Elogio dell’Agri-Cultore. Sacralità, Pace e Operosità dell’uomo di campagna

“O fortunati, fortunati i contadini, se apprezzassero i beni che possiedono! Lontano dal contrasto delle armi, la terra con esemplare giustizia genera spontaneamente dal suolo ciò che a loro senza difficoltà serve per vivere. Se un palazzo imponente la mattina dall’atrio gremito non vomita attraverso le sue porte superbe l’alluvione di chi è venuto a salutare, se a bocca aperta non si possono ammirare battenti intarsiati di tartaruga e vesti ricamate d’oro, bronzi di Corinto, se la lana bianca non è adulterata dai colori d’oriente e la cannella non corrompe la purezza dell’olio; la loro pace almeno è sicura e la vita, ricca d’un mondo di risorse, non conosce inganni, ma l’ozio nella vastità dei campi fra grotte, laghi di sorgente, la frescura di Tempe e muggiti di buoi, e sotto un albero non mancherà la dolcezza del sonno. Là trovi pascoli e tane di belve, giovani che non temono fatica, abituati ai sacrifici, e il culto degli dei, il rispetto dei padri; andandosene dalla terra la Giustizia lasciò tra loro le sue ultime tracce. Rapito da infinito amore, più care d’ogni bene mi accolgano le Muse a cui sono consacrato, e m’insegnino le vie del cielo, delle stelle, le eclissi del sole, le fasi della luna; perché tremi la terra, per quale forza, rotti gli argini, si gonfi così alto il mare e in sé poi si quieti; perché d’inverno il sole tanto si affretti a bagnarsi nell’oceano e d’estate le notti tardino a venire. Ma se il mio sangue gelando intorno al cuore mi vieterà d’avvicinare questa parte della natura, vorrei che mi fosse cara la campagna, l’acqua che scorre nelle valli e potessi con umiltà amare le foreste, i fiumi. Dove, dove sono le piane dello Sperchio e il Taigeto, percorso da cortei di vergini spartane? Qualcuno mi fermi alle gelide valli dell’Emo, all’ombra fitta dei suoi rami!” Publio Virgilio Marone, Georgiche, II 458-542.

Questa mia riflessione vuole essere un tributo non solo alla rispettabilissima attività economica in sé, ma al tipo umano che l’agricoltore, il contadino ed il proprietario terriero rappresentano dalla notte dei tempi. Egli è colui il quale impegna la sua intera esistenza a produrre beni essenziali alla sua e all’altrui sussistenza, attraverso l’uso sapiente del suolo e delle risorse che la nuda terra gli offre. Dobbiamo a lui la nostra sopravvivenza, la soddisfazione dei nostri bisogni primari, i riti e la spiritualità legata ai cicli della natura: costumi ed abitudini ormai inveterati nella cultura umana, e a lui dobbiamo l’anelito alla pacifica convivenza e la nascita dell’idea di mercato in cui si scambiano beni di diversa natura.
L’individuo di cui parla Virgilio è onesto, operoso e pio: trascorre la vita all’insegna della pace dedicandosi alle proprie attività e nel culto delle divinità arcaiche che né favoreggiano i raccolti.
Anche Marco Porcio Catone nel preambolo del suo trattato il De Agricoltura né aveva esaltato il carattere dicendo “i nostri avi…per lodare un galantuomo lo lodavano come buon contadino e buon agricoltore; e chi veniva così lodato, si riteneva che avesse la più grande delle lodi. Il commerciante io lo giudico, certo, un uomo attivo e teso al profitto, ma – come ho detto – esposto ai rischi e alle disgrazie. Dai contadini invece nascono gli uomini più forti e i più validi soldati: è là che si realizza il più giusto guadagno, il più saldo, il meno esposto al malanimo altrui, e chi è occupato in questa attività è alieno più di ogni altro da cattivi pensieri.”
E Senofonte nel suo Economico fa dire a Socrate “ora di ciò, o Critobulo, ti vengo così distesamente ragionando, disse Socrate, perchè dall‘agricoltura nemmeno quelli che più abbondano di dovizie possono starsi lontani: e ben si pare, come l’attendere a cotal arte reca e un tempo e diletto all‘ animo, e accrescimento alla casa, e destrezza al corpo in tutte quelle operazioni, che ad uomo libero si conviene di esercitare: perocchè primieramente la terra quando ben coltivata sia, tutte quelle cose produce per le quali sostentasi la vita umana, e molte anche ne aggiunge, che servono a ricrearla, e appresso quelle cose colle quali gli uomini adornano i simulacri degli Dei, e dalle quali essi stessi vengono pure adornati, queste e soavemente olezzanti e di vaghissimi colori distinte, la medesima terra ne somministra: dopo questo delle vivande molte ne ingenera, e molte ne nutrica, collegandosi l‘arte pastorizia coll’agricoltura, onde più cose si abbiano gli uomini, e da adoperarle per se stessi, e da offerirne sacrificii agli Dei, e renderseli benevoli. E tanti, e così grandi beni copiosamente porgendosi agli uomini dalla terra, non permette già che veruno di questi prender se ne possa da chi pigro sia; ma invece assuefà a sostenere e il freddo del verno e il caldo della state, e però quelli, che con le proprie mani la coltivano, coll’esercizio fa robusti, e quelli che a’suoi lavori soprastanno, virili rende, facendoli levare di assai buon mattino, e camminare con grande celerità; mentre nelle opere dell’agricoltura, come in quelle della città sempre è opportunissima la sollecitudine. E se tu vorrai difendere la patria militando a cavallo l‘agricoltura ti nutricherà il destriere, e se a piedi, ti renderà essa il corpo ben destro. Ancora ad esercitarti nella caccia ti dà aiuto la terra alimentando, e le belve e i cani. I cavalli poi, ed i cani siccome per beneficio della terra ricevono l’alimento, così ne la ricambiano; i cavalli conducendovi di buon’ ora il soprastante ai suoi lavori, e dandogli facoltà di partirne al tardi. Ed i cani pure contengono gli armenti dal recar nocumento ai suoi prodotti, e nella solitudine fanno sicurezza. Ancora la medesima terra animosi rende gli agricoltori a difendere colle armi i suoi frutti producendoli essa all’aperto, onde avere seli possa il più forte. Al correre poi, al saettare, al saltare, qual arte mai più dell’agricoltura rende disposte le persone? Quale arte maggiormente si dimostra grata a chi ne ha cura? Quale più cortesemente ne accoglie, offerendo di dare ad ognuno tutto quello, che gli fa d‘uopo? E quale pur anco riceve gli ospiti con più copiosa abbondanza? E dove più agevolmente, che presso al tuo campo potresti avere nel verno abbondante fuoco, e caldi bagni? E dove nella state più soavemente potresti godere, e delle fresche acque, e delle piacevoli aure, e delle grate ombre? E dove potresti offerire primizie, che più si convengano agli Dei, o dove vedresti solennità più frequentate? E quale altro luogo hai tu mai che sia, e più grato ai servi, e più accetto alla moglie, e più bramato dai figli, o più grazioso agli ospiti? Io ben mi meraviglio se alcun uomo libero abbia altro avere, che gli sia più caro di questo, o altra cura possa trovare del coltivamento della terra più piacevole, e più utile.
Inoltre la terra, se ben la riguardi insegneratti pur anco la giustizia, veggendo come essa si studia di ricambiare con abbondanti raccolte la diligente coltivazione.[1]”
E’ evidente che i tre autori sono accomunati dalla stessa visione dell’agricoltura, come attività tradizionale in grado di offrire sostentamento e serenità all’uomo che vi si dedica e alla sua famiglia, unitamente a un profondo senso di religiosità legata alla ciclicità di essa, oltre che al tentativo di dare una risposta all’incertezza legata alla caducità della condizione umana.
Gli uomini infatti vivono nella scarsità di risorse materiali e di tempo, quindi hanno dovuto inventarsi diversi modi per riuscire a reperire quanto gli era necessario.
Essenzialmente hanno dato due risposte al medesimo problema: da un lato quello più brutale, la guerra, il ladrocinio o la pirateria, per l’appropriazione dei beni altrui ; dall’altro il libero scambio. Anche se in molte occasioni hanno poi adottato tutte e due le misure. In ambedue i casi comunque sono ricorsi alla mutua collaborazione: nel conflitto armato per riuscire a prevalere sull’avversario, aggredito o aggressore che sia, superandolo quanto meno in numero e poi nella strategia; nel mercato per cercare di avere più prodotti appetibili, frutto del lavoro di più soggetti, da mettere a disposizione di una potenziale controparte.
Nel prima condizione né è nata una società militarizzata per temperamento, in cui l’individuo è stato posto al servizio della comunità guerriera, sia come soldato che come procacciatore di cespiti utili a foraggiare gli eserciti così da alimentare la guerra; nell’altra né è sorta una mercantile più interessata alla pacifica convivenza che ai conflitti, semplicemente perché più utile ad accrescere le proprie sostanze[2].
In ogni caso quello che lega le due forme di civiltà è il ruolo che ambedue assegnano all’agricoltura: sia che si creda che essa renda la vita più dolce come dice Virgilio, sia che formi buoni cittadini ed ottimi soldati come afferma Catone o come dice Senofonte uomini devoti agli dei.
Il tema del sacro è intimamente legato alla stessa essenza di questa attività, poiché essa è molto soggetta all’imponderabile, ad eventi che non dipendono dalla volontà del contadino come la grandine o un’invasione da parte di nemici stranieri. In ogni caso, il proprietario terriero come antidoto alla paura dell’ignoto destino non può che affidarsi alla fede, sperando di non incorrere in inconvenienti troppo dannosi per la sua attività. In questo affidarsi c’è tutto il senso della religiosità che anima la vita agreste: la necessità in qualche maniera di tenere a bada le forze oscure che muovono il cosmo; l’ansia di salvaguardare i propri averi con rituali magici e misticheggianti e la speranza di ingraziarsi le divinità del cielo e della terra per migliorare la fertilità dei suoli.
Sono ancora misteri che sopravvivono nel nostro contado, che richiamano presenze cosmiche e sentimenti ancestrali, mai sopiti o dimenticati del tutto, di cui si conservano ricordi e tracce nelle culture locali, a tal uopo scriveva Biagio Pace[3] “la credenza non si abbandona, né perisce facilmente il culto e la forma liturgica; tenace e intimo s’innesta e risorge anche in aspetti nuovi e sopravvenuti dal di fuori. Così avverrà anche nel trapasso, pur così distante, dal paganesimo al cristianesimo. Così tanto più facilmente si verifica tra indigeni ed elleni, data l’unità fondamentale che dobbiamo ammettere fra le rispettive intuizioni religiose. E come in nessun aspetto della vita può essere più profondo ed efficace il persistere del fattore originario come nell’intimità del fenomeno religioso.”
Afferma Ignazio Buttitta “le forme religiose, d’altronde, si muovono più lentamente dell’evolversi economico e sociale, e spesso riti connessi a cicli produttivi ormai scomparsi si continuano a perpetuare lungamente…L’analisi delle dinamiche economiche soggiacenti alla società è sempre indispensabile a comprenderne i comportamenti culturali. Certo è solo una delle prospettive da considerare: un procedimento corretto di studio deve assumerne diverse. Osserva Uspenskij: «Esistono svariate possibili spiegazioni degli avvenimenti storici e, di conseguenza, i medesimi avvenimenti possono essere interpretati diversamente, ad esempio, dal punto di vista della politica statale, o da quello socioeconomico, o semiotico-culturale e così via. Ciascuna di queste interpretazioni poggia, evidentemente, su un preciso modello del processo storico, cioè su una certa visione della sua essenza. La varietà delle possibili interpretazioni rispecchia, a quanto pare, la complessità reale del processo storico: in altri termini, le diverse spiegazioni non si contraddicono, ma si integrano vicende volmente».
Alle strutture della produzione è comunque sempre profondamente connessa la visione del mondo di una società. È fatto non questionabile che la percezione del tempo di chi vive dei prodotti della terra (gli agricoltori), o dipende comunque dai cicli vegetativi (i pastori), è necessariamente legata ai ritmi stagionali. Ritmi che scandiscono non solo la vita vegetale ma incidono anche sulla fauna. Questa la ragione del perché nelle società arcaiche il tempo sia stato inteso come circolare, come un ripetersi di eventi eguali a se stessi (Buttitta 1990: 6 ss.)8. Il persistere di cicli produttivi, agrari e pastorali, strettamente connessi ai cicli naturali ha favorito nell’ Isola, sia pure a livello inconsapevole, questa rappresentazione del tempo unitamente alla concezione religiosa del mondo e della vita che ne deriva.[4]”
Una spiritualità così profonda è sicuramente legata alla stessa forma tangibile dell’albero che né ha fatto un simbolo potente di fertilità a cui l’agricoltore resta legato per tutta la sua esistenza terrena, anzi per i più esso rappresenta anche il deposito della tradizione familiare: alcuni popoli addirittura pensavano che fossero il luogo di riposo dei defunti e molte famiglie portano l’albero, in vari modi rappresentato, nei propri stemmi araldici.
Dice Mircea Eliade “i documenti sono in numero notevole, la loro varietà morfologica è tale che taglia corto con ogni tentativo di classificazione sistematica. Infatti si incontrano alberi sacri, riti e simboli vegetali nella storia di ogni religione, nelle tradizioni popolari del mondo intero, nelle metafisiche e nelle mistiche arcaiche, senza parlare dell’iconografia dell’arte popolare. Le età di questi documenti come le civiltà ove furono raccolte sono diversis sime….la Storia non può modificare radicalmente la struttura del simbolismo arcaico. La struttura del simbolo non può venire distrutta dal continuo apporto di nuovi significati storici[5]”. Persino Jung tratta l’albero come un’immagine archetipica che assume nel tempo e nello spazio diversi significati pur mantenendo alcuni tratti fonda mentali egli infatti afferma che “come tutti i simboli archetipici, il simbolo dell’albero ha conosciuto nel corso del tempo una certa evoluzione del suo significato: ma pur essendosi quest’ultimo allontanato dal significato sciamanico originario, alcuni tratti originari si sono rivelati immutabili.[6]”
L’albero così diventa rappresentazione tangibile del cosmo che lo circonda, simbolo potente di rigenerazione e vita e l’agricoltore il suo custode, il sacerdote laico che ha il compito di preservarne l’esistenza e di rinvigorirne con il proprio incessante lavoro l’energia come un sacro fuoco.
“Riproduce e rappresenta il tempo, scrive Buttitta, la sua vita esprime simbolicamente il modo di essere del Cosmo e la sua capacità di rigenerarsi all’infinito (Eliade 1973): la sua immortalità si costituisce di continue morti. È, in quanto interprete delle dimensioni del tutto, del Cosmo, Albero della Conoscenza. L’albero che è Cosmo a sua volta regge il Cosmo e lo dispone, lo rinnova, lo sostiene. Asse del Mondo lo attraversa e partecipa dei suoi tre mondi, delle sue tre nature, celeste, infera e terrena. Le sue radici si sprofondano nel ventre umido del l’abisso, il suo tronco s’eleva dalla terra aggrovigliando i suoi rami alla trascendente realtà uranica. L’albero “l’orizzonte simbolico che esso rappresenta, si fonda sulla sua forza totalizzante di tutti i significati del “mondo”, quindi dell’uomo. Esso è in sé un’unità senza fratture che produce una traboccante molteplicità di significati. In quanto Cosmo è un continuum che si offre a ogni possibile discretizzazione. La funzione dell’albero è anche quella di orientare. L’albero è immediatamente percepibile come simbolo dell’axis mundi; è il “centro del mondo”, come la colonna, la torre e la montagna: «Per vivere nel Mondo bisogna fondarlo e nessun mondo può nascere nel “caos”della omogeneità e relatività dello spazio profano. La scoperta o proiezione di un punto fisso – il “centro” – equivale alla Creazione del Mondo» (Eliade 1973).
Ogni civiltà si è costruita un orientamento partendo da un centro e distribuendovi intorno il proprio spazio. Lo spazio occupato e modificato da ogni singola cultura è il proprio territorio, il proprio mondo, forse l’unico mondo possibile contrapposto all’ignoto esterno che, in quanto ignoto, è luogo delle forze ostili dell’anti cosmos, del caos. Con la ruota viene a costituire un “apparato” simbolico. Essa infatti gira intorno a un asse, come il mondo. L’asse è l’albero. La ruota con i suoi raggi enfatizza, pertanto, da un lato il ruolo dell’albero come rappresentante della ciclicità della natura, dall’altro quella di asse orientamento nello spazio.[7]”
Usato per descrivere le origini genealogiche di una schiatta dagli studiosi, che sono ricorsi appunto all’albero “genealogico” raffigurando il capostipite come il seme da cui è fiorita la stirpe. In generale in araldica simboleggia la concordia, perché i vari rami giungono tutti allo stesso tronco[8]. Diversi cognomi derivano proprio da quello del nome degli arbusti come, presumo, quello di chi scrive: Sala. Parola arrivata in Europa grazie alle grandi migrazioni dei popoli indoeuropei e in Italia portata dai Longobardi. L’albero di sal (śāl), sakhua o shalala, che ha il nome scientifico di shorea robusta, è una specie di albero appartenente alla famiglia delle Dipterocarpaceae; una delle più importanti fonti di legname in India, ricercato come materiale da costruzione per le abitazioni e la sua resina viene bruciata come incenso nelle cerimonie religiose induiste. E’ l’albero favorito da Vishnu secondo la tradizione orientale. Il suo nome shala, shaal o sal viene dal sanscrito (शाल, śāla, letteralmente “casa”, in longobardo prende anche il significato di palazzo), un nome che suggerisce che fosse usato per ricavare legname per le abitazioni. Ma indica anche il luogo sacro in cui Mahavira il 24º tirthankara, secondo il giainismo, la religione dei seguaci di Jina (in sanscrito “il Vittorioso”), afferma che raggiunse l’illuminazione sotto un albero di sal[9]. Inoltre nella Valle di Kathmandu in Nepal, si possono trovare tipiche architetture di templi a pagoda nepalesi con ricchissimi intarsi in legno, e la maggior parte dei templi, come il Tempio di Nyatapol (Nyatapola), sono fatti di mattoni e di legno di sal.
Questa pianta è anche il luogo di protezione della maternità infatti la tradizione buddhista afferma che la Regina Maya, mentre era in viaggio verso il regno di suo nonno, diede alla luce Gautama Buddha afferrandosi al ramo di un albero di sal nel Nepal meridionale[10]. Ma anche di trapasso difatti sempre secondo questa religione, il Buddha era disteso tra un paio di alberi di sal quando morì: “poi il Benedetto con una grande comunità di monaci si recò sulla riva opposta del fiume Hiraññavati e si diresse verso Upavattana, il boschetto di sal Mallan’ vicino a Kusinara. All’arrivo, disse al venerabile: “Ananda, per favore preparami un letto tra gli alberi di sal gemelli, con la testa a nord. Sono stanco e mi stenderò[11].” Si lega al misticismo orientale il fatto che il sal fosse l’albero sotto il quale Koṇḍañña e Vessabhū, rispettivamente il 5º e il 23º buddha precedenti a Gautama Buddha, raggiunsero l’illuminazione.
Nel buddhismo, la fioritura del sal è usata come simbolo dell’impermanenza e del rapido passaggio della gloria e così in quello giapponese, questo principio è noto grazie al verso di apertura dell’Heike monogatari che recita: “il colore dei fiori di sāla rivela la verità che i prosperi devono decadere.” (沙羅雙樹の花の色、盛者必衰の理を顯す Jōshahissui no kotowari wo arawasu)[12].
La caducità della condizione umana è rappresentata dagli alberi, come esempi di vita e di morte. Furono utilizzati come personificazione dei martiri per l’Unità d’Italia della IV guerra d’Indipendenza e piantati nei parchi e nei viali della Rimembranza istituiti dal Regno d’Italia con la Circolare del 27 dicembre 1922 emanata dal Sottosegretario al Ministero dell’istruzione on. Dario Lupi, ed infatti su ognuno di essi fu apposta una targa con il nome del militare caduto in guerra ed in qualche caso anche la sua fotografia su cui le famiglie andava a piangere il proprio congiunto: in tutto furono 650.000 gli arbusti piantati.
“Colui che pianta degli alberi ama gli altri oltre se stesso.” sosteneva Thomas Fuller.
L’albero fu anche un luogo di rifugio non solo dalle intemperie, ma anche dalla guerra: sotto un secolare albero di carrubo durante i bombardamenti del 1943 si nascondevano quasi ritualmente, mi raccontava mio padre, gli abitanti di Burgio, sperando forse che la sua possanza potesse proteggerli dal fuoco nemico.
L’agri-cultore è pertanto il custode dei luoghi dove continuamente e ciclicamente si alternano vita e morte; colui che si prende cura dell’ager e di tutto ciò che in esso ricade come dono dell’Onnipotente. Curatore dell’axis mundi, l’asse del mondo, come dice Ignazio Buttitta, “inteso come asse intorno al quale ruota lo spazio (circolare nell’intuizione arcaica), l’albero ha una efficacia più propria. Poiché mentre gli altri simboli appunto riflettono solo la assialità rispetto allo spazio, l’albero la riflette con il suo periodico rigenerarsi (vita-morte-rinascita) rispetto al tempo. L’albero è quindi simbolo unificante del tempo e dello spazio circolari. Non è tuttavia in questi significati che si esaurisce la rilevanza culturale dell’albero…L’albero è considerato sede delle anime dei defunti ed è per questo motivo che le foreste si ritengono abitate da spiriti. Per altro verso, sulle tombe o presso di esse vengono piantati alberi che a un altro livello, attraverso la loro vicenda (non a caso spesso si tratta di specie sempreverdi), simboleggiano la “resurrezione”.”
Con una riflessione metafisica il pensatore del Mosaicosmo Tommaso Romano afferma “l’universo intero è, oltre che realtà nota e per gran parte ignota, esso stesso un simbolo. Partire da questa netta affermazione vorrà dire risignificare e ridonare valore non semplicemente alla superficie delle cose, ma al loro intimo significato, spesso da decifrare oltre le sole apparenze. L’uomo, è stato sempre vocato a rappresentare simbolicamente sé stesso, la natura, il cosmo, l’idea d’infinito, con segni, linguaggi e archetipi che spesso travalicarono i confini geopolitici, diventando perciò universali. Tutte le civiltà, le comunità, le religioni, le culture che hanno espresso ed esprimono valori e sacralità, hanno avuto, e in parte continuano ad avere, un vettore altamente significante nelle più diverse espressioni anche dell’arte (tanto da far dire a Oscar Wilde che “ogni arte è insieme superficie e simbolo”), proprio perché l’uomo sente di raffigurare o trasmettere – oralmente prima e anche con il segno e la scrittura poi – emblemi, che sono già presenti inizialmente in natura e poi nei graffiti e nelle più antiche pitture rupestri. Per Guénon il simbolo, più in generale, è “la reintegrazione dell’essere al centro di questo stato e la piena espansione delle sue possibilità individuali a partire da questo centro, è la restaurazione dello stato primordiale”.
Ecco così il ciclo della vita, l’albero cosmico e la raffigurazione della natura, le scene di caccia e gli animali – molti dei quali ritenuti sacri in svariate tradizioni – nonché gli elementi vitali quali l’acqua, il fuoco, l’aria, le stelle, le nuvole, la luna, il cosmo raffigurato con il carro del sole e le costellazioni, come rappresi in una sfera di unità sacra da cui la natura – foresta di simboli essa stessa – ci dona il sostegno per vivere, con il grano e tutti i suoi frutti.”[13]
E così anche il “Cristianesimo, continua Romano, declinato nelle specifiche e arricchenti tradizioni a Oriente e Occidente, non è da intendersi come una mutilazione del sacro, del mistero, della bellezza, dato che esso stesso, nova et vetera, è un tessuto di simboli e non annulla la tradizione particolare dei popoli, ma la compie nel Cristo-Dio, ne umanizza la deità, esorta all’amore, trasfigura e promette l’eternità, oltre che la resurrezione dei corpi, nel mistero della fede. Non interrompe un granché del passato, dà sostanza veritativa visibile all’invisibile, porge una mano alla speranza….Gli alberi sono monumenti verdi, memoria del tempo che si rinnova, fragili e possenti al contempo. Bisogna distinguere nei miti e nei rituali gli alberi che rappresentano simboli cosmici, di orientamento, di conoscenza e di vita.
Ancestrale è il legame dell’uomo con la pianta e con l’albero, che pervade ogni tipo di cultura e civiltà.[14]”
Il “cultivatore” è portatore di un progetto sacro, che riequilibra le forze del cosmo alterate anche dalla sua stessa opera di agricoltore. La sua azione diviene allora efficace sia nel senso del migliore sfruttamento del suolo ma anche per ristabilire un ordine razionale contrapposto al caos della ”incoltura”, che vedrebbe il terreno, disseminato di sterpi e rovi, popolarsi di animali striscianti e pericolosi.
L’agro ripulito, grazie alla sua opera, assume un aspetto gradevole, sprigiona profumi inebrianti e si lascia ammirare dagli occhi del passante, esso si contrappone simbolicamente al bosco che, continua per suo verso ad essere un luogo selvatico, misterioso, ombroso, al contempo sacro, certamente inquietante e periglioso, sede di forze oscure che si rigenerano anch’esse nel tempo e che solo il sapiente lavoratore della terra sa tenere a bada anche con i suoi riti religiosi. Proprio la sacralità che veniva attribuita alle foreste attrasse nei secoli la costruzioni di santuari e monasteri, luoghi ritenuti metafisicamente magici, in cui si poteva entrare in rapporto diretto con il divino che li si cela. Posti in cui ritualmente in processione, con la presenza dei sacerdoti ritornare, periodicamente ad onorare il genius loci, che in ambito cristiano assunsero la forma di Marie e Santi.
In Sicilia sono tipici i camminamenti di questa natura come quello a Santa Maria di Rifesi che parte da Burgio, o i vari itinerari di Santa Rosalia che iniziano dall’antro oscuro della caverna dall’Eremo di Santo Stefano di Quisquina per finire alla grotta sul Monte Pellegrino di Palermo. Condivido il pensiero di Buttitta quando dice che “il significato ultimo della prova del pellegrino consiste nel ripetere, nel rivivere, la vicenda di nascita, morte e resurrezione della pianta, della natura, del cosmo. Se è possibile leggere in questo viaggio una fuoriuscita dal sicuro cosmos ordinato del paese verso un caos imprevedibile allo scopo di recuperare le “energie” necessarie alla sopravvivenza del gruppo, il richiamo alla ricerca della sacra pianta della vita da parte di Gilgamesh non è improprio. Una ricerca che può dare buon esito solo se compiuta con umiltà e per il bene di tutti. Le “selvagge” energie riportate debbono essere addomesticate dalla norma. Non è un caso che le processioni dell’alloro percorrano tutto il paese: esse compiono un’opera di sacralizzazione dello spazio (delimitando il cosmo in cui la comunità si riconosce) e, nello stesso tempo, di rifondazione e garanzia di ordine, di stabilità.[15]”
Accedere al mondo agreste diviene così un atto religioso, mistico direi, inconsapevole e tragico per chi vi è immerso e per questo che Carlo Levi affermava “nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magia.”
Un’interpretazione aristocratica ed eroica della vita, legata alla proprietà, alla pace, alla tenacia e al contempo alla laboriosità che manifesta una fede incrollabile nelle proprie capacità e nella magnanimità del creato.
Non ho mai visto un agricoltore demordere dal suo obbiettivo, anzi alle volte quanto più il fato si accanisce contro di lui tanta più energia egli effonde nei suoi sforzi. Ha un’incredibile forza di volontà, capace di modificare l’ambiente che lo circonda; è un coraggioso lottatore, rispettoso dell’avversario, un indomabile cavaliere del “lavoro” e come dice il filosofo Ralph Waldo Emerson sa che “ogni nobiltà storica, autentica aggiungo io, riposa sull’agricoltura”: non potrebbe essere altrimenti perchè nel regno di cui è signore natura, cosmo e infinito si legano indissolubilmente a lui ed alla sua opera.
Nella tradizione cristiana questa idea viene incarnata dal mito religioso di Giorgio Martire, il santo guerriero patrono anche del nerocrociato Ordine Teutonico, che come scrive Attilio Mordini porta il significato profondo del suo culto tanto diffuso, perché nel suo nome “dal greco Gheorgos, nella sua accezione più comune significa lavoratore della terra. Ghea infatti è la terra, non soltanto come pianeta e come regione, ma anche come materia; e Georgheo significa appunto operare sulla terra, coltivare….Gheorgos è perciò l’uomo che opera la terra e, dunque, la signoreggia.
Opera la terra della propria natura umana, la terra del proprio corpo, uccidendo la bestia, già insidiosa e lui, e rendendo le passioni docili come il drago legato dalla cintura della principessa di Silene. Ghea è anche una divinità femminile; è appunto la donna, la madre che Omero, in un suo inno, canta quale sposa del cielo, (e quindi terra che dalla forma celeste si lascia informare), e quale Pammeteira, cioè madre di tutte le cose; madre che dona la giustizia e l’ordine civile ovunque.
Giorgio e il cavaliere che opera sulla terra, sulla Tradizione ed uccidere il drago delle forze infere (e cioè inferiori) per rendere il mondo atto alla Grazia del cielo[16]”.
Questo tipo umano apprezza il detto di Plinio il Vecchio “l’occhio del padrone è il miglior fertilizzante” e quello del poeta William Wordsworth “preparare dei terreni può essere considerato un’arte liberale, una specie di poesia e pittura.”
La sua idea di libertà è legata alla proprietà e per questo è stato oggetto di ogni genere di attacchi pseudo intellettuali ed espropri proletari, non solo perché rappresentava l’antica e concreta autonomia del Medioevo ma perchè in un mondo di totalitari il suo stile di vita indipendente, semplice e pacifico è ritenuto un pericolo: un monumento al libero agire e pensare. Vessato da una legiferazione eccessiva ed iperstatalista, non da ora ma da sempre, tanto per fare un esempio Benjamin Franklin amaramente sosteneva “un contadino in mezzo a due avvocati è come un pesce fra due gatti.”
Fortunatamente “la bellezza della campagna, scrive Adam Smith ne Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), il piacere della vita campestre, la tranquillità di spirito che essa permette e, quando l’ingiustizia delle leggi degli uomini non la turbi, l’indipendenza che effettivamente offre, hanno un fascino che più o meno attrae tutti. Così, come il coltivare la terra fu la destinazione originaria dell’uomo, in ogni fase della sua esistenza, egli sembra conservare una predilezione per questa primitiva occupazione….. Gli abitanti della città e quelli della campagna sono reciprocamente gli uni i servitori degli altri.”
Questa alleanza tra agro e città, che ha permesso lo sviluppo della civiltà, speriamo che diventi foriera di una nuova cultura della pace oggi più che mai messa in pericolo dalla dissennatezza dell’umanità e come ci dice il filosofo contadino Gustave Thibon “cerchiamo di essere nel tempo i giardinieri dell’eternità.”
Antonino Sala

________________
[1] Senofonte – L’Economico (IV secolo a.C.), traduzione di Girolamo Fiorenzi (1825).
[2] Su questo argomento Herbert Spencer, L’uomo contro lo Stato, a cura di Alberto Mingardi, Liberilibri.
[3] Citato da Ignazio E. Buttitta in Feste dell’alloro in Sicilia, Fondazione Ignazio Buttitta.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Goffredo di Crollalanza, Enciclopedia araldico cavalleresca: Prontuario nobiliare, Pisa, Giornale Araldico, 1887.
[9] Hiralal Jain e Adinath Neminath Upadhye, Mahavira, his times and his philosophy of life, Bharatiya Jnanpith, 2000.
[10] Robert Jr Buswell e Donald S. Jr. Lopez (a cura di), Princeton Dictionary of Buddhism, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2013.
[11] Maha-parinibbana Sutta: The Great Discourse on the Total Unbinding” (DN 16), tradotto dal pali da Thanissaro Bhikkhu.
[12] Traduzione di Helen Craig McCullough.
[13] Tommaso Romano, In Natura Symbolum et Rosa, Ed. CO.S.MOS.
[14] Ibidem.
[15] Ignazio E. Buttitta in Feste dell’alloro in Sicilia, Fondazione Ignazio Buttitta.
[16] Attilio Mordini, L’Ordine costantiniano di San Giorgio. La regola di San Basilio e altri scritti di simbologia e cavalleria (1962-1964) a cura di Tommaso Romano, Fondazione Thule cultura.

Elogio dell’Agri-Cultore. Sacralità, Pace e Operosità dell’uomo di campagnaultima modifica: 2022-06-01T09:01:21+02:00da torreecorona
Reposta per primo quest’articolo

I commenti sono chiusi.