto l’universalità del pensiero, il principio della sua forma, e le dà esistenza” (Hegel, Filosofia del diritto, I ed., p. 346). Certamente! Solo così, al di sopra degli elementi particolari, lo Stato si costituisce come universalità. (….) Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita dell’uomo come specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera dello Stato, nella società civile, ma come caratteristiche della società civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si afferma come comunità, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. Lo Stato politico si comporta nei confronti della società civile in modo altrettanto spiritualistico come il cielo nei confronti della terra. Rispetto ad essa si trova nel medesimo contrasto, e la vince nel medesimo modo in cui la religione vince la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla, restaurarla e lasciarsi da essa dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile; l’uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato, dove l’uomo vale come specie, egli è il membro immaginario di una sovranità fantastica, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una universalità irreale. (….)lo Stato può e deve procedere fino alla soppressione della religione, fino all’annientamento della religione, ma solo così come procede alla soppressione della proprietà privata, al massimo, con la confisca, con l’imposta progressiva, come procede alla soppressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti del suo particolare sentimento di sé, la vita politica cerca di soffocare il suo presupposto, la società civile e i suoi elementi, e di costituirsi come la reale e non contraddittoria vita dell’uomo come specie. Essa può questo, nondimeno, solo attraverso una violenta contraddizione con le sue proprie condizioni di vita, solo dichiarando permanente la rivoluzione, e il dramma politico finisce perciò altrettanto necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi della società civile, così come la guerra finisce con la pace. (….)I membri dello Stato politico sono religiosi attraverso il dualismo tra la vita individuale e la vita della specie, tra la vita della società civile e la vita politica, religiosi in quanto l’uomo si comporta verso la vita statale posta al di là della sua vera individualità come verso la sua vita vera, religiosi nella misura in cui la religione è qui lo spirito della società civile, l’espressione della separazione e dell’allontanamento dell’uomo dall’uomo. La democrazia politica è cristiana perché in essa l’uomo, non soltanto un uomo ma ogni uomo, vale come essere sovrano, come essere supremo; si tratta però dell’uomo nella sua forma fenomenica non educata, non sociale, l’uomo nella sua esistenza casuale, l’uomo come vive e cammina, l’uomo guastato qual è da tutta l’organizzazione della nostra società, perduto, fatto estraneo a se stesso, posto sotto il dominio di rapporti ed elementi disumani, in una parola, l’uomo che non è ancora un reale essere della sua specie. La finzione della fantasia, il sogno, il postulato del cristianesimo, la sovranità dell’uomo, ma in quanto ente estraneo, differente dall’uomo reale, nella democrazia è realtà sensibile, presenza, massima mondana[4].”

Ed anche la famiglia, come la religione, va demonizzata in quanto nata dalle stesse condizioni, a detta di Engels, dalla sopraffazione e dallo sfruttamento che in essa si perpetua al suo interno come nella società a causa della proprietà privata, l’unica vera ossessione del tedesco, in cui l’uomo è il capitalista e la donna riveste il ruolo del proletariato, e pertanto va eliminata in forma monogamica e come primo operatore economico della società. Vista questa premessa, l’unione dei coniugi essendo diseguale sul piano economico, va riequilibrata eliminando la proprietà privata e così magicamente tutto andrebbe a posto pensavano i due tedeschi. Scrive Engels né L’origine della famiglia, della proprieta privata e dello Stato “la moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata, e la società moderna è una massa composta nella sua struttura molecolare da un complesso di famiglie singole. Al giorno d’oggi l’uomo, nella grande maggioranza dei casi, deve essere colui che guadagna, che alimenta la famiglia, per lo meno nelle classi abbienti; il che gli dà una posizione di comando che non ha bisogno di alcun privilegio giuridico straordinario. Nella famiglia egli è il borghese, la donna rappresenta il proletario. Nel mondo dell’industria lo specifico carattere dell’oppressione economica gravante sul proletariato, spicca in tutta la sua acutezza soltanto dopo che tutti i privilegi legali particolari della classe capitalistica sono stati eliminati, e dopo che la piena eguaglianza di diritti delle due classi è stata stabilita in sede giuridica. La repubblica democratica non elimina l’antagonismo tra le due classi: offre al contrario per prima il suo terreno di lotta. E così anche il carattere peculiare del dominio dell’uomo sulla donna nella famiglia moderna, e la necessità, nonché la maniera, di instaurare un’effettiva eguaglianza sociale dei due sessi, appariranno nella luce più cruda solo allorché entrambi saranno provvisti di diritti perfettamente eguali in sede giuridica. Apparirà allora che l’emancipazione della donna ha come prima condizione preliminare la reintroduzione dell’intero sesso femminile nella pubblica industria, e che ciò richiede a sua volta l’eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità economica della società[5].”

Né è talmente convinto che in frammento scritto a mano pubblicato postumo per la prima volta a Mosca nel 1937 (prima edizione russa delle opere di Marx ed Engels, Vol. XVI, parte 1), pare correlato al capitolo IX de L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato scrive “le associazioni che si sono avute finora (naturali o artificiali) esistevano sostanzialmente per fini economici, ma tali fini erano celati e sepolti sotto fatti ideologici secondari. La polis antica, la città o corporazione medioevali, la lega feudale della nobiltà terriera, tutte ebbero fini ideologici secondari che santificavano e che, nell’associazione di stirpe dei patrizi e nella corporazione derivavano (quanto nella polis antica) da ricordi, tradizioni e ideali della società gentilizia. Le società mercantili capitalistiche sono le prime affatto disincantate e pragmatiche… ma meschine. L’associazione del futuro unirà la sobrietà di queste ultime con la sollecitudine per il bene comune della società di quelle antiche, e soddisferà così il suo fine.” Riconoscendo però di fatto i pregi dei due modelli sociali che avevano permesso un autentico progresso umano fondati sul diritto naturale e non sulle costruzioni artificiali della filosofia hegeliana di cui sia lui che Marx sono figli.

La verità è che dietro queste costruzioni c’è per dirla con Erik Voegelin “il mito del mondo nuovo”, ed anche “dell’uomo nuovo”, idea presente in altre aberrazioni totalitarie del XX sec., che rifiuta il “vecchio” o meglio tradizionale modello di vita per afferrarne un altro basato sulla lotta di classe, lo stravolgimento dei rapporti sociali e sulla condanna senza appello di tutto ciò che si era costruito sulla natura umana. Tutto questo prese poi forma concreta nei totalitarismi del XX sec. in cui lo Stato si assunse la responsabilità di negare ogni diritto individuale, come quello alla proprietà privata, per ri-formare tutta la realtà come proiezione delle elucubrazioni pseudo scientifiche di Marx ed Engels.

Voegelin ha identificato diverse analogie ideologiche fra l’antico gnosticismo e nazismo e comunismo. Il filosofo ha considerato essere la radice dello gnosticismo un impulso all’alienazione intesa come senso di disconnessione con il mondo e come credenza profonda di un male o di un disordine intrinseco del mondo che sia causa di questo senso di estraneità al mondo stesso, secondo l’antica eresia per cui il Dio creatore del mondo era un Deus malignus oppure un padre sia del bene che del male (come nel Manicheismo). Tale alienazione ha due effetti evidenti, cioè la necessità di trascendere il mondo malvagio attraverso l’introspezione, la cultura o la conoscenza scientifica in quanto mezzo di trasformazione delle natura «corrotta», e ciò può essere sia in senso tecnico-biologico (come nell’ideologia eugenetica o nel transumanesimo) che in senso politico (come nel marxismo).

La conseguenza dello gnosticismo moderno, individuato da Voegelin, è il desiderio di creare un ordine politico che instauri una forma di «paradiso terrestre» nella storia, inteso ciò come un «paradiso senza Dio», che secondo i fondamenti gnostici è realizzabile dall’uomo. Tale è ciò che Voegelin ha definito immanentizzazione. Così l’egualitarismo, inteso come dottrina che tenta di appianare le differenze naturali, è per Voegelin una dottrina gnostica che considera malvagia la natura che da all’uomo il diritto di eliminare culturalmente tali differenze, facenti parte dell’ordine fisico, psichico, cosmico ed erotico.

Così Voegelin vede nei totalitarismi del XX i punti di compimento più coerenti dello gnosticismo in quanto tentativi di trasformare il mondo (come recitava Marx) attraverso la politica, che quindi ha assunto in tali ideologie un carattere mistico o cosmopoietico parallelamente ai suoi protagonisti che hanno assunto un carattere divino o semi-divino. Tale è inoltre, secondo Voegelin, l’unico vero senso del termine «totalitarismo», che appunto si distingue dalla mera «tirannia» in quanto quest’ultima è solo un regime politico della forza o della violenza, mentre l’altro è una sorta di teocrazia ove Dio trascendente è stato immanentizzato nell’uomo o in alcuni uomini, e che per questo motivo è particolarmente avverso a ogni religione rivelata.

Scrive Voegelin “Dicendo movimenti gnostici intendiamo riferirci a movimenti come il progressismo, il positivismo, il marxismo, la psicanalisi, il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo.(…)

Ai nostri fini, più importanti delle definizioni e delle questioni relative alla genesi di questi movimenti gnostici, sono le caratteristiche grazie alle quali possiamo legittimamente qualificarli come tali. Elenchiamo dunque le sei caratteristiche che nel loro insieme rivelano la natura dell’atteggiamento gnostico.

1) In primo luogo bisogna sottolineare che lo gnostico è insoddisfatto della sua

situazione.  Ciò di per sé non è particolarmente sorprendente: noi tutti abbiamo motivi per non essere completamente soddisfatti di questo o quell’aspetto della situazione nella quale ci troviamo.

2) Non altrettanto comprensibile è il secondo aspetto dell’atteggiamento gnostico: cioè la convinzione che le difficoltà della sua situazione possano essere attribuite al fatto che il mondo ha una struttura intrinsecamente deficiente. Infatti è egualmente possibile ritenere che l’ordine dell’essere, quale è dato a noi uomini (qualunque possa esserne l’origine), è buono e che l’inadeguatezza è in noi, esseri umani. Ma gli gnostici non sono disposti a scoprire tale inadeguatezza negli esseri umani in generale e in se stessi in particolare. Se, in una data situazione, qualcosa non è come dovrebbe essere, la causa, secondo gli gnostici, si deve trovare sempre nella perversità del mondo.

3) La terza caratteristica sta nel credere che sia possibile salvarsi dal male del mondo.

4) Da ciò deriva la convinzione che l’ordine dell’essere dovrà essere cambiato nel corso di un processo storico. Da un mondo cattivo deve emergere, per evoluzione storica, un mondo buono. Questa supposizione non è affatto evidente di per sé, potendosi ad essa contrapporre, per esempio, la soluzione cristiana, secondo la quale il mondo, attraverso la storia, e destinato a restare quale è, mentre la salvezza completa dell’uomo si realizza solo con la morte, mediante la grazia.

5) Con questo quinto punto arriviamo alla caratteristica tipica dello gnosticismo nel senso più stretto: la convinzione cioè che un mutamento nell’ordine dell’essere rientri nell’ambito dell’azione umana, che questo atto salvifico sia possibile grazie agli sforzi personali dell’uomo.

6) Quindi, se è possibile realizzare nell’ordine dell’essere un mutamento strutturale così completo da trasformarlo in un ordine perfetto di nostra piena soddisfazione, il dovere che si impone allo gnostico è quello di cercare la ricetta atta a determinare tale mutamento. La conoscenza – gnosi – del metodo per trasformare l’essere costituisce la preoccupazione centrale dello gnostico. Quindi, la sesta caratteristica dell’atteggiamento gnostico consiste nella costruzione di una formula per la salvazione dell’io e del mondo, accompagnata dall’atteggiamento profetico tipico dello gnostico, il quale proclama di conoscere i mezzi per salvare il genere umano. Questi sei tratti caratterizzano dunque l’essenza dell’atteggiamento gnostico. Nelle loro varianti essi si riscontrano in ciascuno dei movimenti citati. Per potersi esprimere adeguatamente, l’atteggiamento gnostico ha prodotto un ricco e multiforme simbolismo nei moderni movimenti di massa.(…)

Dalla profusione di esperienze e di espressioni simboliche gnostiche si può isolare una componente quale elemento centrale di questa varia ed ampia creazione di significato: l’esperienza del mondo come una terra “straniera” nella quale l’uomo si è smarrito e deve ritrovare la strada che lo riconduca alla sua vera patria. all’altro mondo della sua origine……L’uomo gnostico non desidera più contemplare con animo pieno di ammirazione l’ordine intrinseco del cosmo. Per lui il mondo è diventato una prigione dalla quale vuole fuggire…..Se l’uomo dev’essere liberato dal mondo, la possibilità di liberazione deve realizzarsi prima di tutto nell’ordine dell’essere. Nell’ontologia dello gnosticismo antico ciò trova attuazione mediante la fede nel Dio “straniero” e “nascosto”, che viene in aiuto dell’uomo, che gli manda i suoi messaggeri e gli mostra la via di evasione dalla prigione del Dio malvagio di questo mondo (sia egli Zeus o Geova o uno degli altri antichi dèi padri). Nello gnosticismo moderno ciò trova attuazione mediante l’idea di uno spirito assoluto che nello svolgimento dialettico della coscienza procede dall’alienazione alla coscienza di sé; o mediante l’idea di un processo dialettico-materiale naturale che nel suo corso porta dall’alienazione prodotta dalla proprietà privata e dalla credenza in Dio alla libertà di un’esistenza pienamente umana; o mediante l’idea di una volontà naturale che trasforma l’uomo in superuomo. Tuttavia, nell’ambito della possibilità ontica, l’uomo gnostico deve compiere lui stesso l’opera della salvazione….Come abbiamo accennato, è venuto alla luce un fenomeno ignoto all’antichità, che permea di sé le nostre società moderne in maniera così totale che la sua ubiquità non ci da quasi la possibilità di renderci conto di esso: il divieto di fare domande….In questo caso, invece, ci troviamo di fronte a persone le quali sanno benissimo che e perché le loro opinioni non possono reggere all’analisi critica e, quindi, fanno del divieto dell’esame delle loro premesse una parte essenziale del proprio dogma. Il fenomeno nuovo consiste appunto in questa condizione di consapevole, deliberata e sapientemente elaborata ostruzione della ratio….

Marx è uno gnostico speculativo. Egli concepisce l’ordine dell’essere come un processo naturale in se stesso completo. La natura è in uno stato di divenire e nel corso del suo sviluppo ha prodotto l’uomo. “L’uomo è direttamente un essere di natura”. Nello sviluppo della natura un ruolo speciale compete all’uomo. Questo essere, che è esso stesso natura, si erge anche sopra e contro la natura, e l’assiste nel suo sviluppo con il lavoro umano; lavoro che, nella sua forma più alta, è tecnologia e industria fondata sulle scienze naturali: “La natura quale si sviluppa nella storia umana…,quale si sviluppa attraverso l’industria… è vera natura antropologica”. Nel processo di creazione della natura, tuttavia, l’uomo crea, nel medesimo tempo, se stesso nella pienezza del proprio essere; quindi, “tutta la cosiddetta storia universale non è altro che la produzione dell’uomo ad opera del lavoro umano”. L’obiettivo di questa speculazione è quello di dissociare il processo dell’essere dall’essere trascendente e di fare dell’uomo la creazione dell’uomo stesso. Questo risultato è ottenuto mediante un gioco di equivoci in cui “natura” è ora l’essere che tutto comprende in sé, ora la natura in contrapposizione all’uomo, ora la natura dell’uomo nel senso di essentia. Questo equivoco gioco di parole giunge al suo culmine in una frase alla quale è facile non dare tutta l’importanza che merita: “Un essere che non ha la propria natura fuori di se non è un essere naturale; esso non partecipa dell’essere della natura”…A tali interrogativi, fondati sull’esperienza “tangibile” secondo la quale l’uomo non esiste di per sé ,Marx preferisce rispondere che essi sono “un prodotto dell’astrazione”. “Quando s iindaga sulla creazione della natura e dell’uomo”, dice, “si fa astrazione dalia natura e dall’uomo”. La natura e l’uomo sono reali soltanto come Marx li concepisce Nell asua speculazione. Se il suo interlocutore sostenesse la possibilità della loro non esistenza, Marx non potrebbe dimostrare che essi esistono.

In realtà, la sua costruzione crollerebbe di fronte a questa domanda, E Marx come esi cava d’impiccio? Egli suggerisce al suo interlocutore: “Rinuncia alla tua astrazione e rinuncerai anche alla tua domanda”. Se l’interlocutore fosse coerente ,dice Marx, dovrebbe pensare se stesso come non esistente, anche se, nell’atto stesso di interrogare, egli è. Di qui, di nuovo l’ingiunzione: “Non pensare, non farm idomande”.

L’uomo comune, tuttavia, non è obbligato ad accettare il sillogismo di Marx e a pensare se stesso come non esistente perciò è consapevole del fatto di non esistere e di per sé. In realtà, Marx, pur ammettendo questo punto, preferisce no napprofondirlo. Invece chiude il dibattito dichiarando che “per l’uomo socialista” – cioè per l’uomo che ha accettato la concezione di Marx del processo dell’essere e della storia – tale interrogativo “diventa un’impossibilità pratica”, Gli interrogativo idell’uomo comune sono così troncati dall’ukase del pensatore che non vuole permettere che la sua costruzione sia messa in pericolo. Quando parla l’uomo “socialista”, l’uomo deve stare zitto.

Questa è dunque la testimonianza dalla quale dobbiamo prendere le mosse. Ma, prima di affrontare l’analisi, dobbiamo mettere anzitutto in chiaro che il divieto marxiano di fare domande non è un fenomeno isolato né innocuo. Non era isolato onella sua stessa epoca, poiché troviamo lo stesso divieto in Comte, nella prima

Lezione del suo Cours de philosophie positive .Anche Comte prevede possibili obiezioni alla sua concezione e le respinge brutalmente come questioni oziose. Per il momento egli si interessa solo delle leggi idei fenomeni sociali. Chiunque proponga interrogativi sulla natura, sulla vocazione e sul destino dell’uomo può essere temporaneamente ignorato; successivamente ,dopo che il sistema del positivismo si sarà imposto nella società, persone siffatte saranno messe a tacere con misure appropriate. Ma il divieto di fare domande no nè neppure innocuo, perché ha raggiunto grande efficacia sociale fra uomini che si interdicono di fare domande in situazioni critiche. Viene in mente, a questo proposito, l’osservazione di Rudolf Hoss, il comandante del campo di sterminio di Auschwitz.

Quando gli chiesero perché non si era rifiutato di obbedire all’ordine di organizzare eesecuzioni in massa, rispose: “A quell’epoca non mi lasciavo andare a riflessioni: avevo ricevuto un ordine e dovevo eseguirlo… Credo che a nessuno, fra le migliaia adi capi delle SS, sarebbe potuta passare per la testa un’idea simile. Qualcosa del genere era assolutamente impossibile”. È un’affermazione molto simile alla dichiarazione di Marx secondo la quale per l’ “uomo socialista” una domanda de lgenere “diventa un’impossibilità pratica”. Così, noi vediamo delineati tre tipi umani fondamentali per i quali un interrogativo umano è diventato un’impossibilità àpratica: l’uomo socialista (nel senso marxiano), l’uomo positivista (nel senso comtiano) e l’uomo nazionalsocialista.

Prendiamo ora in considerazione questa soppressione marxiana delle domande.

Essa rappresenta, come vedremo, un fenomeno psicologico estremamente ecomplicato, e dobbiamo via via isolare in esso ciascuna delle sue componenti. In primo luogo, la più “tangibile “: ci troviamo qui di fronte a un pensatore che s abenissimo che la sua costruzione è destinata a crollare non appena viene formulata la domanda filosofica fondamentale. Questa consapevolezza lo induce forse a dabbandonare la sua indifendibile costruzione? Nient’affatto: essa lo spinge semplicemente a vietare che siffatte domande siano formulare. Ma questo divieto ci induce a chiederci: Marx era forse un truffatore intellettuale? Una domanda del genere solleverà forse delle obiezioni. Si può seriamente credere che il lavoro o dell’intera vita di un pensatore di notevole livello possa essere fondato su una truffa intellettuale? Un lavoro basato su una truffa avrebbe potuto attrarre una massa di seguaci e diventare una forza politica mondiale? Ma noi oggi siamo abituati a dubbi del genere: abbiamo visto troppe cose improbabili e incredibili diventar erealtà. Quindi, non esitiamo né a porre la domanda che l’evidenza stessa ci suggerisce né a rispondere: sì, Marx era un truffatore intellettuale……Hegel elimina questo interrogativo dichiarando che la verità della sua “opinione” risulta dimostrata se egli riesce a giustificarla “attraverso l’esposizione del sistema”. Se, dunque, io posso costruire un sistema, la verità della premessa né risulta provata; il fatto che io possa costruire un sistema su una premessa falsa non è neppure preso in considerazione. Il sistema è giustificato dal fatto di veni rcostruito; la possibilità di sollevare obiezioni sulla costruzione di sistemi in quanto tale non è ammessa. Che la forma della scienza sia il sistema è un principio che e dev’essere accettato senza discussione.

Qui ci troviamo di fronte allo stesso fenomeno della soppressione delle domande che abbiamo incontrato in Marx. Ma ora vediamo più chiaramente che esiste una connessione essenziale fra la soppressione delle domande e la costruzione di un sistema. Chiunque riduce l’essere a un sistema non può ammettere domande che non ritengano validi i sistemi come forma di ragionamento.”…..Marx in questo modo afferma che la sua costruzione del processo dell’essere (che comprende il processo storico) rappresenta la realtà. Egli prende l’evoluzione storica dell’uomo in uomo socialista – che è parte della sua costruzione concettuale e- e la inserisce nei suoi rapporti con gli altri; sollecita l’uomo che dubita dei presupposti del suo sistema a entrare nel sistema e a subire l’evoluzione che esso prescrive. Nello scontro fra sistema e realtà è la realtà che deve cedere. La truffa intellettuale è giustificata mediante il rinvio alle esigenze del futuro storico che il pensatore gnostico ha speculativamente proiettato nel suo sistema.

Non basta, dunque, sostituire al vecchio mondo di Dio un nuovo mondo dell’uomo:il mondo stesso di Dio dev’essere stato un mondo dell’uomo e Dio un’opera dell’uomo, che può quindi essere distrutta se impedisce all’uomo di dominare el’ordine dell’essere. L’assassinio di Dio dev’essere reso retroattivo speculativamente. Questa è la ragione per cui l’”essere- di-per-sé ”(Durrchsichselbstsein) dell’uomo è il punto principale nella gnosi di Marx. Ed egli trae il suo sostegno speculativo dall’interpretazione delta natura e della storia come un processo nel quale l’uomo crea se stesso nella pienezza della sua statura.

L’assassinio di Dio è quindi un momento assolutamente essenziale nella creazione gnostica dell’ordine dell’essere[6].”

Sottolinea il filosofo Tommaso Romano “il comunismo, quindi, riproduce, benché in senso inverso, tutte le contraddizioni dell’economia politica. Il suo segreto consiste nel sostituire all’individuo l’uomo collettivo in tutte le funzioni sociali: produzione, scambio, consumo, educazione e famiglia. E poiché questa nuova evoluzione non concepiva né risolve nulla, porta fatalmente, come quelle precedenti all’iniquità e alla miseria. Così, dunque, il destino del socialismo è completamente negativo; l’utopia comunista, uscita dal dato economico dello Stato, è la controprova della «routine» tipica dei proprietari. Sotto questo punto di vista non difetta d’utilità, e giova alla scienza sociale, come alla filologia giova l’opposizione del nulla al qualcosa. Il socialismo è una logomachia”, una disputa, cioè,sull’uso e il valore delle parole che si basa più sulle parole che sui fatti. Marx si scaglia, inoltre, contro i filosofi che si “sono limitati a interpretare il mondo in diverse maniere; si tratta ora di cambiarlo”. Così Martin Buber, Schwonke e Jean Servier, ascrivono Marx fra gli utopisti, in quanto Marx profetizzava escatologicamente un paradiso, il paradiso socialista,quale esito di una profezia che Popper così seppe evidenziare bene: “La ricerca economica di Marx è del tutto subordinata alla sua profezia storica”[7].”

Appare quindi evidente che tutto il pensiero di Marx e dei suoi epigoni anche attuali è fortemente impregnato da tre elementi che lo caratterizzano anche nelle realizzazioni concrete: un utopismo che si può realizzare solo con un esasperata statolatria, anche violenta, giustificato da una visione gnostica che aspira a realizzare la sovversione della natura, in questa visione di per sé cattiva, ma modificabile dal pensiero umano in cui l’uomo si autocrea distruggendo le sovrastrutture dello sfruttamento come la religione, la proprietà privata e la famiglia. Purtroppo in molte nazioni un incubo che diviene tuttavia realtà a cui bisogna reagire con approfondite analisi risolutive per sostanziare la battaglia delle idee per il ritorno al reale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Paul Claudel (Villeneuve-sur-Fère, 6 agosto 1868 – Parigi, 23 febbraio 1955) è stato un poeta, drammaturgo e diplomatico francese.

[2] Karl Raimund Popper, La società aperta e i suoi nemici (The Open Society and Its Enemies), 1945.

[3] Joseph Déjacque, L’umanisfera. Utopia anarchica, 1857.

[4] Karl Marx, Sulla questione ebraica, 1844.

[5] Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato,1884.

 

 

[6] Eric Voegelin, Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, 1970.

 

[7] Tommaso Romano, Totalitarismi:comunismo, nazismo, democraticismo e dittature salutiste in Tradizione Regale di prossima pubblicazione.

Statolatrismo, Utopismo, Gnosticismo: il vero volto del marxismo. Auguri di buon anno.ultima modifica: 2020-12-31T20:35:56+01:00da torreecorona
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